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Contraddizioni e limiti dell’attuale RSI

3. RSI e competitività

3.4 Contraddizioni e limiti dell’attuale RSI

Nonostante i temi della Responsabilità Sociale d’Impresa siano sempre più discussi nei convegni, all’interno delle imprese, e universalmente noti, il passo fondamentale per rendere questa cultura aderente anche nella pratica alle sue concezioni teoriche non è ancora del tutto compiuto.

La RSI, oggi, è certamente riconosciuta come un modello in grado di integrare i tradizionali strumenti di gestione, tuttavia i suoi precetti non contano ancora abbastanza da influire in maniera considerevole sulla logica dell’azienda, che continua a mantenere la sua centralità egocentrica. Ciò che più conta, infatti, è sempre il vantaggio sui concorrenti, l’anticipare gli altri nel guadagnare quote di mercato, e l’azienda resta, in quest’ottica, la protagonista indiscussa in continua competizione con altri soggetti che offrono servizi e prodotti analoghi. La RSI è colta come un fenomeno al quale aderire per non restare indietro, ma si perdono di vista i suoi fondamenti teorici, e il vero motivo per il quale vale la pena mettere in atto una politica aziendale socialmente orientata. Non è corretto considerare come win-win una situazione in cui il vantaggio è costituito da un lato dalla costruzione di un pozzo in un villaggio africano e dall’altro dall’aumento di notorietà di un brand in termini di reputazione. Non dovrebbe rientrare in questo concetto il vantaggio diretto dell’azienda, dove la RSI è un’attività opportunistica di pura facciata. La corretta situazione win-win dovrebbe consistere in un impegno costante per la massimizzazione dei benefici per tutta la società, di cui l’azienda fa parte, e ottiene così vantaggio diretto, dal fatto che tutto il sistema funziona meglio.

La Responsabilità Sociale d’Impresa non deve essere una politica di marketing sotto mentite spoglie, ma la RSI odierna è contraddistinta da ambiguità e contraddizioni.

La beneficenza è da tutti negata come esempio di RSI moderna, ma poi è la prima attività aziendale ad essere citata. Si dice che un’impresa socialmente orientata è guidata dall’etica, ma poi si cita come motivazione principale un ritorno d’immagine e di reputazione. Si afferma che la Responsabilità Sociale d’Impresa è una pratica ben distinta dalla comunicazione, ma spesso azioni di RSI si compiono soprattutto

per poterle comunicare. E questi sono argomenti che minano fortemente la sua solidità.

Anche la pressione da parte dell’opinione pubblica verso un comportamento sostenibile è sempre più forte. Cresce la percentuale di cittadini che si dichiara disponibile ad acquistare prodotti realizzati in modo da rispettare l’ambiente e senza abusi nei confronti delle popolazioni più deboli, tuttavia ricerche e analisi dimostrano che è prevalente l’importanza assegnata ad altri fattori, quali prezzo, distribuzione, assistenza e altri vantaggi personali. Robert Reich, economista dell’Università di Berkeley, ex Segretario del Lavoro di Clinton e oggi consigliere di Barack Obama, parla in varie interviste e nel suo libro “Supercapitalismo”, di come ci siano persone che manifestano la loro preoccupazione per i crescenti livelli di inquinamento e ce l’hanno a morte con le grandi aziende che espellono CO2 nell’aria, ma allo stesso tempo hanno stili di vita che richiedono molta energia, la cui produzione genera inquinamento. Le stesse persone utilizzano poi i loro risparmi per acquistare azioni, preoccupandosi solo di avere ritorni vantaggiosi, e non curandosi dell’impatto ambientale delle aziende sulle quali investono. Reich afferma: “come cittadini sono preoccupati del riscaldamento globale, ma come consumatori e investitori, contribuiscono ad alzare la temperatura”.

Risulta quindi lampante la distanza del contesto attuale dalla Stakeholder Vision di Freeman: imprese, politici, e individui non sembrano ancora in grado di rendere la situazione più sostenibile.

La Responsabilità Sociale d’Impresa come apparato sistemico ha ancora un aspetto marginale; è rappresentata da imprese di nicchia o da esperti non direttamente impegnati in azienda. Un movimento d’avanguardia, dunque, più che una realtà diffusa, che lascia spazio a molti interrogativi sulle prospettive di sviluppo futuro come cultura in grado di incidere sulla governance d’impresa.

Forse sarà proprio la crisi l’occasione per ripensare i rapporti tra le componenti della società, per aiutare le imprese a modificare il proprio agire, in funzione di obiettivi sostenibili di medio periodo piuttosto che di breve termine, indirizzati a spremere le risorse fino alla loro distruzione, come sta avvenendo oggi.

Il fine di un’azienda è sopravvivere e crescere, essa prende le risorse dall’esterno e le rielabora. Dunque, tenere presente il sistema di cui si è parte, i fornitori, i

consumatori, in un’ottica di medio periodo è un comportamento razionale rispetto al fine dell’impresa.

L’impresa è etica nel momento in cui persegue i propri obiettivi rispettando stakeholder e ambiente, è sociale quando ha un ruolo all’interno della società ed è perciò responsabile, nel senso che deve mantenere un comportamento di rispetto verso gli altri soggetti.

Oggi, il dover trarre sempre il massimo profitto a tutti i costi ha portato le imprese a compiere operazioni puramente finanziarie, come la costituzione di società collegate l’una all’altra, l’una dentro l’altra, con l’unico scopo della speculazione. Se l’obiettivo è arricchirsi sempre di più, si finisce con il perdere di vista il sistema di cui si è parte, e si dimentica che questo sistema è composto di relazioni con gli altri soggetti. Non è possibile agire sempre e solo a proprio vantaggio, a discapito di tutti.

Da una crisi di tale portata si esce solamente se si abbandona il modello di mercato che ha come unico valore il profitto massimo e si punta ad una nuova concezione d’impresa, del suo ruolo e anche del ruolo del settore pubblico. La ricchezza non può essere l’unica unità di misura della propria abilità: se questa cultura si modificherà, tenendo conto di più del sistema, e della collaborazione tra le parti, allora un giorno sarà possibile affermare che la crisi ha avuto anche evoluzioni positive.

Conclusioni

L’obiettivo di questa tesi è stato dimostrare, attraverso esposizione teorica ed esempi empirici, come politiche di RSI strategica consentano alle imprese di ottenere un vantaggio competitivo, e restare più vitali nell’attuale contesto di incertezza economica globale.

La Responsabilità Sociale d’Impresa ha acquisito, negli ultimi due decenni, forza e visibilità. Da cultura in origine accolta dalle imprese come il “fare beneficenza” per salvare la faccia, prendendo in carico istanze sociali al fine di calmare gli animi e continuare nel perseguire il massimo guadagno, la RSI sta assumendo oggi una valenza strategica. I recenti tempi di crisi economica contribuiscono a diffondere l’idea che protagonisti debbano essere la società e gli stakeholder, operando in una visione sistemica con l’azienda.

Il vantaggio non può più essere monopolio dell’impresa, unica padrona del profitto, che distribuisce benefici ai vari portatori d’interessi. Sono gli stakeholder, nella visione sistemica di Freeman, a partecipare attivamente alla creazione del vantaggio economico, decretando il successo o il fallimento dell’impresa. L’azienda responsabile trova realizzazione in prodotti e servizi capaci di portare a sé benefici economici, ma anche vantaggi simultanei per clienti, fornitori, comunità, finanziatori e investitori.

Tuttavia, le organizzazioni non possono farsi carico di ogni problema sociale: il criterio di selezione non deve essere il grado di merito di una causa ma il livello di integrazione tra benefici sociali e vantaggi competitivi che essa porta all’impresa. Le istanze sociali appaiono così come fonti di opportunità e innovazione.

Ma perché la RSI completi la transizione, anche nella realtà, verso tali interpretazioni teoriche è necessario cambiare il modo di fare impresa e ancor più il ruolo che l’impresa assume nel mercato. Occorre abbandonare definitivamente il modello di governance focalizzato sulla massimizzazione del valore azionario a breve termine: è sbagliato guardare solo ai risultati trimestrali delle azioni, poiché in questo modo non

si fa altro che oscurare gli obiettivi di medio termine, più salutari per l’impresa e per l’economia globale. Fissare continuamente obiettivi di breve periodo, basati sull’andamento azionario, finisce con il condurre l’impresa al collasso, non appena qualche congiuntura di mercato muti le aspettative degli azionisti. E così molti dirigenti, alcuni convinti di far bene, altri totalmente irresponsabili e accecati dagli alti premi, hanno lasciato, in cambio di buonuscite stratosferiche, le loro società nel mezzo dello tsunami in imminente arrivo, e milioni di dipendenti e investitori senza un lavoro e senza un soldo.

Non c’è dubbio che le radici del tracollo siano in America, nello sviluppo sfrenato del capitalismo finanziario, piegato agli interessi di persone senza scrupoli che lo hanno manovrato per i loro fini speculativi privati, e che non hanno saputo gestire la crisi perché la crisi erano loro stessi.

Così la migliore soluzione sembra abbandonare quel capitalismo finanziario, che non guarda in faccia nessuno, per ricostruire la fiducia che è venuta a mancare da parte della società. Bisogna approdare ad una nuova era, più responsabile e più sicura: il capitalismo fondato sul cliente.

Togliendo la priorità all’azionista e mettendo il cliente al primo posto è possibile, per l’impresa, tornare a svolgere la propria attività caratteristica, senza distrarsi guardando continuamente i rendimenti in borsa. In tal modo gli amministratori eviteranno di prefiggersi obiettivi a brevissimo termine, per dirigere l’attività d’impresa verso una più longeva e sana redditività, in grado di soffrire meno i mutamenti delle aspettative e soprattutto le crisi del mercato.

Per attuare un cambiamento di tale portata sarà necessario che le aziende rivedano i propri principi di base, in un’ottica strategica responsabile, che tenga conto della sistematicità delle relazioni tra azienda e stakeholder e della soddisfazione dell’utente finale. Il capitalismo fondato sul cliente promette all’impresa un successo certamente più duraturo, ma perché esso porti i suoi frutti è necessaria coerenza.

L’impresa per mirare ad una prosperità consolidata, deve rivedere i suoi meccanismi di funzionamento interni, instaurando una cultura aziendale diversa. Un punto di svolta risulta essere, ad esempio, il cambiamento dei sistemi di retribuzione del top management: sicuramente devono essere eliminate ricompense su base azionaria e i grossi premi immediatamente fruibili al pensionamento, cause strutturali della crisi.

È necessario, in sintesi, ricondurre i modelli manageriali ad una maggiore attenzione alla continuità dell’impresa, al suo consolidamento nel tempo.

In situazioni di forte crisi la tentazione è quella di tagliare i costi, mantenendo solo le attività e i progetti più profittevoli. Così facendo, però, si corre il rischio di trovarsi impreparati di fronte alla ripresa dei mercati. È meglio procedere con cautela ai tagli drastici, eliminare le iniziative meno promettenti può risultare utile nel breve periodo, ma si rischia di perdere possibilità di crescita futura.

L’innovazione aperta rappresenta la strategia per risolvere il problema: rompendo i confini tradizionali dell’azienda consente a un flusso di persone, idee, proprietà intellettuali di entrare e uscire liberamente. L’innovazione aperta, in particolare verso l’esterno, è ciò che serve per uscire dalla crisi. Definisce i processi attraverso i quali l’azienda colloca alcuni progetti al di fuori della propria organizzazione, portando un risparmio di tempo e risorse finanziarie.

Vicina alla Stakeholder Vision, questa strategia consente di alimentare i rapporti e promuovere ecosistemi innovativi: in tempi di crisi economica è ciò può aiutare l’azienda a preservare le opportunità di sviluppo, dandole contemporaneamente il tempo di consolidarsi.

La cultura della Responsabilità Sociale d’impresa è quindi in evoluzione: dalle opere di beneficenza principalmente realizzate per accrescere la reputazione si sta dirigendo verso la prospettiva strategica di un’imprenditorialità condivisa con gli stakeholder.

Le basi del cambiamento partono appunto dall’abbandono di un’etica di facciata.

Deve essere accantonata la visione di quanti considerano la RSI cultura del compromesso, orientata esclusivamente a trovare forme di conciliazione tra esigenze di profitto ed esigenze di contenimento dei danni sociali e ambientali. Ma, nonostante, questi temi siano sempre più discussi e universalmente noti, il passo fondamentale per rendere la Responsabilità Sociale aderente anche nella pratica alle sue concezioni teoriche non è ancora del tutto compiuto.

La RSI, oggi, è riconosciuta come un modello in grado di integrare i tradizionali strumenti di governance, tuttavia i suoi precetti non pesano ancora abbastanza per

influire in maniera considerevole sulla logica dell’azienda. Si perdono di vista i suoi fondamenti teorici, e il vero motivo per il quale vale la pena mettere in atto una politica aziendale socialmente orientata: la RSI non deve essere una politica di marketing sotto mentite spoglie. Risulta evidente la distanza del contesto attuale dalla Stakeholder Vision di Freeman: imprese, politici, e individui non sembrano ancora in grado di rendere la situazione più sostenibile.

La Responsabilità Sociale d’Impresa come apparato sistemico è rappresentata da poche imprese e da esperti; è un movimento d’avanguardia, più che una realtà diffusa.

La crisi fornirà l’occasione per ripensare il sistema economico? Forse sarà questa congiuntura economica negativa a spingere le imprese a mutare, in funzione di obiettivi sostenibili, e ad abbandonare i meccanismi odierni volti a consumare le risorse fino a spremerle.

Compiere operazioni puramente finanziarie, per la speculazione massima, non può portare infine che alla distruzione del valore, perdendo di vista il sistema di cui si è parte. Una crisi di tale portata si lascia alle spalle abbandonando il modello di mercato del profitto massimo, partendo da una nuova concezione d’impresa.

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