A cura del Coordinamento delle Attività Internazionali
Premessa
La crisi generata dalla pandemia di covid-19 non ha paragoni nella storia recente per ampiezza e gravità. Tanto per cominciare, perché il virus viaggia con le persone. E negli ultimi anni, in virtù della globalizzazione, gli scambi e gli spostamenti delle cose e delle persone hanno subito una fortissima accelerazione. Fermare questi scambi e questi spostamenti ha significato fermare il motore del mondo.
L’ambiente ne ha beneficiato, ma l’economia mondiale è crollata. A dimostrazione che per uscire dalla crisi l’unica via percorribile è quella di ripensare l’intero modello di sviluppo, uscendo dall’illusione di una crescita senza limiti affidata ad un mercato senza regole.
La peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione
I dati sono impietosi: i paesi dell’OCSE hanno archiviato il secondo trimestre dell’anno con una contrazione del 9,8% (quattro volte tanto il -2,3% registrato al picco della Grande Recessione del 2009). La flessione è paragonabile solo alla Grande Depressione e mostra gli effetti devastanti delle chiusure ordinate per contenere la diffusione del coronavirus. L’aumento dei deficit pubblici nei Paesi avanzati si piazza attorno al 20% dei loro Pil, con una crescita altrettanto rilevante degli indebitamenti dei governi. Anche il commercio globale è crollato, diminuendo di oltre il 18% nella prima metà del 2020, e i mercati del lavoro sono stati gravemente impattati dalla riduzione dell'orario di lavoro, dalla perdita di posti di lavoro e dalla chiusura forzata delle imprese. L’OIL ha stimato una
PAGINA 53 Secondo l’ultimo “Risk Maps report” di AON (primo gruppo in Italia e nel mondo nella consulenza dei rischi e delle risorse umane, nell'intermediazione assicurativa e riassicurativa) la nuova pandemia da coronavirus trasformerà probabilmente tutto il panorama geopolitico.
Il punto di partenza dell’analisi è che dalla pandemia deriveranno implicazioni socioeconomiche "profonde", così riassumibili:
nel breve termine
interruzione delle catene di approvvigionamento squilibri del mercato del lavoro
riduzione dei consumi
rallentamento del commercio mondiale e dei flussi di lavoro e di capitali instabilità dei mercati finanziari
nel lungo termine
prolungata instabilità politica intervento statale persistente
contraccolpi derivanti dai fallimenti dei governi nel fronteggiare il covid-19
scarsità di risorse nel settore pubblico e in quello privato
Secondo gli analisti, i paesi con un’economia maggiormente dipendente dal turismo o dal commercio al dettaglio, o dove il tributo umano della pandemia sarà stato più alto, si troveranno ad affrontare un potenziale maggiore di disordini civili e di proteste contro i governi. Dati alla mano, nel breve termine, tre economie sviluppate su cinque affronteranno probabili scioperi, rivolte e disordini civili. Ulteriori conseguenze economiche includono premi di rischio più ampi per le azioni e il debito delle imprese e restrizioni nell'emissione e nel prestito di obbligazioni societarie.
Sappiamo quindi con certezza che sperimenteremo una difficoltà sempre maggiore per le imprese di avere accesso al credito e poi di onorarlo. Ciò metterà in grave difficoltà anche il sistema bancario, oltretutto privato di redditività dal sostanziale azzeramento dei tassi di interesse, e provocherà una riduzione brusca e ingente del gettito fiscale, proprio mentre gli Stati si trovano nella necessità di spendere molto di più per supplire alla paralisi del mercato.
L’Europa e una rinnovata domanda di “condivisione”
Per l’Europa si tratta di una sfida vitale. L’accordo chiave raggiunto lo scorso 21 luglio a Bruxelles conferma il celebre adagio che recita “L'Europa va avanti soltanto attraverso le crisi”. Ricordiamo: 750 mld del Next Generation EU che si aggiungono ai 100 mld del fondo SURE per finanziare la cassintegrazione, ai 200 mld della BEI per sostenere le imprese, ai 240 mld del MES destinati alla sanità.
A proposito, questi fondi vanno utilizzati tutti, a partire proprio da quelli per la sanità, mandando un messaggio chiaro al mondo: mentre combattiamo l’emergenza sanitaria presente, ci prepariamo ad essere il paese (e ovviamente pensiamo all’Italia) più attrezzato e più sicuro in futuro. Perché questa pandemia non finirà a breve, ma soprattutto perché la prossima potrebbe persino essere più letale e contagiosa. E dunque, l’implementazione di tutto il sistema sanitario - sul piano delle terapie intensive, della formazione e assunzione di personale medico ed infermieristico specializzato, della medicina sul territorio, della diagnostica e della tracciabilità, dei dispositivi di protezione e della ricerca – deve essere la nostra priorità non tanto e non solo nell’immediato quanto nel lungo termine. Ci auguriamo che la discussione sul MES in seno al Governo parta da queste considerazioni.
Quello che, invece, qui ci preme sottolineare, è il salto di integrazione compiuto con il debito comune dell'Unione, - per il quale il sindacato europeo e la CISL, in particolare, si sono battuti – e che costituisce la più importante tappa di integrazione europea dall’adozione dell’euro. Senza questa crisi, questo risultato sarebbe stato impossibile. Ma è ancor più vero che questo importante passo avanti deve molto anche al ritorno di un triangolo aureo il cui vigore non era più stato tale dagli inizi degli anni Novanta: la coppia franco-tedesca, strettamente associata a una Commissione europea ambiziosa.
E’ sufficiente? Certamente no, perché non c’è certezza su quando sarà raggiunto l'accordo finale sul pacchetto per la ricostruzione tra le istituzioni europee e, di conseguenza, su quando avverrà l'esborso delle risorse agli Stati membri. Nel frattempo, come ha avvertito la CES – e anche i sindacati nazionali, compresa la CISL - decine di milioni di lavoratori che beneficiano delle varie misure di tutela dell'occupazione messe in atto dai governi, potrebbero diventare disoccupati, qualora il divario tra le misure di emergenza e le risorse del Recovery Fund non venisse colmato da adeguate misure di sostegno per lavoratori e aziende.
Ciò che, tuttavia, anche questa preoccupazione evidenzia, è un’altra autentica
PAGINA 55 Oggi ci si aspetta che l'Europa agisca e la si critica quando non lo fa, o quando lo fa poco o tardi. E’ importante che i politici - europei ma soprattutto nazionali e con incarichi di governo - sappiano cogliere questa rinnovata domanda di
“condivisione” (da non confondere con la “solidarietà”, estranea ai corridoi di Bruxelles; ma questa è un’altra storia…).
Un nuovo modello di sviluppo
Di sicuro è una domanda a cui risponde l’ultima enciclica di Papa Francesco,
“Fratelli tutti”. E che proprio alla politica si rivolge perché non sia sottomessa agli interessi della finanza, ma al servizio del bene comune, in grado di porre al centro la dignità di ogni essere umano e di assicurare il lavoro a tutti, affinché ciascuno possa sviluppare le proprie capacità.
E’ il Papa che parla, ma potrebbe benissimo essere il manifesto di un nuovo modello di sviluppo proiettato sugli Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu.
Una serie di segnali, insomma, amplificati dall’emergenza della pandemia, ci dicono che il mondo è ad un punto di svolta e questa svolta è globale ed investe ogni campo dell’agire umano: politico, sociale, economico e, pertanto, anche della finanza.
Di fatto, siamo alla fine di un processo iniziato a cavallo degli anni 70 e 80, con l’avanzare delle teorie neoliberiste dei Chicago Boys (il gruppo di giovani economisti formatisi alla scuola monetarista di Milton Friedman) che fecero del Cile di Pinochet il loro laboratorio: drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, riforma del mercato del lavoro per rendere più “flessibile” la forza-lavoro, apertura dei mercati, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali in entrata ed uscita. E la “crescita” sbandierata come unico fine della società, unico senso della vita.
La sinistra, ma più in generale, le forze riformiste e progressiste non capirono i rischi insiti in quel modello che premiava il mercato su tutto. Ma anche il sindacato, dopo la sconfitta dei minatori inglesi contro il governo di Margaret Thatcher, non colse i rischi insiti nel modello ultraliberista che avanzava a livello globale, convinto che la crescita di per sé avrebbe premiato tutti, compresi i lavoratori.
E la sinistra non capì neppure cosa stesse succedendo a Seattle, nel 1999, punto di partenza di un nuovo ciclo di scambi commerciali e della conquista della ribalta mondiale da parte del movimento no-global, protagonista di violenti scontri di piazza con la polizia. Attenzione: l’anima di quella protesta era comunque di sinistra. Ma intanto a guidare il nuovo corso mondiale, all’epoca, c’erano proprio i grandi leader della sinistra: Clinton, Blair, D’Alema. Il risultato
è che, a distanza di 20 anni, quella protesta è finita nelle mani della destra ultranazionalista.
Per dirla in breve, quello di cui, allora, la sinistra non aveva colto la portata era il passaggio della guida dell’economia mondiale (da cui discende il destino di lavoratori e imprese) dalla politica alla finanza.
Un nuovo paradigma anche per la finanza
Ed è ancora la finanza a guidare (o meglio, a pretendere di guidare) anche oggi il cambiamento del modello di sviluppo. La pandemia, semmai, ha impresso un’accelerazione ad un trend già avviato in quella sorta di gabinetto dell’economia mondiale chiamato Business Roundtable, la grande associazione della Corporate America che riunisce i CEO di oltre 180 imprese nordamericane, di cui fanno parte, tra gli altri, Jeff Bezos di Amazon, Tim Cook di Apple, Larry Fink di BlackRock e Doug McMillon di Walmart.
Era, infatti, il 19 agosto del 2019 quando i media di tutto il mondo, ignari della catastrofe che avrebbe colpito il Pianeta da lì a pochi mesi, davano ampio risalto alla presunta rivoluzione aziendale ed economica contenuta in un manifesto della Business Roundtable, che, prendendo le distanze dalle teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago, sposate più di 20 anni prima, per la prima volta metteva l’interesse degli stakeholders (lavoratori, consumatori, cittadini) davanti a quello degli azionisti.
In realtà, il manifesto enuncia una serie di ovvietà: non esiste alcuna azienda al mondo che dichiari di inquinare, sfruttare e bistrattare i dipendenti, spremendo fino alla morte i fornitori. O di voler perseguire solo il valore a breve termine, infischiandosene di che cosa accadrà alla propria attività nel medio o lungo periodo. Ma oltre che banali, queste affermazioni (fatte da signori che in media guadagnano 254 volte quanto un loro dipendente) sono prive di qualsiasi impegno concreto in termini di obiettivi, strumenti, tempi, azioni.
Qual è allora lo scopo di questo manifesto e di altre simili iniziative, celato sotto la comoda e popolare coperta della “Corporate social responsibility”? Lo scopo è di avvalorare la tesi, in sé assai pericolosa, che le aziende e gli operatori economici possano auto-governarsi perché in fondo “conviene”. E che quindi non ci sia bisogno di scomode autorità statali, leggi e sanzioni che, in fondo, frenano
PAGINA 57 della loro potenza multinazionale, si sottraggono a una equa contribuzione fiscale, contribuendo all’impoverimento generale.
E questo, in un momento di particolare bisogno di ingenti investimenti pubblici per sostenere la sanità, le misure contro la povertà, la ricerca e l’istruzione, diventa inaccettabile. Al punto che perfino l’FMI finalmente è arrivato a dire che la spesa pubblica deve essere sostenuta anche attraverso la tassazione dei capital gain.
Ecco perché i segnali di una finanza più attenta alla sostenibilità sono importanti, ma non bastano. Se c’è una lezione che abbiamo appreso dalla crisi del 2008 è che non possiamo affidarci all’idea che sia la finanza a riformare sé stessa.
La rivincita degli stakeholders
Il sindacato oggi deve avere una sua idea della finanza e partecipare alla sua riforma. Ma perché questo avvenga, occorre agire ribilanciando il rapporto tra capitale e lavoro: va bene il passaggio dal capitalismo degli azionisti (Shareholder Capitalism) al capitalismo dei portatori di interesse (Stakeholder Capitalism), enfatizzato dal Manifesto della Business Roundtable, dunque. Ma deve essere chiaro che questo passaggio o si realizza attraverso la partecipazione dei lavoratori o non si realizza affatto.
E la partecipazione deve essere in tutte le sue forme: finanziaria, strategica e organizzativa. E’ questo, pensiamo, il primo pilastro su cui dovrà poggiarsi un capitalismo rinnovato nella sua idealità e nella sua funzione sociale, in grado di rispondere al quel bisogno di mobilitazione di risorse (finanziarie e non solo) – di cui parla Alberto Berrini nel suo recente saggio “Per Uscire dalla crisi” (cit.
p.97) – in grado di costituire almeno in parte un’alternativa ad un’uscita monetaria dalla crisi, minimizzandone i costi sociali e redistribuendo i benefici della crescita futura sull’intera comunità.
L’altro pilastro è rappresentato da una nuova finanza etica e sostenibile. Non si tratta di due sinonimi: la finanza etica è un approccio alla finanza che tiene conto sia degli aspetti economici dell'investimento (rendimento, rischio) e sia degli aspetti etici, sociali o morali; la finanza sostenibile ha come obiettivo lo sviluppo sostenibile ed è soltanto una delle applicazioni possibili della finanza etica. Ma avremo bisogno di entrambe per riorientare decisamente i mercati verso la sostenibilità, contrastando speculazioni e degenerazioni antitetiche alla messa in sicurezza sanitaria, economica, sociale, ambientale e giuridica della comunità umana.
E qui apriamo una parentesi: tutti ci siamo sentiti irritati e offesi dalla copertina del quotidiano tedesco Die Welt che rappresentava l’immagine della mafia
italiana pronta a mettere le mani sugli aiuti europei. Non è un problema di stereotipi da combattere. Il problema è non capire che le mafie tanto più tarderanno i soldi dall’Europa tanto più si rafforzeranno, perché dispongono di quella liquidità di cui l’intero sistema produttivo italiano ha un disperato bisogno.
E qui c’è una responsabilità enorme che ricade sulle banche, sulle finanziarie, sugli istituti di credito. Ogni azienda pulita ma con i conti in rosso, che finisce nelle mani della criminalità organizzata, ha sempre alle spalle la porta di una banca che le si è chiusa in faccia.
Allora, di fronte a una crisi di questa portata, e a fronte di tutti i proclami del mondo della finanza sulla responsabilità sociale d’impresa, sul nuovo Manifesto della Business Roundtable, sul passaggio dal capitalismo degli azionisti a quello dei portatori di interesse, vogliamo dire con forza che, rispetto al contrasto alle infiltrazioni mafiose e della criminalità organizzata nel nostro tessuto produttivo, non c’è Basilea 1,2 o 3 che tenga?
E’ un’allenza - quella del mondo del lavoro, delle imprese e delle banche, - che può essere portata avanti anche a livello europeo in nome della legalità?
Crediamo che una proposta di questo genere, fatta dalle parti sociali italiane in sede europea, sia la miglior risposta a quello stereotipo di mafia e spaghetti che non solo i giornali stranieri ma anche alcune cancellerie europee, purtroppo, ancora ci attribuiscono.
In conclusione, quella che abbiamo di fronte è una grande opportunità:
affrontare l’emergenza di oggi, ma creando un nuovo modello economico per domani.
Per il sindacato, in particolare, l’opportunità è quella di rendersi esso stesso agente promotore della trasformazione, dando corpo ad uno dei concetti utilizzati da Papa Francesco a proposito di economia (da “Bergoglionomics: La rivoluzione sobria di papa Francesco” di Leonardo Becchetti): il tempo più importante dello spazio. Significa (nell’interpretazione che Becchetti dà del pensiero di Bergoglio) che non bisogna occupare spazi tanto per occuparli, ma per mettere in moto dei processi che cambiano le cose nel tempo. Il Covid 19 e le sue conseguenze hanno messo in moto questi processi. Sta a noi guidarli e non
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