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Una cultura aziendale diversa

2. Crisi e Responsabilità Sociale d’Impresa

2.5. Una cultura aziendale diversa

Analizzando i motivi per i quali le imprese che non si concentrano sulla massimizzazione del valore per gli azionisti ottengono rendimenti molto elevati, si può osservare come i dirigenti di tali società siano liberi di indirizzare i loro sforzi sulla costruzione di un business vero e proprio, invece che sulla gestione delle aspettative degli azionisti.

Alan G. Lafley, quando venne assunto come amministratore delegato da Procter &

Gamble, non ebbe difficoltà, trovando appoggio nella cultura dell’azienda, a dire agli azionisti che le cose avrebbero continuato a peggiorare nel breve periodo perché la società doveva correggere alcuni elementi del suo business, e ciò avrebbe richiesto un certo tempo. La maggior parte degli amministratori delegati sarebbe molto esitante nel mandare un tale messaggio a Wall Street. Molti di loro cercherebbero, probabilmente, di trovare soluzioni rapide piuttosto che significative. E la maggioranza dei consigli di amministrazione scoraggerebbe una comunicazione agli azionisti, o addirittura la impedirebbe.

Lafley decise addirittura di far rimuovere dalla sede centrale gli schermi che permettevano di seguire in tempo reale l’andamento dei titoli della Procter &

Gamble, dando indicazione ancor più significativa di quello che doveva essere la nuova posizione degli azionisti nella società. Questi schermi erano stati installati ovunque per ordine del precedente amministratore delegato, per stimolare i dipendenti a concentrarsi sulla creazione di valore per gli azionisti. Lafley non è affatto l’unico dirigente ad aver intuito l’importanza di tali atti simbolici.

Research In Motion (RIM), la società che produce il Blackberry, è un altro esempio di azienda che si è sempre impegnata a dimostrare di essere contraria al principio dello shareholder value. Nel 1999 i suoi fondatori concordarono una regola in base alla quale tutti i dirigenti che avessero parlato del prezzo dei titoli nei luoghi di lavoro avrebbero dovuto acquistare una ciambella per ogni persona in azienda. Le

prime infrazioni non furono molto dolorose per i “trasgressori”, ma con la crescita della società la situazione cambiò. Nel 2001, quando il responsabile delle operazioni parlò dell’impennata del prezzo delle azioni della RIM, come punizione gli fu imposto di procurare più di ottocento ciambelle per la successiva riunione settimanale dei dipendenti, e questi dovette persino fare accordi speciali con le pasticcerie locali per averne abbastanza. Da allora sembra che la regola della ciambella sia rimasta impressa nelle menti dei dirigenti della società.

Un altro punto chiave, che fa la differenza per trasmettere una cultura d’impresa non orientata allo shareholder value, sono le retribuzioni. Quando le aziende non sono intenzionate a incrementare il valore per gli azionisti, infatti, i loro consigli di amministrazione, in genere, non distraggono gli amministratori con retribuzioni su base azionaria, collegate ai risultati di breve termine, o realizzate al momento del pensionamento.

I premi a breve termine spingono i dirigenti a gestire aspettative di breve termine, piuttosto che incoraggiarli a realizzare progressi effettivi. E premi con un certo valore al pensionamento fanno sì che i dirigenti gestiscano le attività affidate loro pensando solo a quel traguardo. Tra le numerose componenti strutturali che hanno contribuito all’attuale tracollo, spiccano anche le robuste buonuscite incassate dal top management delle aziende che nella crisi hanno avuto un ruolo attivo. I vari manager sono stati liquidati con pacchetti retributivi esorbitanti: l’ex amministratore delegato di Merrill Lynch, per citarne uno, ha incassato ben 160 milioni di dollari, mentre molti suoi ex dipendenti hanno perso il posto di lavoro e molte aziende clienti si sono trovate sull'orlo del fallimento a causa dei prodotti derivati su cui la banca li aveva fatti investire. Così, se l’azienda crolla dopo aver tagliato il traguardo, i relativi problemi saranno di qualcun altro.

Tornando a General Electric, è sufficiente guardare un grafico storico dei titoli per notare l’impatto della stock compensation legata al pensionamento di Welch. È chiaro che il suo successore, Jeff Immelt, ha preso in carico un’azienda affetta dai tipici problemi associati alla fissazione della linea del traguardo. Anche se dirigerà in maniera eccezionale, Immelt non avrà grandi possibilità di riportare nuovamente il valore per gli azionisti ai livelli raggiunti al momento della sua nomina.

Il sistema di retribuzione di Lafley in Proctor & Gamble, invece, è stato quello di una società con una cultura volta alla soddisfazione della clientela. Circa il 90% del suo compenso totale è stato costituito da stock option e azioni vincolate. Nonostante oggi non sia affatto insolito per un amministratore, le stock option ebbero un periodo particolarmente lungo di maturazione, di tre anni, e un successivo periodo di possesso vincolato di due anni. Lafley, inoltre, scelse di tenere le opzioni il doppio del tempo richiesto e ha venduto solo quelle predeterminate dal suo piano retributivo.

Dei titoli vincolati, che rappresentavano una parte rilevante dell’incentivo di Lafley, nessuno è effettivamente maturato prima, o al momento del pensionamento. Il vesting period iniziava un anno dopo il suo ritiro per una durata di 10 anni. Se Lafley avesse gestito le aspettative degli azionisti per raggiungere il picco massimo al suo pensionamento, destinandole a crollare in seguito, avrebbe danneggiato i propri successivi compensi. È stato quindi incentivato, durante la sua dirigenza, a impostare il business sul lunghissimo termine e a far crescere un valido successore, lasciando Proctor & Gamble in ottime condizioni.

Molti manager, al posto di Lafley, avrebbero sollevato obiezioni su un sistema retributivo come il suo, sostenendo che li avrebbe ingiustamente esposti agli errori dei loro successori. È proprio qui che entra in gioco la cultura aziendale. Il sistema di compensi di Proctor & Gamble sarebbe davvero ingiusto nel contesto di una cultura aziendale in cui la retribuzione è basata sulle azioni e orientata al breve periodo, e in cui domini uno spirito egoistico. In culture simili è difficile applicare una retribuzione di lungo termine, e la mentalità rimane inevitabilmente egoistica.

Nelle culture orientate al servizio del cliente, tuttavia, accordi retributivi come quelli scelti da Lafley sono di buon senso e di non difficile applicazione, inoltre rafforzano i comportamenti che creano un valore a lungo termine.

Anche con la massimizzazione del valore per il cliente come obbiettivo principale, con la giusta mentalità e con un periodo estremamente lungo per una retribuzione basata sulle azioni, il richiamo della massimizzazione del valore per gli azionisti è sempre presente.

In Proctor & Gamble Lafley aveva ereditato un sistema retributivo logoro da anni, che legava i premi per gli alti dirigenti al Total Shareholder Return (TSR), al profitto totale per gli azionisti, definito come l’aumento del prezzo delle azioni per un

periodo di tre anni. Il TSR di Proctor & Gamble si confrontava, nell’ambito del sistema delle retribuzioni, con i risultati di un gruppo di società omologhe: se il TSR di Proctor & Gamble fosse rientrato nella metà superiore del gruppo, allora i dirigenti avrebbero ricevuto i bonus.

Lafley, tuttavia, notò che la grande performance del TSR in un dato anno era regolarmente seguita da scarsi risultati nell’anno successivo, poiché gli elevati profitti totali per gli azionisti erano stimolati da un forte aumento delle attese, che semplicemente non potevano essere realizzate nell’esercizio successivo. Lafley si rese conto che i picchi di valore per gli azionisti erano poco correlati alle prestazioni di business reali ed erano, invece, profondamente collegati all’immaginazione degli azionisti, che speculavano sul futuro della società. Tale intuizione spinse Lafley a cambiare gli indicatori per la misurazione del bonus dal TSR ad un sistema definito TSR operativo, che si basa su una combinazione di tre misure dell’andamento reale della gestione: il miglioramento dei margini di profitto, la crescita della vendite e l’aumento di efficienza del capitale.

La sua convinzione poggiava sull’ipotesi che se Proctor & Gamble soddisfava i clienti, il TSR operativo sarebbe aumentato, e il valore dei titoli sarebbe salito autonomamente nel lungo periodo. Inoltre, il TSR operativo è una misura che i responsabili delle business unit di Proctor & Gamble possono realmente influenzare, diversamente dal TSR basato sul mercato.

Naturalmente, non tutte le aziende che pongono il cliente al centro saranno una Proctor & Gamble o una Johnson & Johnson, ma se un numero crescente di aziende farà del cliente la sua priorità, la qualità del processo decisionale migliorerà.

Pensare al cliente costringe a focalizzare l’attenzione sul miglioramento delle operazioni, dei prodotti e dei servizi offerti. Ciò, peraltro, non implica che si perderà di vista la gestione dei costi, la motivazione al profitto di certo non sparirà. I manager mirano agli utili tanto quanto gli azionisti, perché più l’impresa è in grado di generare profitti più è disponibile denaro per pagare i dirigenti.

La necessità di un buon valore delle azioni è certamente un vincolo naturale per qualsiasi altro obiettivo ci si ponga. Ma fare di quest’ultimo l’obbiettivo primario, provoca senza dubbio la tentazione di sostituire gli utili a lungo termine, derivanti dal

valore che si crea nell’attività dell’azienda, con profitti temporanei, basati sul valore connesso alle aspettative. Così, per fare in modo che i dirigenti si concentrino sul primo è necessario reinventare la finalità dell’impresa.

La crisi innescata dai mutui subprime ha insegnato molto sulla sostenibilità degli obiettivi e sull’importanza di avere una visione di lungo periodo. Probabilmente sono caduti gli ultimi pretesti di chi credeva nella finanza come unica guida delle scelte aziendali. La capacità di definire strategie che garantiscano la sostenibilità nel tempo, e il consolidamento della relazione con il cliente sono qualità ora riconosciute come elementi portanti del manager di successo.

I modelli manageriali destinati alla sopravvivenza sono quelli che trovano le basi nel valore sociale dell’azienda come fattore di creazione di valore per la collettività, per gli stakeholder, piuttosto che alla generazione di profitto per il solo azionista.

Modelli mai pienamente contestati in passato, ma spesso sottovalutati o addirittura irrisi, considerati eticamente validi, ma teorici e poco praticabili stanno superando i sistemi del guadagno sopra ogni cosa, ormai dimostratisi poco durevoli e destinati al collasso. La battaglia di visioni e di “credo” manageriali culmina con la vittoria del capitalismo fondato sul cliente, più efficace, paradossalmente, anche nel produrre valore sul lungo termine per l’azionista.

Non c’è impatto solo sulle aziende, ma di riflesso su tutta la società e l’economia;

non ci sono scorciatoie o guadagni facili, la creazione di valore è il risultato di sforzi successivi, di radicamento del mercato, di scelte coerenti e consistenti nel tempo.

Forse è necessario riportare ai modelli manageriali qualche caratteristica originale che si è persa nel tempo: qualche qualità della gestione padronale, in cui i fondatori hanno sempre prestato attenzione alla continuità della loro impresa, a renderla solida nel tempo, a far sì che sopravvivesse a loro. Se un po’ di quello spirito venisse assorbito dal management, forse la cosa gioverebbe a tutta l’economia.