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Sezione II. Relazione al Capo II del Titolo II, concernente i trattamenti penali ed

B. Le pene pecuniarie

1. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale 47

Il testo del comma 12 dell’art. 47 della L. 26/7/1975, n. 354, nel testo vigente, è stato a lungo interpretato, da una parte dei magistrati di sorveglianza ed anche da una parte degli uffici della esecuzione penale, nel senso che l’esito positivo della prova in misura alternativa estingueva la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria: la cessazione degli effetti penali pareva ribadire tale conclusione. La Corte di Cassazione, dopo decisioni contrastanti, è pervenuta ad una giurisprudenza contraria, in base alla quale si ritiene che l’esito positivo della prova estingue soltanto la pena detentiva, in quanto la normativa sull’affidamento non fa mai riferimento alla pena pecuniaria. Anche la estinzione degli effetti penali si limiterebbe, pertanto, a quelli ricollegabili alla pena detentiva.

La soluzione qui adottata – al comma 13 dell’art. 58 - è quella che ha avuto lunghi anni di applicazione, e che sembra anche più logica rispetto al testo della norma. E’ apparso necessario, comunque, rendere esplicito, per superare la giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’effetto della estinzione della pena pecuniaria. L’aggiunta, nel testo che segue, della estinzione delle pene accessorie è spiegato, più oltre, nella parte riservata a queste (si tratta, come si vedrà di una puntuale applicazione dell’art. 20 C.p.).

Analoga modifica è da praticare nel comma 2 dell’art. 177 C.p., ora comma 3 dell’art. 73 di questa proposta: il problema interpretativo è lo stesso e richiede analoga soluzione.

La modifica del testo del comma 2 dell’art. 177 C. p., propone un ulteriore problema interpretativo sulla revoca delle misure di sicurezza, esplicita in tale norma, ma assente nella normativa sull’affidamento in prova. Si parlerà di questo nella parte che riguarda, appunto, le misure di sicurezza.

Le modifiche normative, per questa parte, sono già state inserite, come già detto, nel capo I° di questo titolo: per l’affidamento in prova, al comma 13 dell’art. 58 e, per la liberazione condizionale, al comma 3 dell’art. 73, che modifica l’art. 177 C.p..

2. Esecuzione della pena conclusa in altra misura alternativa o in effettiva espiazione della pena in carcere

Come si è accennato, nei casi ora indicati, non vi è spazio ad una soluzione analoga a quella adottata sub 1 e si è anche cercato di indicare le ragioni che giustificano questa differenza di trattamento. Comunque, si realizza una serie di interventi che pongono rimedio agli inconvenienti più gravi del regime attuale.

Gli interventi sono sostanziali e di procedura.

Gli interventi sostanziali affrontano il problema della conversione delle pene pecuniarie insolute, sempre rimasto aperto, perchè la soluzione della L. 689/81 può suscitare, attraverso la esperienza della concreta applicazione, notevoli perplessità.

Gli interventi procedurali cercano la via della semplificazione e di mettere a punto un sistema, rimesso anche alla iniziativa degli interessati, che sia in grado di eliminare i tempi morti e la lunga durata delle procedure di esecuzione e di conversione nel trattamento sanzionatorio sostitutivo, con allungamento, in larga misura imprevedibile, del periodo conclusivo di espiazione.

Per gli interventi procedurali, la fase attuale è particolarmente travagliata. Vi è stata una modifica legislativa della competenza del magistrato di sorveglianza con attribuzione della stessa al giudice della esecuzione. Una recentissima sentenza costituzionale (v. oltre) ha ritenuto incostituzionale questo passaggio di competenza, facendo pertanto rivivere quella del magistrato di sorveglianza. Il punto è particolarmente delicato, così che merita un esame a parte, che si svolgerà nella conclusione di questa parte. Ci si soffermerà sugli interventi processuali dopo avere approfondito i problemi di quelli sostanziali ed averne individuato le soluzioni.

2A. I problemi e gli interventi sostanziali

E veniamo agli interventi sostanziali. Due sono gli aspetti non persuasivi, specie nell’ottica del presente progetto, nella legislazione introdotta dalla L. 689/81: il primo è rappresentato dal trattamento sanzionatorio conseguente alla conversione: la sanzione sostitutiva della libertà controllata (art. 102 della legge citata); il secondo è che, in caso di violazione delle prescrizioni della libertà controllata, il residuo non eseguito di tale sanzione è convertito in un periodo di pena detentiva uguale alla pena pecuniaria inflitta. Si ritorna, pertanto, alla fine, ancora al trattamento sanzionatorio detentivo.

Si tratta di ritornare alla sentenza n. 131/79 della Corte Costituzionale, che dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 136 C.p., che prevedeva che la pena pecuniaria non pagata per insolvenza del condannato venisse convertita, secondo un criterio dato di ragguaglio, nella pena detentiva corrispondente. Osservava la Corte: “La conversione della pena pecuniaria in detentiva alla stregua della normativa vigente, finisce infatti per attuarsi soltanto a carico dei nullatenenti, dei soggetti, cioè, costretti alla solitudine di una miseria che preclude anche ogni solidarietà economica e reca, perciò, l’impronta inconfondibile di una discriminazione fondata sulle condizioni personali e sociali, la cui illegittimità è apertamente, letteralmente, proclamata dall’art. 3 Cost.”.

Nell’altra decisione n. 108/87, la Corte precisava che “la sentenza 131/79 (sopra citata) non ha ritenuto illegittima ogni forma di conversione di pena pecuniaria, bensì ha indicato un bilanciamento di valori costituzionali in cui il rilievo preminente del principio di eguaglianza rispetto a quello di inderogabilità della pena impone di agevolare l’adempimento della pena pecuniaria e comunque di prevedere misure sostitutive che riducano al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto all’originaria sanzione, che, pertanto, non rappresenta un ritorno alla previgente disciplina, ritenuta illegittima con la citata sentenza n. 131/79.”

Da queste premesse, si può pervenire alle seguenti conclusioni. La Corte non ha ritenuto incostituzionale il regime di conversione della pena pecuniaria previsto dalla L. 689/81. Ciò non toglie che si possa trovare una soluzione diversa, dopo avere verificato, nella esperienza applicativa della legge, che si può realizzare in modo più soddisfacente il rispetto dei principi relativi alla esecuzione della pena, specie di quei principi, richiamati nella relazione introduttiva, sulla finalità risocializzativa che la pena nel suo complesso non deve mai perdere di vista.

La pena pecuniaria colpisce le disponibilità patrimoniali di una persona, esercitando un effetto dissuasivo circa il comportamento antigiuridico posto in essere. Quando la persona è priva di disponibilità patrimoniali, il meccanismo non può funzionare ed, allora, si è ritenuto costituzionalmente legittimo di agire ancora su ciò che una tale persona ha comunque: la propria libertà. Era incostituzionale una limitazione drastica di tale libertà quale veniva posta in essere con la conversione in pena detentiva, ma si poteva arrivare a restrizioni della libertà di tipo non detentivo ed, in ultima istanza, e quando non si rispettavano quelle restrizioni, anche a restrizioni della libertà di tipo detentivo. Due osservazioni sono, però, da fare a sostegno di una risposta diversa rispetto a quella della L. 689/81. La prima osservazione è ricavata dalla sentenza costituzionale n. 108/87, sopra citata, nella quale si legge che le misure sostitutive da prevedere, in caso di insolvenza del condannato, devono essere tali da “ridurre al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto alla originaria sanzione”. La seconda osservazione è che la esperienza applicativa della soluzione della L. 689/81 dimostra che la “riduzione al minimo del margine di maggiore afflittività” può essere raggiunta in modo più soddisfacente di quanto non sia stato fatto e in modo più coerente alla espiazione complessiva della pena e alle sue finalità. L’applicazione della libertà controllata anche per periodi non brevi (fino a un anno o un anno e mezzo), con tutte le limitazioni che comporta, protrae ancora le conseguenze della condanna e limita le possibilità di movimento, di fruizione di occasioni di lavoro e di inserimento, di sistemazione dei regimi di vita. Chi può pagare e paga la pena pecuniaria non deve affrontare nulla di tutto questo. Chi non può, invece, subirà la libertà controllata e, se non rispetterà le prescrizioni della libertà controllata, vedrà riproporsi alla fine la conversione in pena detentiva. Questa ultima e più grave conseguenza può suggerire di cambiare completamente la risposta normativa vigente al mancato pagamento per insolvibilità. L’art. 108, comma 1, in fine, prevede che la pena detentiva (in conversione dalla libertà controllata) può essere eseguita in misura alternativa alla pena detentiva.

La soluzione che qui si propone è allora questa: di mettere al principio ciò che qui si prevede solo alla fine: di scegliere, cioè, per il trattamento sanzionatorio sostitutivo alla pena pecuniaria, non una sanzione sostitutiva, come la libertà controllata, ma la misura alternativa più classica e operativa, che è l’affidamento in prova al servizio sociale; misura la cui capacità costruttiva e riabilitativa è del tutto coerente con la misura alternativa fruita per la esecuzione della pena detentiva (semilibertà, ad es.) o fornisce una opportunità di inserimento e socializzazione che la totale espiazione della pena in carcere non ha offerto.

Questa soluzione presenta, fra l’altro, un indubbio vantaggio: risolve i problemi posti dalla coesistenza di due trattamenti sanzionatori molto dissimili, come erano la libertà controllata e il lavoro sostitutivo. La sentenza costituzionale 206/96 aveva dichiarato incostituzionale il comma 2 dell’art. 102 della L. 689/81, che limitava la ammissibilità del lavoro sostitutivo alle pene pecuniarie non superiori al milione di lire. Non essendo intervenuta alcuna modifica legislativa, le condizioni esecutive del lavoro sostitutivo restavano fissate entro il limite massimo di sessanta giorni, con la prestazione di almeno una giornata lavorativa settimanale, senza alcuno degli obblighi e degli effetti che l’art. 56 della L. 689/81 fissa per la libertà controllata. La differenza fra le due misure sanzionatorie era stridente e la scelta dell’una o dell’altra era molto legata all’impegno del magistrato di sorveglianza decidente nel ricercare, accettare e costruire, nell’assenza di concreti indirizzi generali, la ipotesi del lavoro sostitutivo. Quindi, poteva capitare, per la stessa pena pecuniaria, di avere un anno e mezzo di libertà controllata, con tutti gli obblighi capillari e i pesanti effetti previsti (sospensione della patente, ritiro passaporto o documento equipollente) o sessanta giorni di lavoro sostitutivo, senza obblighi, né effetti collaterali. La soluzione qui indicata supera questa situazione di scarsa equità. Si aggiunga che, essendo il lavoro sostitutivo previsto in una fase successiva e a richiesta dell’interessato, lo stesso resta, comunque, misura abbastanza eccezionale e discrezionale.

Fatto questo rilievo, ci si sofferma su due chiarimenti ed una precisazione finale.

I chiarimenti. Il primo è che è conveniente abbandonare un ragguaglio puramente aritmetico fra entità della pena pecuniaria e entità della misura alternativa: è preferibile un ragguaglio a scaglioni, che esclude durate minime irrisorie e improduttive e limita comunque le durate massime previste oggi per la libertà controllata. Il secondo chiarimento è che la violazione delle prescrizioni dell’affidamento in prova deve trovare una risposta nello stesso regime, anche se eventualmente aggravato. E’ un punto delicato, che si è cercato di risolvere in modo che si ritiene adeguato. Qui non si tratta tanto, come è previsto nell’art. 47 del testo vigente, di verificare se la prova in affidamento ha avuto “esito positivo”, quanto se la stessa, per le restrizioni alla libertà del soggetto, gli impegni posti allo stesso e la sua complessiva risposta alle prescrizioni, abbia posto in essere quel “margine di maggiore afflittività ... rispetto alla originaria sanzione”, che, pur se “ridotto al minimo”, deve inerire al trattamento sanzionatorio sostitutivo (le parti fra virgolette appartengono alla sentenza costituzionale 108/87, già citata). Si ripete allora, da parte del magistrato di sorveglianza, al termine del periodo di affidamento in prova, quel giudizio e quella conclusione, affermati nella sentenza costituzionale 343/87, sulla rideterminazione del trattamento sanzionatorio da attuare quando la prova non sia stata positiva: solo che il criterio di valutazione sarà abbastanza diverso (quello sopra indicato) e la conseguenza non sarà la rideterminazione di una pena detentiva residua, ma ancora un periodo di affidamento, sia pure con un rafforzamento delle prescrizioni.

La precisazione finale. Fra le prescrizioni può essere inserita quella relativa allo svolgimento di attività di volontariato o di lavori socialmente utili: può rappresentare, ove occorra, un recupero di quella finalità riparativa, in senso ampio, che può essere attribuita alla pena pecuniaria e che, nel caso dell’insolvente, non può essere compiuta.

Infine, va ricordato che le modifiche sono operate sul testo normativo originario del C.p.p., che ha ripreso a valere dopo la sentenza costituzionale n. 212/2003, che ha ritenuto costituzionalmente illegittime le modifiche apportate al testo originario dell’art. 660 C.p.p. e dell’altra normativa connessa (competenze del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza).

2B. La semplificazione procedurale

La sentenza costituzionale 212/2003 ha dichiarato la incostituzionalità “degli artt. 237, 238 e 299 – quest’ultimo nella parte in cui abroga l’art. 660 C.p.p. – del d.lgs. 30/5/2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia)”. E’ pertanto venuta meno la disciplina ora detta nella parte in cui disponeva il passaggio della competenza alla conversione delle pene pecuniarie (nel trattamento sanzionatorio sostitutivo) dalla magistratura di sorveglianza al giudice della esecuzione.

Alla base di questi interventi normativi c’è la difficoltà dei diversi uffici di accettare la gestione di una materia molto problematica, come quella della conversione delle pene pecuniarie insolute e dei trattamenti sanzionatori sostitutivi conseguenti. Materia, fra l’altro, per certi versi, rischiosa, dato che gli uffici ispettivi ministeriali avanzano la tesi che il danno da intervenuta prescrizione della pena pecuniaria sia da addebitare ai funzionari che gestiscono le procedure relative e che dovrebbero pertanto rispondere per l’ammontare delle pene pecuniarie insolute (tesi peregrina, se si vuole, dato che la prescrizione riguarda crediti dello

Stato pervenuti alla fase della conversione proprio per la insolvibilità dei debitori; tesi, pur sempre, non meno allarmante, data l’autorità amministrativa da cui proviene). Si noti che la dimensione del lavoro è molto notevole, con un forte carico processuale e burocratico, frutto di una giurisdizionalizzazione esasperata e sostanzialmente improduttiva.

La scelta che si ritiene di dovere operare è questa: mantenere la competenza della magistratura di sorveglianza, cui si è ora tornati, con il recupero dell’art. 660 C.p.p. (a seguito della sentenza costituzionale ora citata), ma snellire gli interventi, lasciando pur sempre aperto il ricorso a tutte le garanzie utili, liberando l’attività dal carico burocratico che soffoca gli uffici, senza alcun vantaggio reale del servizio e degli stessi destinatari del medesimo.

Una risposta efficace alla situazione e ai problemi che pone passa, pertanto, attraverso questi punti:

recuperare il sistema previsto dalla L. 689/91, all’art. 107, comma 1, modificato dall’art. 660, comma 2, C.p.p., sistema nel quale era il pubblico ministero competente alla esecuzione che adottava il procedimento di conversione;

riconoscere al magistrato di sorveglianza e non al giudice della esecuzione la competenza su tutte le attività successive alla conversione: e quelle di cui all’attuale comma 3 dell’art. 660 C.p.p. (rateizzazione o differimento esecuzione), e quelle attinenti alla definizione delle prescrizioni del trattamento sanzionatorio sostitutivo, e quelle, infine, relative alla gestione esecutiva di tale trattamento, che – si è sopra proposto – essere l’affidamento in prova al servizio sociale e non più la libertà controllata;

utilizzare per la attività del magistrato di sorveglianza una procedura a contraddittorio eventuale, che assicura egualmente la garanzia dei diritti degli interessati (e, anzi, la migliora, per una maggiore speditezza) e favorisce la reale efficacia della azione giudiziaria, altrimenti affogata dal carico qualitativo e quantitativo di una giurisdizionalizzazione piena;

costruire una soluzione abbreviata, rimessa all’iniziativa dello stesso condannato, che “salti” tutta la fase iniziale della esecuzione e ne anticipi i tempi, prevedendo una richiesta rivolta direttamente al magistrato di sorveglianza, accompagnata dalle indicazioni sulla insolvibilità, che potranno essere oggetto di accertamento da parte dello stesso magistrato;

non intervenire, invece, sulla competenza e sulla procedura in materia di esecuzione della libertà controllata e della semidetenzione applicate in sentenza, che mantengono caratteristiche autonome e particolari rispetto alle materie esaminate.

E’ utile un approfondimento dei singoli punti indicati.

La conversione della pena pecuniaria operata dal pubblico ministero

Si noti che è il passaggio, ex art. 660 C.p.p, di tale competenza al magistrato di sorveglianza, che ha aggravato moltissimo la situazione. Nella vigenza dell’art. 107 della L. 689/81, il P.M. trasmetteva il provvedimento di conversione già effettuato: il magistrato di sorveglianza doveva soltanto, come nel caso di sanzione sostitutiva data in sentenza, stabilire le concrete modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva. Si può rilevare:

che si dovrebbero avere due accertamenti di insolvibilità, sia presso il P.M. , sia presso il Magistrato di sorveglianza (comma 2, art. 660 : e vedi anche, tanto per semplificare (!) ulteriormente le cose, l’art. 30 Disp. regolamentari al C.p.p., con la restituzione degli atti dal Magistrato sorveglianza al P.m. e da questi alla cancelleria del giudice dell’esecuzione se la insolvibilità non è confermata): questa è una disposizione di pessima organizzazione, che produce, nei fatti, la deresponsabilizzazione del P. M., che manda ora al Magistrato di sorveglianza tutti i casi di mancato pagamento, senza accertare la insolvibilità. Di qui la crescita esponenziale di questo servizio presso il solo ufficio di sorveglianza;

che siamo, d’altronde, in una fase di esecuzione di una pena già definita con sentenza di condanna, che ha stabilito la entità della pena pecuniaria senza ombra di dubbio;

che la conversione è disposta in presenza dell’accertamento di un fatto, che è compito del P. M. di verificare (anche secondo l’art. 660 vigente): l’accertamento “della impossibilità di esazione della pena pecuniaria”; che, in qualunque momento, la conversione può essere bloccata con il pagamento: si tratta, quindi, di un provvedimento reso allo stato;

che, inoltre, in qualsiasi momento, è possibile un incidente di esecuzione, questo, si, presso il giudice della esecuzione, finché gli atti sono presso il P.M.;

che nulla vieta, comunque, che, dell’art. 660, C.p.p., venga conservata la possibilità del magistrato di sorveglianza di accedere alle richieste del condannato di rateizzazione o differimento del pagamento: il che avvalora, anche secondo questo ulteriore aspetto, la natura del provvedimento di conversione come non definitivo, reso allo stato e, come tale, quindi, non necessariamente tale da coinvolgere il giudice e, inoltre, con una procedura completamente giurisdizionalizzata.

Si ritiene che, ritornando al sistema di cui al citato art. 107 della L. 689/81, riconfermando al P.M. la competenza alla conversione, si torni alla soluzione più pratica e che tale soluzione non violi in alcun modo le ragionevoli garanzie del condannato. Questa modifica, è da realizzare attraverso il comma 2 dell’art. 660, il quale applicherà i criteri di conversione indicati nell’art. 102 della L. 689/81.

Ovviamente, come accadeva per la libertà controllata, il pubblico ministero dovrà soltanto indicare la misura dell’affidamento in prova secondo le precise indicazioni normative. La specifica delle prescrizioni apparterrà alla competenza del magistrato di sorveglianza.

La competenza del magistrato di sorveglianza per le attività successive alla conversione

La competenza della magistratura di sorveglianza in merito alla applicazione delle sanzioni sostitutive e, si noti, anche alla loro esecuzione concreta, è apparsa, nella L. 689/81, una scelta sistematica, che individuava, nella magistratura di sorveglianza, quella che doveva affrontare, per le sue caratteristiche, tutte le questioni che attenevano alla concreta esecuzione della pena. Questo vale, in particolare, per la concreta applicazione delle sanzioni sostitutive (fra le quali c’è anche la semidetenzione, che comporta, fra l’altro, anche il riferimento a norme penitenziarie: v. ultimo comma art. 55 L. 689/81); e vale, inoltre, anche per la fase esecutiva (cioè, per la gestione operativa) di tutte le sanzioni sostitutive, sia da sentenza che da conversione di pene pecuniarie. Se tale è il giudice naturale sulla concreta applicazione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza, lo stesso non può non esserlo nel caso di applicazione successiva in conversione di pena pecuniaria non pagata.

E’ chiaro che, per converso, appare ben definita la competenza del giudice della esecuzione quando è in giuoco la valutazione del titolo di esecuzione; la commistione, a tale competenza sul titolo, di quella sulla concreta esecuzione della sanzione sembra fuori sistema.

In sostanza: nella materia in esame la competenza del magistrato di sorveglianza appare quella più logica e naturale, mentre non è così per il giudice dell’esecuzione.

Va aggiunto che, il giudice, in materia, affronta problemi che sono inconsueti per il giudice della esecuzione e che, sul piano pratico, possono anche essere di difficile gestione per il giudice della esecuzione. Così, la definizione delle prescrizioni delle sanzioni, che comporta, attraverso la acquisizione della conoscenza delle situazioni di inserimento socio-lavorativo degli interessati, decisioni analoghe a quelle consuete del magistrato di sorveglianza, ma profondamente eterogenee rispetto a quelle del giudice della esecuzione.