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L’origine della crisi in termini di RSI

2. Crisi e Responsabilità Sociale d’Impresa

2.1. L’origine della crisi in termini di RSI

Come è noto dalle ricostruzioni di economisti ed analisti, la crisi dei mutui subprime ha avuto origine da un complesso meccanismo: le banche americane che concedevano i mutui non mantenevano presso di loro i rischi di insolvenza correlati, ma li suddividevano e li impacchettavano in prodotti finanziari derivati molto complessi. Dopo aver concesso il credito, procedevano alla sua cartolarizzazione dalla quale ottenevano strumenti finanziari: dei titoli obbligazionari. Questi, insieme ad altre cartolarizzazioni di vario tipo, sono finite poi nei portafogli di altri strumenti finanziari, titoli composti da panieri di debito che potevano ricevere alti rating dalle agenzie di valutazione del rischio in quanto, al momento, non venivano evidenziati particolari motivi di preoccupazione.

Successivamente anche questi pacchetti potevano essere confezionati a loro volta in ulteriori derivati. La crisi finanziaria può essere dunque riassunta in un fatto: una conversione del modello di business degli operatori finanziari basata su una diversa diversificazione del rischio10.

Così facendo le banche contavano di frazionare il rischio tra una miriade di acquirenti e quindi di poter generare all’infinito prodotti finanziari da piazzare sul mercato con alti rendimenti. A un estremo e all’altro della catena si trovavano persone incapaci di capire ciò che veniva loro offerto dalle banche. In questo modo i più poveri, che hanno iniziato ad acquistare case che non potevano permettersi hanno innescato la crisi, e sono poi rimasti inermi nelle mani delle banche, che grazie all’innovazione finanziaria, si preoccupavano solo di distribuire denaro ma non di

10Ferrari L., S.Renna, R. Sobrero (2009), “Oltre la CSR”

averlo indietro, perché trasferivano il rischio su qualcun altro. Alle banche, in questa maniera, non importava più di essere selettive nei confronti dei debitori.

All’altro capo di questa filiera c’erano i risparmiatori che investivano sui titoli di queste società finanziarie, confidando sul loro nome e sul fatto che a presentare come buoni quei titoli rilavorati erano le più grandi agenzie di rating al mondo. La figura 2.1 mette in evidenza graficamente il meccanismo attraverso il quale le banche concedevano mutui subprime ai mutuari per poi cartolarizzarli e porli nei portafogli degli investitori.

Figura 2.1.1. Meccanismo

Fonte: Credito Cooperativo Veneto

Lehman Brothers, Merrill Lynch, Goldman Sachs, e altre grandi banche d’affari vendevano i prodotti finanziari ad alto rischio e, nel corso del boom di queste cartolarizzazioni, avevano acquistato istituti competenti nel lavorare e impacchettare i mutui subprime. Lehman Brothers e Merrill Lynch ne avevano acquisite ben tre a testa, Bear Sterns ne aveva comprate due. Queste società garantivano loro la produzione di strumenti finanziari e fornivano il continuo sviluppo di nuovi prodotti.

Proprietari di case

Investitori

Banche

Società di cartolarizzazione Garanzie

Mutui

Titoli

Mutui, Linee di liquidità

Titoli, prodotti finanziari complessi

Nel 2006 questo business arrivò a rappresentare il 33% del loro giro d’affari, contro il 13% del 2000. I cinque istituti di investimento di Wall Street - Morgan Stanley, Lehman Brothers, Bear Sterns, Goldman Sachs e Merrill Lynch – dichiararono profitti per 130 miliardi di dollari, e altrettanto alti furono i compensi dei loro amministratori delegati. Stanley O’Neal, di Merrill Lynch portò a casa 47,3 milioni di dollari, James Cayne, di Bear Sterns, 14,8 milioni e Richard Fuld, di Lehman Brothers, 10,9 milioni11.

Ciò che appare singolare è che, oltre all’enorme successo finanziario e a risultati di gestione sorprendenti, le grandi banche commerciali americane, istituzioni finanziarie come Fannie Mae e Freddie Mac, altre grandi case d’investimento impegnatissime nella speculazione come Bear Sterns, hanno ricevuto onori e riconoscimenti anche da parte delle agenzie e società di rating etico.

AccountAbility Rating nel 2007 pone tra le 100 corporation con il più alto rating di sostenibilità tre delle cinque banche d’affari già nominate: al 75° posto Merrill Lynch, al 76° Goldman Sachs, al 79° Morgan Stanley12. Sempre in questa classifica rientrano in buona posizione anche altri istituti coinvolti nella grande speculazione finanziaria: Citygroup, Fortis Bank e Bank of America. Inoltre il Dow Jones Sustainability Index13, indice globale che registra le performance finanziarie delle aziende che applicano criteri di sostenibilità nel mondo, ha incluso fino al 2005 Fannie Mae nonostante questa fosse sotto inchiesta fin dal 2003 per aver manipolato i propri bilanci.

FTSE4Good14, altro indice che misura le performance aziendali in termini di rispetto degli standard di Responsabilità Sociale globalmente riconosciuti, al fine di facilitare l'investimento verso queste stesse aziende, cancellava dalla propria lista Bear Sterns proprio quando, nel 2005, il Dow Jones Sustainability Index ne decretava l’ammissione nella propria classifica. Entrambi gli indici, invece, si trovavano in accordo per l’ammissione nei propri ranghi, nel 2006, di Goldman Sachs, un’altra

11C. Gatti, “American crack – cause economiche, errori politici, responsabilità bancarie:

da Clinton a Bush, l’origine della grande depressione 2008”, Il sole 24 ore, 25 settembre 2008

12 www.accountabilityrating.com

13 www.sustainability-index.com

14www.ftse.com

delle protagoniste nella vicenda dei derivati “tossici”, quando la crisi cominciava a lanciare i primi segnali d’arrivo.

È evidente dai fatti fin qui descritti come le agenzie di rating abbiano assegnato maggior peso ai programmi di charity o di finanziamento dei progetti di riduzione delle emissioni nocive realizzati da tali istituti, piuttosto che analizzare i loro business, la cui ampiamente remunerata rischiosità garantiva loro di finanziare programmi ad alto contenuto sociale e ambientale. Goldman Sachs, ha dato vita ad un Programma di formazione di alto livello per 10 mila donne imprenditrici nei paesi in via di sviluppo: “10.000 women”, dotato di un fondo di 100 milioni di dollari, circa 70 milioni di euro, per finanziare l’autoimprenditorialità femminile nelle regioni sottosviluppate dell’Africa. Morgan Stanley, invece, ha creato la prima Carbon Bank, che assiste i propri clienti nel diventare “carbon neutral”, e per compensare le emissioni cancellando crediti di CO2 in accordo ai più autorevoli standard internazionali.

Ma non è solamente spingendo le imprese ad essere più “committed” sul piano socio-ambientale che ci si potrà aspettare un immediato incremento del livello di eticità nel business. Così come una semplice verifica sul grado di questo esclusivo tipo di virtuosità non dovrebbe bastare alle agenzie di rating per decidere se inserire o meno un’impresa all’interno degli indici di sostenibilità.

Il grado di sostenibilità dei processi economici va messo alla prova, innanzitutto, sul piano della correttezza intrinseca dei meccanismi fondanti di tali processi, ovvero del modo attraverso il quale viene generato il valore economico15.

Da fine 2006, dall’inizio della crisi, e per oltre un anno le banche hanno tentato di negare l’evidenza e invece di prendere atto delle loro perdite hanno spiegato che non era possibile valutarle, così se non c’erano perdite valutabili non c’era neppure il fallimento. Nell’attesa che la situazione si risolvesse, però, il meccanismo finora utilizzato dalla finanza creativa si era bloccato, e le condizioni economiche iniziavano a degradarsi. Così cominciarono ad arrivare le prime insolvenze: le cinque merchant banks si trovarono in portafoglio grandi quantità di derivati tossici che dovevano ancora essere impacchettati e piazzati sul mercato, prodotti finanziari pessimi che non si potevano più consolidare. Le difficoltà delle case finanziarie

15http://beta.vita.it/csr

portarono ad una grave crisi di fiducia. Nel 2008 Bear Sterns venne salvata con l’intervento della Fed, Lehman Brother collassò dichiarando il fallimento, Merrill Lynch fu acquistata appena in tempo da Bank of America, Fannie Mae e Freddie Mac furono messe sotto tutela federale.

Le due banche d’affari sopravvissute, Morgan Stanley e Goldman Sachs si sottomisero ai controlli della Fed, e rinunciando al loro status d’indipendenza, diventarono normali banche commerciali, per poter accogliere anche i depositi dei risparmiatori. Infine, Bank of America e CityGroup annunciarono nel 2008 grossi tagli di posti di lavoro.

Fino ad oggi i numeri della crisi hanno continuato a crescere sia per quanto riguarda i tagli di posti di lavoro, sia per quanto concerne gli aiuti pubblici, soldi dei contribuenti erogati dai governi per salvare banche e aziende in difficoltà.

È dunque lecito affermare che ciò che è accaduto in questi anni nei mercati finanziari appare significativo di come la gestione del rischio sia, e debba essere considerata, elemento portante della sostenibilità d’impresa.

Gli azionisti, fornendo il capitale, accettano il rischio finanziario residuale del fare business: in ragione di questo rapporto, ricevono la loro rendita, i profitti residuali.

Ma essi non hanno alcuna garanzia contrattuale di avere un ritorno sicuro, non hanno un pagamento fisso, perciò ogni piccola parte di capitale aziendale che verrà distratta verso attività diverse dal business in cui opera l’impresa, potrà considerarsi una diminuzione degli utili, una perdita diretta per le loro tasche. Secondo tale ragionamento quindi, la RSI equivarrebbe ad una parte di capitale distratto dal fine principe della rendita: una pratica che portando via ricchezza dalle tasche degli azionisti, appare simile ad un furto.

Tornando alle teorie esposte nella prima parte, questa visione richiama il pensiero la di Friedman, per il quale l’unico dovere dell’impresa è massimizzare i profitti per i propri azionisti: la Responsabilità Sociale d’Impresa appare come qualcosa di addizionale.

Ecco invece come, in realtà, la perdita e il furto, si sono verificati nella direzione esattamente opposta nel caso in analisi. Nella vicenda della finanza creativa è saltata per gli azionisti ogni legittimazione a far propri i profitti, dato che il rischio è stato trasferito su altri stakeholder, che ne hanno, alla fine, pagato le conseguenze.

La conclusione tratta è che qualsiasi impresa agisca, come le banche americane coinvolte in questa vicenda, operando un trasferimento improprio ad altri stakeholder del rischio che dovrebbe gravare effettivamente ed esclusivamente su di essa, non è responsabile. Essa mette in atto una produzione del valore non sostenibile, basata sulla cessione del rischio, scaricato su componenti del sistema più deboli: dipendenti, clienti e ambiente. Un approccio questo, indubbiamente contrario ai principi della sostenibilità, che dimostra un atteggiamento di adesione alla RSI esclusivamente per mettere in vetrina una buona immagine, e avere ritorni economici in termini di investimenti.