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Responsabilità Sociale d’Impresa: risorsa strategica per il futuro

Questa tesi parte dalla constatazione che la concezione originaria della Responsabilità Sociale d’Impresa, così com’era definita nel “Green Paper” della Commissione Europea nel 2001, risulta inadeguata oggi a descrivere l’eterogeneità e la complessità dei significati e delle pratiche che vengono racchiuse sotto l’acronimo RSI. Con questa denominazione, RSI, vengono infatti definite attività gestionali e manageriali che, pur prendendo le mosse dall’originaria matrice indicata dalla Comunità Europea, “integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, coprono aree d’azione diversissime, si realizzano con le più disparate modalità, sono collocate in aree funzionali diverse, e soprattutto si ispirano a visioni diverse e anche opposte della mission aziendale e dei rapporti tra impresa e società.

Così coesistono, in un momento storico caratterizzato da profondi cambiamenti e preoccupazioni crescenti per il futuro del pianeta, la posizione di chi continua a vedere l’impresa come un soggetto autonomo e separato dal resto del mondo e quindi in costante competizione con esso in un gioco a somma zero, e quella di chi riconosce inevitabile la convenienza reciproca della ricerca della relazione tra stakeholder interni ed esterni all’impresa, come condizione necessaria a portare al successo l’impresa stessa, in una logica di crescita dell’intero sistema economico e sociale.

I sostenitori della prima impostazione, che trae fondamento dalle note affermazioni dell’economista Premio Nobel Milton Friedman, sono coloro che tendono a negare l’utilità per l’impresa di interessarsi a tematiche sociali, essendo l’unica responsabilità e unico dovere dell’impresa fare profitti per i propri azionisti, shareholders, operando ovviamente nel rispetto delle leggi. Per i fautori di questa teoria non esiste dunque Responsabilità Sociale d’Impresa, mentre può esistere l’atteggiamento di farsi carico di istanze sociali, da parte dell’impresa, che interviene per restituire qualcosa alla società in termini di filantropia, di beneficenza, magari ottenendo un ritorno positivo per la propria reputazione. Un approccio, questo,

abbastanza semplice, in cui la RSI è completamente separata dai processi aziendali ed estranea al core business: una scelta opportunistica per la costruzione di una buona immagine.

All’estremo opposto si colloca, invece, la posizione di quanti, ispirandosi alla

“Stakeholder Theory” di Edward Freeman, nata negli anni Ottanta e tuttora in evoluzione, considerano il “sociale” come tutta la “società”3. Un complesso universo è costituito da differenti stakeholder con i quali l’impresa entra in relazione e verso i quali vanta diritti e si assume obblighi derivanti dal fatto che tali stakeholder concorrono, insieme all’impresa, alla produzione della ricchezza. Hanno quindi titolo per essere immessi nella generazione e nel godimento di tale ricchezza, in modi che trascendono e superano gli obblighi imposti dalla legge e dalle normative vigenti. Da qui la volontarietà, che però in questo caso assume una valenza strategica.

Questo è un approccio caratterizzato da una maggiore complessità, in cui la Responsabilità d’Impresa diviene ricerca del modo migliore per far crescere la propria parte del sistema, la propria impresa (shareholder), senza penalizzare, anzi promuovendo la crescita di tutto il sistema e delle sue componenti (stakeholder).

Un’impresa, secondo tale concezione, non ha più come obiettivo produrre per il mercato, ma produrre con gli stakeholder, dove questi includono il mercato, i clienti, i consumatori, le istituzioni e l’ambiente.

Figura 1.1. L’intreccio tra impresa e stakeholder

Fonte: A. M. Chiesi, A. Martinelli, M. Pellegatta, “Il Bilancio Sociale, stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”

3 Ferrari L., S.Renna, R. Sobrero (2009), “Oltre la CSR”

Consumatori Investitori

Fornitori Comunità

Istituzioni Ambiente IMPRESA

Il modo di agire “Responsabile” per l’impresa è quindi tener conto di tutti gli attori che impattano sulla sua attività e che da essa vengono coinvolti. Si forma così una più ampia visione strategica: nell’attuale realtà di un mondo sempre più globale e di mercati sempre più complessi, si arriva a una migliore gestione, a una maggiore capacità di soddisfare i bisogni, in un aumento della competitività, in sintesi a un miglior modo di fare impresa.

Freeman definisce questa impostazione strategica “Stakeholder Mindset”, uno stato mentale orientato agli stakeholder, il quale per essere efficace, deve essere volontario e condiviso da tutto il management aziendale, che deve essere attivamente coinvolto.

Freeman propone quindi una RSI che trova realizzo durante la produzione della ricchezza da parte dell’impresa tramite una precedente analisi strategica. Friedman invece considera le attività sociali come qualcosa da attivare ex-post, e sempre nel primario interesse dell’impresa.

Naturalmente tra queste due estreme scuole di pensiero trovano posto numerose situazioni e visioni intermedie, caratterizzate da un’altissima velocità di transizione da una forma all’altra e da una rapida evoluzione. Si potrebbe dire che la RSI in questo momento è in una fase fluida, anche se il percorso verso la RSI strategica di Freeman sembrerebbe ormai decisamente avviato. A prova di questa affermazione,

“The Economist”, rivista sempre attenta e aggiornata sulla evoluzione dei temi manageriali, riporta: “La Responsabilità Sociale d’Impresa, un tempo considerata come una benefica attività marginale, viene oggi considerata come un movimento di primo piano. Ma a tutt’oggi poche società la stanno realizzando correttamente4”.

La RSI è oggi una realtà nota, praticata, riconosciuta come positiva, e il modo corretto di praticarla secondo l’ ”Economist”, che fa riferimento a numerosi esempi, testimonianze e dati derivanti da recenti indagini e statistiche, sarebbe quello di attuare strategie d’impresa orientate alla creazione di situazioni win-win, cioè quelle in cui ciò che è buono per l’impresa coincide, almeno in parte, con ciò che è buono anche per altre componenti della società.

Su un piano maggiormente scientifico, argomentano a tal proposito anche Michael Porter e Mark Kramer, che in un articolo pubblicato sull’“Harvard Business Review”

del gennaio 2007, fanno distinzione tra RSI reattiva e RSI strategica. I due autori

4The economist, 11 gennaio 2008.

spiegano che per poter operare in modo strategico, l’impresa deve saper prima di tutto realizzare una buona integrazione tra interno ed esterno, e saper selezionare le cause su cui investire in modo prioritario, al fine di creare un valore condiviso, ossia un beneficio rilevante per la società che rivesta anche un valore per l’impresa. Si deve arrivare dunque, anche per Porter e Kramer, ad una situazione win-win. Nel seguito dell’articolo affermano: “La RSI strategica non si limita a un supporto di ampio respiro alle cause sociali e a una gestione sistematica degli effetti della catena del valore, ma prevede l’attuazione di un numero limitato di iniziative che siano in grado di portare benefici ampi e significativi alla società e al business. In questo modo i problemi sociali diventano una forte opportunità invece che un costo o un vincolo5”.

Le argomentazioni e le conclusioni dell’“Economist” e di Porter e Kramer circa la natura sempre più strategica della RSI, in sintonia con la Teoria degli Stakeholder di Freeman, appaiono sempre più condivise soprattutto nei tempi recenti segnati dalla crisi finanziaria. È sulla base di questa premessa, infatti, che si può pensare a una seria politica di riforma del capitalismo, a partire proprio dalla sua articolazione cellulare: l’impresa. L’introduzione della RSI, così intesa, come “criterio guida”

della governance d’impresa, come modello strategico e gestionale ha l’obiettivo di

“stabilizzare nel lungo periodo la crescita economica e reddittuale e di rafforzare le consistenze patrimoniali. È alternativo al paradigma ideale, strategico e gestionale dei mercati finanziari, saturo di contraddizioni sociali e ambientali, esposto ai rischi delle cadute reputazionali, delle crisi ricorrenti, delle distruzioni di valore, dell’instabilità, dell’erraticità del valore 6”.

Ancora più conclusivo in tal senso è il fatto che le imprese di maggior successo, quelle che vengono portate ad esempio di pratiche eccellenti, sembrano abbracciare con decisione la linea dell’integrazione strategica e, seppur con diversa gradualità hanno iniziato negli ultimi anni a mettere in pratica tale orientamento e a modificare le loro strutture organizzative e i loro principi di governance per poter operare in questa direzione.

5M. Porter, M. Kramer (2007), “Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo e la Corporale Social Responsibility”, Harvard Business Rewiew Italia

6A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

Figura 1.1. Classificazione dei comportamenti aziendali

Fonte: Altis

Inoltre lo sviluppo non si limita alle multinazionali e alle aziende di grandi dimensioni ma coinvolge migliaia di aziende in tutto il mondo, che dispongono oggi di programmi di RSI e di una Direzione o di un Manager specificatamente creati per sovrintendere alla RSI. In Italia, nel 2006, è stato creato il RSI Manager Network Italia: una rete di esperti e professionisti che ha come mission quella di sviluppare le competenze dei propri associati e contribuire alla diffusione della cultura della Responsabilità Sociale d’Impresa7. Secondo indagini svolte da questo Network il numero di manager specificatamente dedicato alla RSI sta aumentando in maniera esponenziale e gli investimenti destinati dalle imprese medio-grandi (con oltre 100 dipendenti) a iniziative di Responsabilità Sociale (definite “a sostegno della cultura, dell’ambiente/sviluppo sostenibile, della solidarietà e del personale interno”) sono più che raddoppiati dal 2001 ad oggi.

Ciò che appare osservando questa rapida evoluzione, è che nella breve storia della RSI si stia arrivando velocemente a ribaltare il significato originale di questa pratica:

7 Molteni M., Bertolini S., Pedrini M. (2007), “Il mestiere di CSR manager. Politiche di responsabilità sociale nelle imprese italiane”

FILANTROPIA CINISMO

AUTOLESIONISMO

IMPRENDITORIALITÀ SOCIALMENTE

ORIENTATA

No Si

Bassa Alta

QUALITÀ DELLE RELAZIONI CON GLI STAKEHOLDER

REDDITIVITÀ E SOLIDITÀ ECONOMICA

da un concetto centrato sull’egoismo dell’impresa orientata al massimo profitto possibile, alla necessità per l’impresa di perseguire l’integrazione con gli altri soggetti, rinunciando alla propria centralità assoluta rispetto agli altri stakeholder.

Evidentemente è auspicabile che l’impresa nel suo insieme crei il più alto valore possibile, ma non meno importante è la questione della ripartizione di questo valore tra le categorie sociali che hanno contribuito a crearlo. Può accadere, infatti, che la creazione di valore per gli azionisti comporti la distruzione di valore per la società.

In questo caso l’aumento di valore delle azioni è conseguenza di un disinvestimento e di un maggior costo per l’impresa, cioè di una distruzione di valore nel vero senso del termine. È vero che gli azionisti sono soci delle imprese, ma spesso la loro sorte non è legata alle prospettive future di queste ultime, essi hanno infatti la possibilità di passare da un titolo all’altro con tutta l’incostanza necessaria a servire meglio i propri interessi. Bisogna dunque dire che la creazione di valore per gli azionisti è sinonimo di aumento della rendita che viene loro servita. E la rendita non ha nulla a che vedere con la creazione di valore, ma consiste nel dirottare a proprio vantaggio il valore creato da altri 8.

È proprio per portare una parte di quel valore a tutte le componenti del sistema, e promuovere lo sviluppo di tutta la società di cui fanno parte, che le imprese lungimiranti adottano lo “Stakeholder Mindset”, così da restare vitali e competitive nel tempo, capaci di affrontare meglio le turbolenze del mercato e magari consentire alla società di non trovarsi di fronte a crisi di tale portata.

La crisi dunque deve portare a una riforma dal basso: si deve scommettere sulla società come protagonista fondamentale, come soggetto in grado di produrre e anche di ridistribuire ricchezza. La politica economica di lungo termine che veramente serve è un maggior equilibrio nella distribuzione dei redditi, infatti la causa strutturale della crisi in corso è proprio la “diseguale” distribuzione del reddito, che determina un deficit di domanda e dunque la recessione: i consumi privati sono il cuore della crisi. In USA lo hanno chiamato “spread the wealth”, diffondere la ricchezza, secondo il principio citato da Barack Obama nel famoso dialogo con Joe l’idraulico9.

8 A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

9A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

Si arriverebbe così ad un nuovo progetto di capitalismo, che affronti i suoi problemi verso l’insostenibilità ambientale e politica. Si giungerebbe ad un progetto che può essere realizzato solo usando “eticamente” il mercato.