Capitalismo: da buttare o da correggere? È giusto porci il tema con obiettività visto che viviamo nell’era del capitalismo e visto che nei nostri Paesi il malessere sociale aumenta, la crescita e il lavoro sono insufficienti, le diseguaglianze diventano insostenibili. Era probabilmente sbagliato osannare il capitalismo come soluzione di tutti i problemi così come è probabilmente sbagliato demonizzarlo come fonte di tutti i mali.
Il richiamo di Papa Francesco ai giovani economisti arriva nel momento più appropriato: a loro, che dovranno essere capaci di guardare con occhi nuovi alle dottrine e alle convinzioni consolidate, spetta il difficile compito di esaminare a fondo questo nostro sistema economico. Viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti – forse un vero cambio d’epoca -, ci ha ricordato il Santo Padre, e a questi cambiamenti dobbiamo prepararci con un pensiero nuovo.
Se per capitalismo intendiamo il sistema economico che promuove la libera impresa e il libero mercato, tutelando la proprietà privata con regole uguali per tutti, la mia tesi è che il capitalismo possa essere corretto e non vada accantonato.
Non dimentichiamo che in questi decenni, a fronte dei malesseri accumulati, abbiamo anche assistito alla riduzione della povertà e delle malattie in molte parti del pianeta, a un allungamento delle aspettative di vita e a una progressiva conquista di diritti da parte delle donne e delle minoranze, nonché alla disponibilità crescente di istruzione per l’infanzia. Questi parametri non sono mai stati migliori a livello planetario: questo però non deve farci chiudere gli occhi sulle diseguaglianze che ancora oggi sussistono in seno alla nostra società, e neppure deve distoglierci dall’impegno a risolvere gli enormi problemi che restano da affrontare. Ciò che dobbiamo rifuggire sono le diagnosi superficiali di questi problemi e le visioni apocalittiche, troppo spesso contrabbandate per finalità di mera strumentalizzazione politica.
Molti dei malesseri di cui parliamo hanno radici profonde e le responsabilità non sono tutte riferibili al modello economico dominante. I timori e le paure che si diffondono soprattutto nelle categorie sociali più deboli sono legati alle tanti crescenti incertezze: è a rischio la pace per la montante tensione politica, è a rischio la crescita per la crescente conflittualità economica, è a rischio il lavoro per l’impatto delle nuove tecnologie, è a rischio il welfare per l’invecchiamento della popolazione, è a rischio addirittura il pianeta per il riscaldamento fuori controllo.
Nei nostri paesi democratici occidentali abbiamo assistito nel tempo alla diffusione di diverse forme di capitalismo: negli ultimi decenni ha finito per prevalere l’approccio neoliberista, che ha esasperato i tratti più estremi del capitalismo stesso. La crisi del 2008-2009 ha però finito per spazzare via gran parte dei dogmi neoliberisti, ma la convinzione che il mercato abbia sempre ragione e sia capace di autoregolarsi è dura a morire. In molti Paesi le conseguenze di quella crisi economica sono ancora ben visibili e non si è ancora affermata una convincente visione alternativa per correggere il nostro sistema economico. Alcune degenerazioni democratiche, come il montante populismo, affondano le proprie radici proprio in quella crisi finanziaria di un decennio fa.
L’evoluzione del nostro sistema economico non può che essere in quello che definisco Capitalismo Responsabile: un sistema economico capace di trasformare le sue enormi forze in energia positiva. Un capitalismo che non badi solo al profitto degli azionisti, ma all’impatto complessivo dell’attività economica sulla comunità e sull’ambiente. Un capitalismo socialmente responsabile che contribuisca a ridurre le diseguaglianze e i malesseri che abbiamo già citato; un capitalismo ecologicamente responsabile che non consumi in maniera dissennata le risorse naturali mettendo a rischio la sopravvivenza del pianeta; infine, un capitalismo finanziariamente responsabile che non promuova una crescita basata sull’esplosione del debito.
Sono moltissimi gli esempi positivi di imprese di tutte le dimensioni e di tutti i settori che dimostrano ogni giorno questo tipo di responsabilità e producono impatto positivo sulle loro comunità oltre a raggiungere ottimi risultati imprenditoriali.
Certamente, però, non basta la buona volontà di un manipolo di imprenditori illuminati per dare vita a un diffuso Capitalismo Responsabile: per cambiare servono regole adeguate e meccanismi efficaci per farle rispettare. Ci sono aberrazioni dell’attuale sistema sotto gli occhi di tutti che potrebbero essere arginate congrande impatto positivo immediato e strutturale. Le normative ci sarebbero anche, ma manca spesso la volontà e il coraggio per andare fino in fondo:
sto pensando ad esempio alle normative Antitrust che avrebbero dovuto evitare i pericolosi effetti delle concentrazioni di potere - effetto “the winner takes it all”- soprattutto nel mondo delle mega società tecnologiche, o alle normative sulla Privacy che avrebbero potuto e dovrebbero ancora evitare l’intromissione
PAGINA 67 prolungati di stagnazione o recessione producono effetti devastanti sul welfare che deve già fare i conti con il già citato progressivo invecchiamento della popolazione e con tassi di disoccupazione molto alti. La ricetta non può essere la sola austerità prolungata, come ci ha già insegnato la storia: servono politiche monetarie accomodanti, ma servono anche politiche di investimento coraggiose che puntino su innovazione, istruzione e infrastrutture. E questo non può più essere solamente un obiettivo nazionale: se l’Europa vuole rimanere unita e continuare a giocare un ruolo significativo sullo scacchiere politico mondiale, deve dimostrare di saper crescere e di saper difendere le conquiste politiche e sociali che la contraddistinguono.
Una vera e propria riforma del capitalismo è dunque una sfida soprattutto culturale per l’intera classe dirigente, quella stessa classe dirigente che negli ultimi decenni non ha evidentemente saputo far leva sulle risorse del capitalismo per costruire bene comune. Il bene comune non può essere frutto del mero perseguimento da parte di ciascuno del proprio interesse personale: la distorsione del pensiero di Adam Smith ha pervaso la cultura economica di questi anni.
Neppure si può pensare di delegare ad altri le nostre responsabilità, neppure allo Stato: il perseguimento del bene comune ha bisogno di un impegno specifico e condiviso da tutti i componenti della comunità.
Dobbiamo anche sforzarci di superare l’abitudine di misurare il bene comune con parametri come il PIL: le componenti misurabili dell’economia, quelle appunto misurate dal PIL, non sono né le uniche né necessariamente le più rilevanti per misurare la salute e la performance di un Paese, soprattutto non per misurare il benessere della sua comunità. Oltre al PIL serve misurare, per esempio, la capacità di creare veri posti di lavoro, di ridurre le aree di povertà e di disagio, il tutto in maniera sostenibile sia dal punto di vista ambientale che finanziario. E perché ciò avvenga serve una coraggiosa visione di medio periodo e un programma di investimenti privati e pubblici, nazionali e “federali” di grandissima portata e di grandissima lungimiranza, nella scuola, nella ricerca, nelle infrastrutture fisiche, digitali e sociali.
Infine, il bene comune non può essere realizzato all’interno di sistemi chiusi: inutili sarebbero gli sforzi di singole nazioni per combattere il riscaldamento globale o la criminalità organizzata internazionale. Il bene comune non può essere costruito a discapito di interi continenti, né possiamo pensare di difendere la nostra economia costruendo “muretti” ai nostri confini nazionali: il bene comune è tema complesso che deve rifuggire le semplificazioni, la banalizzazione della complessità, la tentazione di ricercare nemici immaginari e proporre scorciatoie invece di autentiche soluzioni. Il bene comune necessita di molte competenze tra loro integrate e di unità di intenti: questi sono i principi che dovrebbero guidare la classe
dirigente, questi potrebbero essere i principi ispiratori della scuola e della formazione del XXI secolo.
La fiducia nel nostro sistema sociale ed economico, la speranza nelle opportunità che ci riserva il futuro, possono essere costruite all’interno delle nostre comunità solo dando vita a nuovi equilibri tra valori oggi considerati contrapposti. Abbiamo la responsabilità di guardare oltre alle dottrine e alle convinzioni consolidate:
valori come libertà e uguaglianza, merito e solidarietà, identità e apertura, dovranno giocare tutti un ruolo in una società che voglia davvero essere centrata sulla persona umana.