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A. Le linee generali

Riportiamoci a quanto è già stato posto in evidenza in precedenti parti di questa proposta.

Integrando l’art. 13 del testo vigente, al comma 8 dell’art. 18 della presente proposta, si scrive: “I condannati e gli internati, per la attuazione della finalizzazione costituzionale delle pene e delle misure di sicurezza alla rieducazione e alla risocializzazione, hanno diritto allo svolgimento della osservazione e alla predisposizione e successiva realizzazione, in costanza della loro collaborazione, del programma di trattamento previsto dai commi precedenti”.

Nell’art. 15, il comma 2 del testo vigente è sostituito dal seguente, che diviene il comma 2 dell’art. 20 della proposta: “Per l’attuazione del programma di trattamento, ai sensi dell’art. 18, i condannati e gli internati hanno diritto a disporre degli elementi del trattamento di cui al comma precedente. Gli istituti penitenziari devono essere organizzati al fine di rendere tali elementi concretamente disponibili per gli interessati.”

Siamo qui ancora nella fase, interna agli istituti, dell’avvio, della definizione e del primo sviluppo del programma di trattamento, che diventa la prima parte del percorso riabilitativo per il reinserimento sociale. Ma passiamo all’articolo introduttivo della parte della proposta dedicata alle misure alternative: è quello che ha assunto il numero 57. Il testo dell’articolo è costitutito da citazioni letterali di sentenze costituzionali (salvi l’ultima proposizione del penultimo comma e tutto l’ultimo comma). Riportiamolo integralmente, rubrica e testo:

Art. 57. (Diritti dei condannati).1. E’ riconosciuto, con riferimento all’art. 27, comma 3, della Costituzione, il diritto del condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla legge ordinaria, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo (sentenza 204/74 Corte Cost.).

2. Il sistema normativo deve tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma predisporre anche tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle (sentenza n. 204/74 Corte Cost.).

3. A tal fine sono stabilite le misure alternative alla detenzione o di prova controllata, che, attraverso prescrizioni limitative, ma non privative, della libertà personale e l’apprestamento di forme di sostegno, siano idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione alla risocializzazione (sentenza n. 343/87 Corte Cost.).

4. Il funzionamento di tale sistema deve essere assicurato attraverso la creazione e il mantenimento di una organizzazione adeguata a svolgere le funzioni di controllo e di assistenza indicate nel comma precedente (v. sentenza n. 343/87 Corte Cost.).

5. Quando il giudice competente accerta che il condannato si trova nelle condizioni, legali e di merito, previste dalla legge deve ritenere venuta meno la ragione della prosecuzione della pena detentiva e disporre che la stessa prosegua in misura alternativa (sentenza n. 282/89 Corte Cost.). Questa rappresenta un intervento ordinario e necessario attraverso il quale la pena viene eseguita e tale rimane, anche nei casi in cui la legge ordinaria lo preveda nei confronti di persone in stato di libertà.

6. L’organo giudiziario competente agli interventi di cui al comma precedente è rappresentato dalla magistratura di sorveglianza. La funzione di questa consiste, pertanto, nella gestione dinamica della esecuzione della pena attraverso la utilizzazione degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati, prima, dalla promozione della redazione e della attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale e dalla ammissione, poi, se ne ricorrano le condizioni, alle varie alternative alla detenzione, strumenti, tutti, rivolti al fine di tendere alla risocializzazione dei condannati e degli internati.

Il percorso penitenziario, il suo svilupparsi, la sua finalizzazione, la reintegrazione sociale che si vuole favorire e realizzare nei confronti delle persone condannate o internate vengono bene in evidenza attraverso questi riferimenti a parti precedenti di questa proposta. E vorremmo aggiungere che tutto questo non viene introdotto con gli interventi normativi che precedono, né con quelli che si introducono qui. Tali interventi sono invece la registrazione, attraverso la più esplicita garanzia legislativa, con copertura costituzionale, di situazioni e processi già riconosciuti e utilizzati, anche se con una efficacia limitata, che può essere decisamente ampliata e migliorata con la copertura della legge.

Credo sia utile, a questo punto, la citazione di due altre sentenze costituzionali, che riconoscono la rilevanza dello svilupparsi del percorso penitenziario ai fini del riconoscimento della ammissibilità ai benefici penitenziari dei condannati per delitti esclusi dagli stessi in forza del periodo iniziale del primo comma dell’art. 79 di questa proposta ( già art. 4bis ): due sentenze, quindi, su un aspetto specifico, che indicano però la rilevanza di un aspetto generale.

Si tratta delle sentenze della Corte costituzionale n. 445/97 e 137/99, che dichiarano incostituzionale la inammissibilità dei condannati ora indicati e affermano che i benefici penitenziari della semilibertà (prima sentenza) e dei permessi premio (seconda sentenza) possono essere concessi a coloro che, prima della data di entrata in vigore della normativa preclusiva, “abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata” (vedi dispositivi delle due sentenze). Sono riconosciuti, quindi, il percorso della rieducazione, la crescita dello stesso, la individuazione del livello raggiunto dal suo sviluppo e si riconosce a tutto questo la sostanza di una situazione acquisita, che la preclusione non può colpire se non operando una “ablazione” dello sviluppo potenziale già avviato: ablazione che le due sentenze considerano incostituzionale. E la lettura delle motivazioni delle due sentenze chiarisce che la “adeguatezza del grado di rieducazione” si ricava dal programma di trattamento e della fase cui lo sviluppo dello stesso era pervenuto. Così, per quanto riguarda la sentenza relativa alla semilibertà si dà rilievo alla dichiarata possibilità di ammettere il condannato al lavoro all’esterno, come prova del “grado di rieducazione” raggiunto.

La nozione di percorso penitenziario coglie per il condannato una situazione in movimento, il contrario di quella situazione statica che può essere propria di molte ordinarie situazioni penitenziarie. Il dinamismo dei percorsi di rieducazione-risocializzazione-riabilitazione del condannato è una caratteristica essenziale, che evidentemente non si fa da sé. Va stimolata, indotta, costruita con la efficacia dell’intervento degli operatori. La indispensabile partecipazione del condannato non è un elemento acquisito in partenza. Ci può essere chi si orienta da subito in questa direzione e chi invece ha bisogno di vedere ciò che spesso non cerca e altrettanto spesso semplicemente non ha: e cioè: prospettive, possibilità, risorse sociali e anche, sovente, volontà e fiducia di riuscire.

Tutto questo lavoro riguarda la difficile “professionalità educativa” degli operatori, che, nella situazione di mancanza di risorse in cui gli stessi si sono mossi e tuttora si muovono, è stata spesso impedita. La presente proposta prevede, come necessità urgente, l’apprestamento di quelle risorse, ma richiama anche l’attenzione sulla esigenza della rete sociale, che è stata richiamata e descritta come una sorta di alleanza di socializzazione fra i vari servizi e organismi pubblici e privati con i quali il lavoro degli operatori penitenziari si deve sviluppare.

B. Gli aspetti specifici dell’articolato

Al capo I° del titolo IV°, articoli da 154 a 160, ci si occupa delle modalità di intervento per i percorsi individuali di inserimento sociale.

Nell’art. 154 si definisce la progettazione del percorso di reinserimento sociale. Lo stesso conta sul concreto riconoscimento di quel diritto alla osservazione e al trattamento individualizzato, di cui parla l’art. 13 della legge. Riconoscimento concreto di quel diritto vuol dire molte cose, di cui si occupa il titolo I° di questa legge. Vuol dire, intanto, che gli elementi del trattamento indicati nell’art. 15 della legge – lavoro, istruzione, altre attività interne, agevolazione e miglioramento dei rapporti socio-familiari – devono essere realmente disponibili in modo da funzionalizzarli al percorso di reinserimento sociale individuato. Vuol dire anche che la progettazione del percorso deve individuare o concorrere a definire e reperire le risorse necessarie perché il progetto si realizzi. Vuol dire, inoltre, che si deve tracciare e contribuire a realizzare il percorso giuridico che si avvia verso la ammissione alle misure alternative. Vuol dire, infine, che siamo dinanzi a un progetto flessibile, cui si accompagna una costante messa a punto in termini di concretezza e adeguatezza al caso. All’art. 155 si indicano le risorse organizzative. Si tornano a ricordare anche quelle che appartengono alla rete sociale, di cui si è già parlato quando si sono esaminati, in questa relazione e nell’articolato, i problemi del personale dell’area educativa e dell’area del servizio sociale. Si chiarisce che una risorsa importante della rete è il volontariato.

All’art. 156 ci si sofferma sulle relazioni socio-familiari, che presentano aspetti diversi.

Il primo è quello delle criticità familiari. Le stesse richiedono una attività di sostegno e di aiuto, che possa contribuire al superamento delle criticità e a fare diventare la famiglia una delle risorse significative della persona. Se la famiglia vuole l’inserimento sociale del condannato è in grado di porre in essere un condizionamento, una spinta ed anche un controllo, più capillare e più significativo di qualunque altro. Può accadere, purtroppo, anche il contrario. C’è, comunque, anche questo aspetto negli interventi per le famiglie:

che sovente può servire a costruire la responsabilizzazione delle stesse, rispetto al familiare condannato, ma anche rispetto agli altri: si può pensare, in particolare, ai figli minori. E’ importante, ad ogni buon conto, superare le situazioni di conflitto fra il condannato e la propria famiglia, che sovente hanno caratterizzato la cornice del reato: pensiamo, ad esempio, a tutte le ipotesi di tossicodipendenza e alcooldipendenza, che producono pesanti tensioni familiari.

Il comma finale dell’art. 156 disegna le potenzialità che ha l’intervento di risocializzazione della persona: in prima battuta, l’allargarsi a migliorare la situazione della sua famiglia, come già si è detto, ma, in seconda battuta, a denunciare la criticità di certe situazioni sociali, il degrado di quartieri, il disagio diffuso di realtà non solo cittadine. La denuncia di questo agli enti territoriali che hanno la competenza sugli interventi sociali da operare in certi contesti stimola l’intervento sulle situazioni individuali a diventare occasione di intervento collettivo, promozione della consapevolezza dei blocchi di socializzazione che si sono prodotti in parti della collettività e stimolo a provocarne il superamento. Disegno poco realistico o individuazione dei doveri centrali di una comunità? La risposta alla domanda nasce dalla scelta di una politica - o di una non politica – sociale. L’art. 157 è dedicato allo svilupparsi del percorso di reinserimento sociale nella fase delle misure alternative: la fase, cioè, in cui la esecuzione della pena si colloca fuori dal carcere e nel contesto sociale. C’è ancora il riferimento ad operare con l’apporto di una rete sociale. C’è la indicazione della esigenza di riconoscere ruoli e competenze di certi servizi, come nel classico esempio di quelli relativi alle tossicodipendenze: la esecuzione penale è quella che consente il migliore ed effettivo intervento di recupero sociale e pertanto non deve mettere la propria competenza al di sopra di quella di tali servizi, ma deve riconoscere ai medesimi lo spazio per agire con maggiore efficacia. Chiariamo con un esempio: l’andamento del programma terapeutico di un tossicodipendente deve essere valutato dal servizio specifico che lo segue. Sarebbe un errore che si sovrapponesse la valutazione del giudice. Ancora più concretamente: è noto che il percorso di superamento della dipendenza psicologica, la più complessa e difficile, non è rettilineo e privo di incertezze. E’ il servizio delle dipendenze che è però in grado di operare se, anche attraverso i momenti critici, il programma si sviluppa in direzione positiva. Se il giudice volesse fare valere la sua valutazione delle criticità e coglierle come violazioni delle prescrizioni, impedirebbe al programma terapeutico stesso di raggiungere, attraverso i suoi momenti di criticità, la propria possibile conclusione positiva.

Non è senza significato l’ultimo comma dell’art. 4. La esecuzione della pena ha la sua durata e l’intervento specifico ricollegato alla stessa non può non concludersi con la fine della stessa. Ma il processo di reinserimento sociale, che ha visto una rete sociale affiancare i servizi penitenziari, non deve essere abbandonato se non si sia ancora concluso e consolidato. Si tratta, in sostanza, di prendere atto che questo sostegno alla socializzazione che è stimolato e che si svolge dentro la esecuzione della pena, è una fase di un “continuum” di attenzione sociale che deve essere riservato a tutte le situazioni di degrado e di criticità dei processi di socializzazione perché si arrestino le dinamiche di esclusione sociale e si producano nuovamente quelle di inclusione e reinserimento sociale, con effetti benefici sulle situazioni individuali e su quelle collettive.

L’art. 158 è dedicato alla situazione di chi è ammesso dalla libertà alle misure alternative alla pena detentiva inflitta. Si traduce qui in articolazione normativa quanto si era osservato all’inizio della parte seconda, sezione prima. La legge Simeone-Fassone-Saraceni, modificando l’art. 665 del C.p.p., ha stabilito una situazione di eguaglianza nei confronti di tutti coloro che hanno da eseguire una pena non superiore a 3 anni o a 4 anni, se tossicodipendenti o alcooldipendenti, anche se residuo di una pena maggiore.

Si è osservato che tale eguaglianza resta formale e non esclude la disuguaglianza sostanziale di fronte alla esecuzione della pena di chi è privo di quelle che complessivamente si possono chiamare risorse sociali. Nell’art. 159 si cerca di mettere in movimento una rete sociale di aiuto per coloro che mancano di quelle risorse al fine di consentire che essi partecipino di una modalità di esecuzione della pena diversa dal carcere, modalità che può essere, fra l’altro, per loro, l’occasione di acquisire quelle risorse sociali di cui mancavano.

C. Lo studio e la ricerca in materia penitenziaria Si viene all’art. 160.

Si può discutere sulla opportunità di inserire in questa parte dell’articolato una norma che favorisce gli studi e le ricerche in materia penitenziaria. E’ parso, però, che questo fosse il punto strategicamente migliore. L’idea di fondo della presente proposta è quella di dare corpo ad una esecuzione della pena conforme alle indicazioni costituzionali riepilogate nel citato art. 57 della proposta e di regolare normativamente una organizzazione adeguata ad applicare quelle indicazioni: non si può che rinviare al testo della norma indicata (vedi anche qui sopra al n 1 di questa sezione) e alle sentenze costituzionali n. 204/74, 343/87 e 282/89.

Tanto premesso, è indispensabile una intensa attività di ricerca che valga a dare le indicazioni opportune circa le incompletezze e le inefficacie del sistema per favorirne la messa a punto e anche per avere le conferme o meno dei ritorni positivi di una esecuzione penale diversa.

Le ricerche in questione, pertanto, non devono essere volte, alla descrizione dei reati e dei loro autori, cioè alla costruzione di tipi di reato e di tipologie di autori (si possono ricordare le riserve di sentenze costituzionali – si ricorda, fra tutte, la n. 306/93 – che mettono in guardia dal ricollegare effetti normativi a tali costruzioni), come è proprio di alcune ricerche criminologiche. Come tutte le ricerche definitorie, le stesse colgono la statica dei reati e dei loro autori e di conseguenza giustificano una statica delle pene e della loro esecuzione. Le ricerche cui si riferisce l’art. 160 fanno invece riferimento alla produzione, attraverso la esecuzione penale, di percorsi riabilitativi e di reinserimento sociale nella fase carceraria, prima, e in quella delle misure alternative, poi, e mettono così in luce e verificano la efficacia o la debolezza di quella che si è descritta come la politica penitenziaria, efficacia e debolezza valutate in riferimento alla Costituzione e alla nostra legislazione di riforma. In sostanza, si tratta di riflettere su una visione dell’intervento possibile in una specifica area del disagio sociale e della sofferenza umana in modo da cercare di modificare le criticità e di recuperare le persone ad un rapporto accettabile fra loro e il resto della comunità. Riflessioni del genere hanno interessato altre aree del disagio e delle sofferenze sociali ed umane, come quelle della malattia mentale o della demotivazione sociale delle dipendenze da sostanze, riproponendo sempre questa scelta fra risposta statica e di esclusione e risposta dinamica e modificativa di ricerca della inclusione nella comunità. In tal senso questa, come si è detto qui sopra, è la sede strategicamente migliore per inquadrare la necessaria attività di studio e ricerca nel nostro settore.

Sezione II. Relazione sui capi II° e III°del titolo IV°: gli interventi collettivi