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A. La collocazione sistematica

Si è già accennato che, nel quadro della generale revisione della distribuzione della normativa contenuta nell’Ordinamento penitenziario, si è ritenuto di togliere le disposizioni relative alla magistratura di sorveglianza dal titolo II°, dedicato alla “organizzazione penitenziaria”. La collocazione che si propone è quella del titolo dedicato alle misure giurisdizionali in materia penitenziaria, nel quale vanno a collocarsi correttamente le norme sulla magistratura di sorveglianza, che, col Capo III°, concludono il titolo stesso. D’altronde, pur assumendo una propria autonomia con il titolo II°, la parte sulle misure giurisdizionali, resta legata a quella contenuta nel titolo I°, dedicata alle regole e alle misure più strettamente penitenziarie: E’ vero che qui sono presenti anche importanti interventi del magistrato di sorveglianza, come quello sui permessi (art. 30 e segg.) e quello sui reclami (art. 35), il secondo introdotto a seguito della sentenza costituzionale n. 26/99. Ma tali norme sembrano più interne alla fase penitenziaria e giustificano la

collocazione praticata, anche se presentano momenti non solo giudiziari, ma anche propriamente giurisdizionali.

Questa distinzione fra fase dell’intervento penitenziario e fase giurisdizionale non deve, comunque, fare dimenticare il filo che lega entrambe ed è la proposta, la costruzione e il sostegno del percorso di rieducazione-riabilitazione-risocializzazione del condannato attraverso il tempo della esecuzione della pena. La fase giurisdizionale, d’altronde, introduce alle misure alternative alla detenzione e, quindi, ancora ad un periodo di esecuzione della pena, anche se in regime diverso da quello detentivo. Si crea, così, accanto all’area della esecuzione penale interna al carcere, l’area della esecuzione penale esterna, che ha profondamente modificato la struttura della esecuzione penale nel suo complesso.

Si sottolinea, quindi, con la nuova collocazione normativa, da un lato, una necessaria distinzione sistematica ed organizzativa, pur confermando, dall’altro lato, lo stretto rapporto che lega il quadro penitenziario nella sua totalità.

B. La specificità della magistratura di sorveglianza

E’ abbastanza ovvio partire dalla considerazione che l’oggetto del processo penale di cognizione e quello dell’intervento giurisdizionale di sorveglianza sono molto diversi. Il primo riguarda i fatti e il loro svolgimento, il secondo la persona condannata, attraverso lo sviluppo del suo percorso carcerario, prima, e della sua vicenda di rientro sociale poi: e ciò vale anche se il percorso carcerario non c’è stato o non è attuale, ma si tratta di identificare il percorso sociale, come in occasione di istanze di misura alternative dalla libertà. Sono oggetti diversi, che richiedono impegni di ricerca diversi e strumenti interpretativi diversi per lo sviluppo di questa ricerca.

All’interno della identificazione di ricerca e ruolo e complessivamente della funzione della magistratura di sorveglianza, c’è anche l’affiancarsi all’esame sul percorso carcerario e sociale della persona, del richiamo alla pericolosità della stessa. Può confondersi la chiarezza della funzione. In materia di permessi, l’elemento della pericolosità è introdotto e non manca un analogo richiamo in materia di misure alternative quando entrano in giuoco i delitti previsti dall’art. 4bis del testo vigente e 79 del presente articolato. Vi è, poi, è vero, una materia, quella delle misure di sicurezza, in cui il criterio di valutazione è proprio quello della pericolosità sociale.

Bisogna, però, chiarire il rapporto fra il discorso sulla pericolosità della persona e quello sul suo percorso penitenziario e sociale. Se i due piani si confondono, la dinamica della ricerca e della funzione penitenziaria si blocca. Il discorso sulla pericolosità rischia di diventare pregiudizio e discriminazione, se non viene tenuto come uno degli elementi della presa di contatto con il caso da esaminare. E’ chiaro che si deve conoscere il reato commesso, la storia giudiziaria della persona, accanto e insieme alla sua storia esistenziale, alla sua situazione sociale e familiare. Ma, dopo questa presa di contatto, il discorso principale è quello della sua vicenda e dello sviluppo del suo percorso penitenziario. I richiami normativi sulla pericolosità, d’altronde, richiedono un dato necessario della pericolosità che conta: la attualità della stessa. Giudizio tutt’altro che semplice, che rischia in molti casi di ricadere nel pregiudizio, quando la valutazione della gravità dei reati commessi produce la convinzione che la pericolosità espressa in passato non possa essersi cancellata. Andrebbe aggiunto che, in materia di misure di sicurezza, il giudizio sulla pericolosità sociale, sulla necessità della cui attualità la legge è molto esplicita, deve essere sempre inquadrato nella finalizzazione alla riabilitazione sociale delle stesse misure di sicurezza.

Si può dire allora che il problema della pericolosità e del suo rapporto con l’oggetto proprio dell’intervento della magistratura di sorveglianza pone un ulteriore elemento di complessità della funzione, ma non può assolutamente bloccarla. E’ e deve restare uno strumento significativo, che, però, deve aiutare il concreto esprimersi della funzione e non impedirla.

Questo non fa che rafforzare la considerazione che la specificità della attività richieda nei magistrati assegnati una puntuale consapevolezza dei fini e la disponibilità degli strumenti conoscitivi necessari per realizzarli. La specificità della funzione chiama, quindi, la specificità di risorse e di preparazione necessarie per svolgerla.

E’ quanto si indica al comma 3 dell’art. 102 di questo Capo III°, che interviene su varie parti dell’art. 68 del testo vigente. Con la modifica, si sottolinea la esigenza di una particolare preparazione per svolgere la funzione di magistrato di sorveglianza, particolare preparazione che fa riferimento ad una formazione teorica e ad una formazione pratica. La magistratura di sorveglianza agisce ormai da quasi 30 anni, durante i quali ha lamentato sovente uno scarso apprezzamento del proprio lavoro, una situazione di dequalificazione. In qualche misura ciò è accaduto, ma sostanzialmente perché non si è preso atto della specificità del lavoro e non si è fatto corrispondere alla stessa la esigenza della specificità delle risorse professionali. Si noti che la situazione era aggravata dalla incompletezza e approssimazione del lavoro più strettamente penitenziario, determinata dalla insufficienza degli operatori della osservazione e del trattamento e dalla inadeguatezza delle attività relative in carcere e nel settore penitenziario in genere. Il materiale offerto all’intervento della

magistratura di sorveglianza era di qualità insufficiente e non stimolava una attività qualificata della stessa. Ma questa serie di inadeguatezze non è fatale e non si è costretti a subirla. Al contrario, la strada da battere è quella di superare le inadeguatezze, di portare il livello della attività penitenziaria a quello che la legge richiede e di chiedere analogamente qualità alla magistratura di sorveglianza, ponendo corrispondentemente le condizioni perché la risposta sia all’altezza della importanza della domanda.

Si è posto il problema se queste formazione, preparazione e azione specifiche della magistratura di sorveglianza possano turbare la oggettività del suo operare, compromettano la neutralità che si richiede ad un organo giudiziario, la terzietà che dovrebbe essere propria dello stesso. Ma su queste perplessità è necessario fare chiarezza. Si manifesta qui la profonda differenza, ricordata all’inizio, fra la posizione del giudice della cognizione e quella del giudice di sorveglianza, in ragione della diversità di funzione e di ruolo. Per il primo ogni occasione di preventiva conoscenza del caso deve essere esclusa. Per il secondo, la struttura organizzativa del suo lavoro e degli uffici in cui opera, è in funzione del formarsi di tale conoscenza e della utilizzazione della stessa nel corso degli interventi che gli vengono successivamente richiesti. Così che non solo le decisioni monocratiche dovranno essere adottate dal giudice che ha seguito la detenzione delle persone interessate (e ciò avverrà attraverso la funzione di sorveglianza generica sugli istituti e attraverso gli interventi specifici sulle persone con i permessi e quant’altro), ma le decisioni collegiali dovranno vedere la partecipazione di quello stesso giudice, che potrà portare nel collegio il valore, non l’inconveniente, della sua conoscenza di persone e situazioni: art. 70, comma 6, O.P. nel testo vigente e comma 2 dell’art. 105 di questa proposta.

Il fatto è che la magistratura di sorveglianza, indubbiamente con la indipendenza e oggettività della sua funzione giurisdizionale (anche se non sempre, ma quasi sempre giurisdizionalizzata), è dentro la dinamica del processo riabilitativo che anima la esecuzione penale e deve servire tale dinamica. Se si teme che questo possa “compromettere” il giudice, turbarne la terzietà, si deve essere consapevoli che questo equivale puramente e semplicemente al rifiuto della funzione. La tentazione c’è e si esprime nella richiesta di anticipare la determinazione delle modalità esecutive al momento stesso della sentenza. Ma ciò, come si è detto ora, equivale a negare la flessibilità della esecuzione della pena nella fase della esecuzione, che è, invece, la chiara indicazione della giurisprudenza costituzionale.

Questo timore della flessibilità della esecuzione della pena (che ha anche animato, ad esempio, i due progetti noti, Pagliaro e Grosso, di legge delega per un nuovo codice penale, non arrivati, comunque, alla sede legislativa) deriva dalla convinzione che la flessibilità produca una eccessiva discrezionalità e una incontrollabile incertezza della pena. Di qui la convinzione che sia preferibile il recupero alla fase di cognizione e alla sentenza di condanna della determinazione delle modalità di esecuzione della pena. Ma, a prescindere dal fatto che, in tal modo, si passa sopra alla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità, si trascura che la anticipazione alla sentenza della determinazione delle modalità esecutiva sposta a tale fase il lamentato inconveniente della discrezionalità e, inoltre, fa decidere modalità esecutive in ordine a persone e situazioni sostanzialmente sconosciute: così che, dove si è provato a progettare concretamente questo, si è previsto un intervento successivo della magistratura di sorveglianza, fatta sopravvivere soltanto per la determinazione in concreto di quelle modalità esecutive determinate (al buio) in sentenza.

Si può concludere. Il riconoscimento della specificità delle funzioni della magistratura di sorveglianza e la qualificazione corrispondente della stessa sono la via da battere per ridurre la discrezionalità e le ricadute sulla incertezza della pena, che possono avere accompagnato le decisioni dei giudici di sorveglianza. E sono inoltre il modo di dare solidità applicativa alla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità.

C. Esigenze organizzative dei tribunali e degli uffici di sorveglianza: le risorse necessarie

1. La necessità della tempestività

La tempestività degli accertamenti e delle decisioni è una necessità di qualsiasi attività giudiziaria, necessità che, purtroppo non è soddisfatta dalla nostra organizzazione giudiziaria.

Se c’è, però, una materia nella quale tale necessità è ineludibile, questa è quella della sorveglianza.

Ciò è ben comprensibile quando le procedure hanno ad oggetto una persona detenuta. Sia che si debba decidere per tale persona, a seguito di una istanza di permesso o di misura alternativa, sia che si debba decidere contro la stessa, per la eventuale revoca degli stessi benefici, una decisione tardiva, e spesso pesantemente tardiva, equivale a una non decisione. Perché, al limite,può intervenire quando la pena è conclusa o, comunque, quando le situazioni si sono modificate e mutate: e, anche se così non fosse, si è inflitto un ulteriore periodo di detenzione ordinaria privo di una ragione accettabile.

Come è noto, però, molte procedure, in specie dei tribunali di sorveglianza, riguardano persone libere. Per le misure alternative, oltre i due terzi delle procedure, a seguito dell’operare della legge

Simeone-Fassone-Saraceni, nascono da istanze di persone in stato di libertà. Ebbene, non è che, in questi casi, il ritardo delle decisioni sia meno grave, meno inaccettabile.

Intanto, precisiamone la entità. Il ritardo di queste procedure non si esprime in mesi, ma in anni. Le procedure in attesa di fissazione di udienza, stando alle notizie più recenti, sono oltre 80.000, con una possibile direttrice di crescita, se mancheranno interventi adeguati. Un simile arretrato equivale, approssimativamente, ad almeno due anni di lavoro del sistema complessivo dei tribunali di sorveglianza. Definita la dimensione quantitativa del fenomeno, se ne possono sottolineare tre aspetti di estrema gravità. Il primo aspetto riguarda il blocco nei fatti della attività del sistema dei tribunali di sorveglianza, che, con il proprio lavoro attuale, incide soltanto sulla superficie della massa delle procedure, che, nel frattempo, diviene sempre più grande.

Il secondo aspetto riguarda il sistema della esecuzione penale. La situazione descritta crea una disfunzione al limite del collasso. E’ inammissibile che vi siano esecuzioni pendenti da due anni per pene che, sovente, non sono affatto irrisorie: sappiamo, addirittura, che possono essere pene (residue) di 3 o 4 anni ( nel secondo caso, se si tratti di tossicodipendenti), qualcosa che rappresenta una percentuale importante della esecuzione penale. La disfunzione, o collasso che sia, riguarda, quindi, una parte estremamente significativa di tutta la esecuzione penale.

Il terzo aspetto riguarda gli stessi interessati. Se il loro interesse è di non eseguire la pena o di rimandarne di molto tempo la esecuzione, saranno soddisfatti: si tratta proprio di coloro che hanno meno voglia di cogliere la esecuzione della pena come occasione di riabilitazione. Ma se il loro interesse è di utilizzare una situazione di reinserimento attuato o attuabile, di cogliere una occasione di riabilitazione che loro si offre (pensiamo alla attuazione di un programma terapeutico avviato o in fase di avviamento), tuttociò verrà compromesso e frustrato.

Conclusione: il problema della tempestività degli interventi della magistratura di sorveglianza è essenziale e ineludibile: se non lo si affronta e risolve, collassa il sistema della esecuzione penale.

2. Le risorse necessarie per il recupero di funzionalità del sistema della magistratura di sorveglianza

Il primo testo dell’Ordinamento penitenziario aveva una tabella allegata che definiva le sedi giudiziarie della magistratura di sorveglianza. Quella tabella ha perso di attualità nel senso che era basata sulla distribuzione a quel tempo degli istituti di prevenzione e pena sul territorio. Oggi, vi sono state modifiche alla distribuzione di allora e soprattutto il lavoro della magistratura di sorveglianza è stato fortemente accresciuto dalle procedure concernenti persone libere. Per questa parte della attività, è rilevante la entità della popolazione di un dato territorio e, quindi, un criterio non tenuto in alcun modo presente in passato.

Il problema, però, non è tanto quello della distribuzione delle sedi sul territorio quanto quello della distribuzione delle risorse di organico del personale assegnato alle stesse: magistrati e collaboratori.

La legge non può scendere alla definizione degli organici, che, infatti, nell’art. 102, comma 5, è rimesso alle sedi competenti, ma indica, al comma 6, i criteri cui ci si deve riportare. Questi criteri riguardano il numero dei detenuti e degli internati, quello delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, nonché quello delle misure di sicurezza e delle sanzioni sostitutive seguite dai singoli uffici.

Sempre al comma 5 dell’art. 102, si dispone che si deve partire da una nuova e sollecita definizione degli organici, sia dei magistrati che del personale, e che occorrerà periodicamente riesaminare ed aggiornare gli stessi.

Al comma 8 dello stesso art.102, ci si sofferma su un punto essenziale per una corretta determinazione degli organici. Il problema essenziale di questi ha sempre riguardato e riguarda soprattutto le sedi capoluogo del distretto in cui coesistono tribunale e ufficio di sorveglianza. La recente l. 19/12/2002, n. 277, ha spostato la competenza in materia di liberazione anticipata, almeno in prima battuta, al magistrato di sorveglianza, determinando un qualche sollievo nella gravosità del lavoro dei tribunali. Ma resta irrisolto un nodo di fondo. Gli uffici di sorveglianza capoluogo di distretto hanno un organico unico, cui si attinge per la organizzazione del tribunale e per quella dell’ufficio: e, generalmente, è il tribunale che assorbe la parte preponderante delle risorse. Ma la questione da cogliere è che il lavoro dell’ufficio del magistrato di sorveglianza del capoluogo del distretto è generalmente quello largamente più gravoso rispetto a quello di tutti gli uffici periferici. Questo accade nel numero prevalente delle sedi, particolarmente delle maggiori: in queste si concentrano, infatti, generalmente, gli istituti di pena più grandi e, quindi, un maggior numero di detenuti e, inoltre, un numero di misure alternative, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive più elevato in ragione del maggior numero di abitanti. In linea di massima il complessivo lavoro degli uffici del magistrato di sorveglianza del capoluogo equivale alla somma del lavoro delle sedi periferiche, ma il personale utilizzato dall’ufficio capoluogo, dopo il necessario tributo di risorse per il lavoro del tribunale, è incomparabilmente inferiore alla somma del personale disponibile per gli uffici periferici. E si noti che il recente passaggio di competenza per la liberazione anticipata non ha fatto che riprodurre la distorsione, in quanto è stato inevitabilmente molto

maggiore per l’ufficio capoluogo che per quelli periferici. Conclusione: si ribadisce la necessità, per gli uffici di sorveglianza capoluogo del distretto, di organici distinti del personale per il tribunale e di quello per l’ufficio del magistrato di sorveglianza (monocratico).

3. La organizzazione del lavoro giurisdizionale e non giurisdizionale

Una analisi del formarsi di pesanti arretrati nel sistema della magistratura di sorveglianza può portare a porre in evidenza la minore efficienza e la maggiore lentezza del lavoro di alcune sedi rispetto alle altre. Le ragioni possono essere diverse e, in particolare, è indubbio che maggiore è la dimensione della sede, maggiore diviene la difficoltà di gestire lo svolgimento del lavoro e di impedire il formarsi dell’arretrato, che ha, una volta formato, una propria, inesorabile dinamica di rallentamento e di riproduzione.

All’intervento sulla massa dell’arretrato, particolarmente di quello riguardante le domande delle persone a esecuzione sospesa (ex lege Simeone-Fassone-Saraceni), sarà dedicata la pagina successiva. Qui ci si sofferma sui tempi e le modalità dello svolgimento del lavoro ordinario, che affluisce nel corso di un anno. Si parte da una affermazione ovvia e sostanzialmente lapalissiana: nell’anno vanno definite lo stesso numero di procedure che vengono registrate in entrata. Ma, dopo questo esordio, che potrebbe essere anche sottaciuto, ci si sofferma su alcune modalità essenziali della organizzazione del lavoro, tese a dettare i tempi dello stesso e la sua speditezza.

Anche queste indicazioni possono sembrare ovvie, ma sono sovente trascurate e consentono l’innesco della dinamica di rallentamento del lavoro, che, in breve, determina il formarsi dell’arretrato. Richiamare, quindi, a queste modalità organizzative appare decisamente opportuno. Ecco, allora, i punti essenziali da tenere presenti, indicati ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 108.

Primo punto. La registrazione tempestiva delle procedure è essenziale. Vi sono periodi critici nei quali può accadere che non ci si attenga a questa regola. Questo determina inevitabili complicanze nel lavoro (duplicazioni di istanze, difficoltà di unione di atti, etc.) ed è molto difficile recuperare successivamente e aggiornare le registrazioni.

Secondo punto. Per il lavoro giurisdizionale è essenziale una sollecita fissazione della udienza, che dà i tempi al lavoro preparatorio. Dà il tempo, in particolare, agli uffici ai quali vengono richieste informazioni, documentazioni e relazioni. Se le richieste sono senza indicazione della data di udienza,avranno tempi di risposta imprevedibili e sicuramente non brevi. Dopo l’invio delle richieste con la annotazione della data di udienza, occorreranno, comunque, sistematici solleciti poco prima della stessa data così da ottenere l’evasione delle richieste in via d’urgenza.

Si noti che non è necessaria una fissazione estremamente veloce delle udienze, che difficilmente consentirebbe lo svolgimento e l’acquisizione dei dati informativi necessari (il termine di 45 giorni dal ricevimento dell’istanza, previsto dall’art. 656, comma 6, C.p.p., è poco realistico, particolarmente per le relazioni di osservazione e dei centri di servizio sociale). L’essenziale è indicare una data ragionevole e imporre e imporsi, con questa, i tempi per l’istruttoria e la decisione.

Terzo punto. Bisogna prevedere una procedura urgente per i casi che lo richiedano e in tal caso si deve ipotizzare la disapplicazione dei termini dilatori dati dell’art. 666, comma 3, per la fissazione della udienza. Quarto punto. Sulla linea del terzo punto, si ritiene di dovere modificare l’art. 69bis, comma 2 del testo vigernte, introdotto con la recente legge 19/12/2002, n. 277. Questa modifica è effettuata all’art. 104 del nuovo testo. La semplificazione della procedura dinanzi al magistrato di sorveglianza per le decisioni in materia di liberazione anticipata, disposta dal comma 1 del citato articolo 69bis, è opportuna, ma va applicata fino in fondo: se il contraddittorio è eventuale, risulta del tutto superflua la richiesta del parere del pubblico ministero, richiesta obbligatoria, ma risposta del P.M. facoltativa per lo stesso, che, d’altronde, alla pari dell’interessato, ha la possibilità di reclamo contro il provvedimento. Si noti, fra l’altro, che il parere