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Questo capo concerne, appunto, i regimi speciali.

La loro collocazione attuale non è ineccepibile da un punto di vista sistematico e sembra abbastanza occasionale.

Gli artt. 14bis, 14ter e 14quater sono stati introdotti dalla legge Gozzini, che, nei progetti iniziali, era partita da un’altra ipotesi di regime di massima sicurezza. Nell’originario progetto Gozzini, ricalcando il sistema di fatto allora operativo delle carceri di massima sicurezza, si prevedeva un sistema di istituti, per i quali la ammissione, la dimissione, la determinazione del regime avvenivano entro il quadro della legge, che prevedeva anche la possibilità di reclamo in sede giurisdizionale, dopo una iniziale assegnazione non soggetta a reclamo. Il sistema accolto nel testo definitivo della legge Gozzini proveniva, invece, da altro progetto ed era impostato sulla definizione del regime di sorveglianza particolare, con un controllo giurisdizionale operativo fin dall’inizio della applicazione del regime, che era disposto nei confronti delle singole persone, con la possibilità che ciò avvenisse nello stesso istituto in cui la persona si trovava quando il regime speciale era applicato.

Comunque, non sembra che la collocazione sia felice in quella parte della legge che sottolinea la individualizzazione del trattamento e la definizione del programma relativo ai singoli soggetti: una parte, cioè, in cui si definiscono gli aspetti delle regole di trattamento ordinarie e le modalità dell’operare delle stesse. Senz’altro più pertinente la collocazione qui proposta.

Ancora più occasionale è stata la collocazione dell’art. 41bis, comma 2 e successivi. Il testo attuale del comma 1 era frutto della Legge Gozzini, che aveva riscritto il testo della norma precedente, che, utilizzata in modo abbastanza arbitrario e con la applicazione dell’art. 90 (abrogato dalla legge Gozzini), aveva consentito di dare vita, dal 1977 in poi, alle carceri di massima sicurezza con un regime particolarmente restrittivo, introdotto con decreti ministeriali rinnovati periodicamente. Ritenuta, nella fase più critica della offensiva mafiosa, la necessità di reintrodurre un regime analogo a quello degli istituti di massima sicurezza (per cui il regime di sorveglianza particolare non appariva sufficiente), si tornò allo stesso percorso precedente e si fece ancora riferimento all’art. 41bis, integrandolo con una norma specifica utile allo scopo. Ma anche questa normativa, specie nel momento in cui è divenuta stabile e non più a termine, con la L.23/12/2002, n. 279, può trovare una collocazione più adeguata là dove si regola un regime penitenziario speciale, da attuare, in sostanza, in sezioni o istituti appositi. Può anche trovare una apposita denominazione, che può essere quella più ovvia di: regime di massima sicurezza.

Nella nuova collocazione, si ritiene necessario introdurre modeste modifiche del regime di sorveglianza particolare e più impegnative modifiche del regime ex art. 41bis, comma 2 e segg..

Resta adeguata la norma contenuta nel comma 1 dell’art. 41bis.

Non è necessaria alcuna modifica, ma la collocazione può essere comune a quella di cui agli altri due regimi speciali.

Tale articolo può essere inserito nell’ambito del Capo III°, tra gli articoli dedicati alla sorveglianza particolare e quelli relativi alla massima sicurezza, regolando situazioni temporanee e di emergenza attraverso l’adozione di un regime differenziato. Diviene, pertanto, con lo stesso contenuto del suo precedente nel testo vigente, l’art. 130 di questo capo.

2. Regime di sorveglianza particolare, già previsto dagli artt. 14bis, 14ter e 14quater

La modifica che si opera per tale regime è quella che tende a interrompere una utilizzazione indebita dello stesso da parte della Amministrazione penitenziaria. Tale regime fa riferimento a soggetti che, per effetto di una posizione di preminenza costruita in particolare su aggregazioni criminali, pongono in essere una situazione di forza verso le strutture penitenziarie e verso i compagni, giovandosi eventualmente anche del sostegno di altri detenuti, da loro condizionati. Il tipo del detenuto per cui l’art. 14bis è pensato è questo: un soggetto che agisce consapevolmente con finalità di destabilizzazione istituzionale.

Senonchè, l’uso più frequente attuale da parte della amministrazione penitenziaria riguarda soggetti con difficoltà di convivenza con gli altri e con difficoltà di inserimento nelle strutture detentive, generalmente per problemi di natura psicologica, quando non decisamente psichiatrica. L’applicazione del regime di sorveglianza particolare a questi soggetti, realizzando nei fatti situazioni di isolamento e di restrizione, se non di esclusione, dagli spazi trattamentali, non migliora il rapporto con le strutture e gli operatori, ma lo rende ancor più conflittuale. Per tali soggetti, si è pensato, invece, che l’intervento più opportuno sia quello di cui si è parlato sopra, inserendo nel nuovo capo II° la previsione di particolari modalità di approccio, di intervento e di collocazione, non necessariamente permanente o di lungo periodo (v. art. 125 di tale capo). Nessuna altra modifica al testo vigente.

3. Regime di massima sicurezza, già previsto dall’art. 41bis, commi 2 e seguenti Più importante l’intervento sul regime di cui all’art. 41bis, commi 2 e seguenti.

Intanto, si distribuisce il testo normativo in tre articoli, 131, 132 e 133, analogamente a quanto viene fatto, già nel testo vigente, per la sorveglianza particolare: il primo descrive la motivazione del regime di massima sicurezza, le modalità di applicazione e definisce i limiti temporali della stessa. Il secondo articolo regola il reclamo contro l’applicazione del regime. Il terzo indica il possibile contenuto delle restrizioni attuate con tale regime rispetto a quello ordinario.

3A. Art. 131 del nuovo testo proposto

Nel primo articolo si operano alcuni interventi modificativi sul testo vigente dell’art. 41bis, commi 2, 2bis e 2ter e si opera, poi, un ulteriore intervento sulla temporaneità della applicazione del regime ai singoli.

Il primo intervento, contenuto nel comma 1 (che modifica il comma 2 del testo vigente), sviluppa il tentativo (avviato per vero dallo stesso nuovo testo normativo ora indicato, ma non portato e termine) di rendere meno generica la motivazione della normativa del regime speciale e, quindi, della sua applicazione. Tale motivazione si identifica con la necessità di impedire il mantenimento di collegamenti fra i detenuti, condannati per determinati delitti di criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e le organizzazioni di appartenenza. Questa è la ragione giustificatrice e questa va sottolineata. E’ ovvio che essa pone esigenze di ordine e sicurezza, che rappresentano, però, strumenti per soddisfare quella ragione, sulla quale si deve esclusivamente basare l’impiego di quegli strumenti.

La seconda modifica, contenuta nel comma 2 (che modifica il comma 2bis del testo vigente), riguarda la durata della efficacia dei provvedimenti applicativi, che nella pratica ultradecennale trascorsa, raramente era sistematicamente annuale, più spesso semestrale. Portare tale durata a non meno di un anno e fino a due, appare del tutto ingiustificato, specie nel momento in cui il regime legislativo provvisorio diviene definitivo. Si tratta di un regime derogatorio rispetto al regime normativo ordinario e proprio per questo, la sua applicazione, che resta intervento eccezionale, deve mantenere il suo collegamento con l’attualità dell’accertamento.

La terza modifica, certamente la più rilevante in tale articolo, riguarda la esplicita previsione della temporaneità e quindi di termini massimi di durata nella applicazione del regime di massima sicurezza ai singoli interessati. Tale modifica, contenuta negli ultimi commi dell’art. 131, nasce dalla esigenza di riconoscere che la sottoposizione al regime in questione non può essere definitiva, quantomeno in linea di fatto, ma deve essere limitata nel tempo, sia pure in un tempo non breve, e accompagnata da progressiva riduzione delle restrizioni.

Si possono indicare tre motivi specifici a sostegno di tale scelta.

Il primo è che, le varie sentenze costituzionali in materia, sottolineavano il carattere di norma a termine dell’art. 41bis, comma 2 (v. la sentenza 351/96, parte iniziale del n. 4 della motivazione in diritto, nella quale si richiama il carattere di emergenza della normativa in questione). La trasformazione in norma permanente consiglia di preoccuparsi di impedire la perpetuità della applicazione, che sta, invece, manifestandosi per molte delle persone sottoposte.

Il secondo motivo è rappresentato da quanto si legge, in merito al regime di cui all’art. 41bis, comma 2, al n. 78 (pg. 23) del rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani e degradanti (in sigla CPT), approvato il 7/7/2000: “Infine il CPT non può non esprimere la sua preoccupazione circa la legittimità di un sistema di detenzione d’eccezione, concepito in origine come sistema temporaneo, ma che è sempre in vigore 8 anni dopo la sua creazione.” La “preoccupazione” del CPT non può certo essere fugata dalla sopravvenuta definitività della normativa già a termine.

Il terzo motivo fa riferimento alle ripetute affermazioni costituzionali sulla necessità che sia rispettato, in costanza di applicazione del regime in questione, il diritto alla rieducazione e ad un trattamento penitenziario conseguente. Non vi è dubbio che il concreto rispetto di tale diritto vada incontro, nel regime di massima sicurezza, a non poche difficoltà, così che non può non prevedersi la temporaneità della applicazione dello stesso.

Per evitare, comunque, la repentina e contemporanea cessazione di tale regime per un numero elevato di persone per le quali i termini massimi di durata previsti siano già scaduti, si può stabilire un regime transitorio, con un termine massimo unico di 5 anni, entro il quale la sottoposizione al regime deve cessare. Il termine decorrerà dalla entrata in vigore della l. 23/12/2002, n. 279, che ha reso definitiva la normativa provvisoria precedente.

Dovrà, poi, essere sottolineato – ed è questo l’ultimo intervento modificativo – che, nell’ambito del regime di cui all’art. 131 della presente proposta, già art. 41bis, comma 2 e successivi, non possono essere attuate situazioni diverse e di sostanziale isolamento per singoli detenuti, quale ne sia la caratura, come per vero è stato fatto e viene fatto.

3B. Art. 132 del nuovo testo proposto

All’art. 132, sono state operate modeste modifiche alle vigenti disposizioni, di cui ai commi 2quinquies e 2sexies dell’art. 41bis, relative al reclamo al tribunale di sorveglianza contro il provvedimento applicativo del regime in questione.

Si rende chiaro, per evitare equivoci ancora presenti con il comma 2quinquies del testo vigente, la competenza territoriale sul reclamo è quella del tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’istituto di assegnazione definitiva dell’interessato. La generica indicazione del luogo di assegnazione, senza specificazione che si tratta di assegnazione “definitiva” e non provvisoria, sembra indispensabile per evitare, appunto, gli equivoci tuttora ricorrenti.

Due precisazioni anche sulle disposizioni del comma 2sexies del testo vigente. La prima chiarisce che il ricorso per cassazione può essere proposto sui punti trattati nel provvedimento reclamato: sussistenza dei presupposti del provvedimento ministeriale e congruità del contenuto dello stesso. La indicazione del testo attuale, secondo il quale il ricorso in cassazione può essere fatto per violazione di legge, può, in sostanza, limitare l’oggetto del ricorso e innescare, comunque, eterogeneità di decisione. Sembra opportuno che la cassazione, data la rilevanza di tali questioni, abbia una conoscenza piena delle questioni. Anche in ragione di questo, si ritiene che debba essere rispettato il giudizio così maturato e debbano, quindi, essere richiesti, per la nuova applicazione del regime speciale, oltre che nuovi elementi sui collegamenti criminali, anche un limite temporale: quello di due anni, già indicato nell’articolo 131, nei casi in cui non vi è stato reclamo e, se vi è stato, non vi sia stata impugnazione.

3C. Art. 133 del nuovo testo proposto

Tale disposizione riguarda l’analisi delle restrizioni rese esplicite con la citata legge 23/12/2002, n.279. Si noti che tali restrizioni, con carattere standardizzato, erano fino ad oggi introdotte con il decreto ministeriale

applicativo. La indicazione delle stesse nella legge, le rafforza, ma non ne evita il giudizio di costituzionalità, anzi lo rende specificamente possibile. Si tratta, quindi, di eliminare, con riferimento al testo del comma 2quater dell’attuale art. 41bis, gli aspetti di incostituzionalità che lo accompagnano. Si esaminano le singole disposizioni restrittive indicate dal comma 2quater.

In analogia con il corrispondente articolo relativo ai contenuti della sorveglianza particolare, la presente proposta contiene la indicazione di cosa non devono comportare le limitazioni alle regole di trattamento e la successiva specifica indicazione di quali regole possano essere limitate o del tutto sospese.

Le indicazioni generali ostative del comma 1

Il comma 1 dell’art. 133 riguarda appunto ciò che non devono contenere i provvedimenti ministeriali applicativi del regime penitenziario ordinario. La norma è formulata con riferimento ad esplicite affermazioni contenute nelle sentenze costituzionali in materia. Il suo contenuto è, quindi, dovuto.

La sospensione della applicazione delle regole o degli istituti di cui all’art. 131 non può comportare la attuazione di misure comunque incidenti sulla qualità e quantità della pena o sul grado di libertà personale del detenuto. Su questo, si vedano le sentenze costituzionali n. 349/93, n. 5.2. della motivazione in diritto e n. 351/96, parte centrale del n. 4 della motivazione in diritto. Tale sospensione neppure può comportare misure che, per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza o siano inidonee o incongrue rispetto a tali esigenze con una portata puramente affittiva: così la sentenza n. 351/96, parte iniziale del n. 5 della motivazione in diritto. E neppure la sospensione può comportare misure che violino il divieto costituzionale di disporre trattamenti contrari al senso di umanità e violino, inoltre, l’obbligo di tenere conto della finalità rieducativa che deve connotare la pena: su questo vale il riferimento diretto all’art. 27, comma 3, Cost. e si possono ancora leggere le sentenze costituzionali .n. 351/96, già citata, parte iniziale del n. 6 della motivazione in diritto e n. 349/93, parte finale del n. 6.1. della motivazione in diritto.

Le indicazioni specifiche relative alle restrizioni delle singole regole di trattamento

Si compie qui un esame contestuale delle disposizioni del testo vigente e delle disposizioni alternative della nostra proposta.

A. La disposizione di cui alla lettera a) del testo vigente è estremamente pericolosa per la sua indeterminatezza, che potrebbe consentire la violazione di tutti i diritti essenziali per le condizioni e il regime di vita della persona, una volta che si assuma che le restrizioni stesse abbiano i fini che la norma indica. E’ ovvio che le sezioni per l’attuazione del regime in questione pongono concretamente in essere situazioni di sicurezza finalizzate a quanto la lettera a) in esame prevede. Ma tale disposizione restrittiva non legittima gli interventi materiali di sicurezza, che non hanno bisogno di alcuna previsione normativa, ma consente, invece, attraverso l’inserimento nei decreti ministeriali applicativi, la disapplicazioni di regole di trattamento penitenziario indefinite: è, in sostanza, una norma in bianco che può essere riempita, con l’atto amministrativo applicativo, dei più diversi contenuti.

Pertanto, tale parte della normativa va soppressa.

B. Più oltre, nell’esaminare le disposizioni contenute nella lettera f) (vedi sub D), ci si soffermerà più diffusamente sulla esigenza di non sacrificare la finalità rieducativa della pena e le regole di trattamento funzionali alla stessa: in proposito v. sentenza costituzionale n. 351/96, n. 6 della motivazione in diritto e sent. Cost. n. 376/97, in varie parti e in specie al n.9 della motivazione in diritto. Si tratta di inquadrare in questi principi anche l’esame della lettera b) del testo vigente del comma 2quater, recante restrizioni ai colloqui dei detenuti e a materie collegate, come quelle delle telefonate. Occorre, pertanto, ricordare che gli strumenti rieducativi previsti dall’Ordinamento penitenziario si identificano, in particolare, con gli “elementi del trattamento” di cui all’art. 15, fra i quali è inserita l’agevolazione dei “rapporti con la famiglia”, cui è poi dedicato l’art. 28: “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Il modo ordinario di attuazione del diritto al trattamento rieducativo in questa materia è tracciato nel regolamento di esecuzione all’O.P., che dovrebbe valere in linea generale. Si può ricordare che, al comma 3 dell’art. 14quater del testo vigente, relativo al regime di sorveglianza particolare, si disponeva che “in ogni caso le restrizioni non possono riguardare…i colloqui….con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli.” E si può aggiungere, sullo specifico riferimento analogico delle

prescrizioni ex art. 41bis in materia al comma 3 dell’art. 14quater O.P. nel testo attuale, quanto rilevava la sentenza costituzionale n. 351/96, al punto 6 della motivazione in diritto.

Certo si scontrano qui due esigenze, prendendo atto che sovente la famiglia naturale può essere veicolo di contatto con la aggregazione criminale. Ma, da un lato, non è che il particolare contenimento dei rapporti di cui al testo vigente eliminino il rischio o lo riducano significativamente, mentre, dall’altro, l’intervento molto riduttivo sulle relazioni affettive dei reclusi può escluderne le conseguenze positive e favorire invece le solo reazioni negative.

Tanto premesso, se pure non si voglia attenersi alle disposizioni corrispondenti della sorveglianza particolare, ora ricordate, la disposizione di cui alla lettera b) del testo vigente in materia di colloqui può, quantomeno, essere modificata nella rigidità che la caratterizza, modulando il numero delle ore di durata e il numero dei colloqui, e prevedendone un possibile e progressivo aumento nel tempo. Analogamente per le telefonate. In questa linea si è modificato, nella presente proposta, il testo della lettera b) del testo vigente.. C. Nessuna obiezione sulle lettere c) e d) del testo vigente, mentre invece deve essere diverso il discorso per la lettera e).

La disposizione di cui alla lettera e) è indubbiamente incostituzionale, per violazione dell’art. 15 Cost., come osservato esplicitamente nella sentenza 349/93 della Corte costituzionale (punto 6.1. della motivazione in diritto): era stata già tolta dai primissimi decreti ministeriali del giugno 92: è stata, invece, ripristinata, inserendola addirittura nella legge. Dovrebbe risultare chiaro che la previsione nel decreto ministeriale, facoltizzata dalla nuova normativa, della “sottoposizione a visto di censura della corrispondenza” “salta” il provvedimento giudiziario previsto dai commi 7 e 8 dell’art. 18 O.P., necessario per il comma 2 dell’art. 15 Cost., provvedimento, fra l’altro, ora giurisdizionalizzato con la L. 8/4/2004, n. 95: la elusione di tale provvedimento ripropone la violazione costituzionale indicata.

D. La disposizione di cui alla lettera f), come, in parte, anticipato alla lettera B), pone problemi per la sua applicazione concreta e per le sue implicazioni.

Quando si parla di applicazione concreta, si deve partire da una considerazione: le sezioni di 41bis hanno almeno 40-50 detenuti e sovente anche un numero superiore. Si tenga presente che i detenuti sottoposti a tale regime sono ormai circa 700: divisi per il numero di sezioni esistenti danno una presenza media per sezione anche superiore a quella sopra indicata. Se la fruizione della c.d. “aria” o permanenza all’aperto è limitata a gruppi di cinque persone, si deve trovare il tempo e lo spazio per lo svolgimento dell’ “aria” per dieci gruppi composti come sopra. Il tempo disponibile in una giornata varia da 8 a 10 ore. Lo spazio dovrebbe essere uno solo, il cortile annesso alla sezione. Data questa situazione, le soluzioni possibili sono o quella di ridurre il tempo dell’ “aria” o di moltiplicare gli spazi di passeggio, dividendo l’unico cortile. Entrambe le soluzioni sono chiaramente insoddisfacenti, tenendo anche conto che un periodo giornaliero di permanenza all’aperto è indispensabile per contenere gli effetti negativi sul piano igienico e della salute fisica di protratte permanenze in locali chiusi e angusti, che impediscono il normale movimento fisico. La soluzione della riduzione del tempo di “aria” può arrivare a toccare ordinariamente il minimo dell’ora giornaliera che è previsto invece dall’art. 10 solo “per motivi eccezionali”. E non è migliore la moltiplicazione dei passeggi nello spazio dell’unico cortile preesistente (sistema, d’altronde, largamente in uso), in quanto la permanenza all’aperto in uno spazio molto ridotto può portare a reazioni psicofisiche negative, che non hanno bisogno di essere dettagliate (tale spazio può trasformarsi in una gabbia, termine pertinente, specie quando presenta coperture superiori, a griglie metalliche, come accade spesso).

La composizione di soli 5 soggetti dei gruppi, sembra, quindi, fare ritenere impraticabile una permanenza all’aria di quattro ore, come indicata dalla lettera f) in esame. La conclusione è che la composizione dei gruppi deve essere portata almeno a 10 soggetti. Si noti, poi, che la lettera f) parla di una durata “non superiore a quattro ore al giorno”, che consente, così, di ridurre i tempi dell’ “aria” in misura indefinita. Di qui, come conclusione, la indicazione non solo della durata massima, ma anche di quella minima, che può essere indicata ai sensi del comma 2 dell’art. 12 del della presente proposta, che fissa la durata minima