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La Carta di Roma e il documento del Comitato Nazionale di Bioetica

2.1 Le posizioni in gioco nel dibattito italiano

2.1.3 La Carta di Roma e il documento del Comitato Nazionale di Bioetica

Nel febbraio 2008, a poche settimane di distanza l’uno dall’altro, sono stati resi pubblici due documenti di segno opposto rispetto ai documenti precedentemente analizzati.

Il primo documento, noto come Carta di Roma48, consiste in una breve

dichiarazione firmata dai direttori delle cliniche di Ostetricia e Ginecologia delle quattro università romane, Sapienza, Tor Vergata, Cattolica, e Campus Biomedico, e supporta in pieno le tesi che saranno esposte in maniera più analitica nel documento redatto dal Comitato Nazionale di Bioetica. Il punto centrale sostenuto dalla Carta di Roma è che ogni nato, in quanto persona giuridica, ha diritto alla vita e ha quindi diritto a ricevere

48 R. ANGIONI et al., Giornata della Vita: La prematurità estrema: margini di gestione ostetrica e

risvolti neonatologici, Roma, 1-3 febbraio 2008. Convegno promosso dalle Cliniche Ostetriche e

un’adeguata assistenza sanitaria. Risulta pertanto opportuno sottoporre a rianimazione ogni feto vitale, indipendentemente dall’età gestazionale di appartenenza, poiché questo intervento consente di effettuare una valutazione delle condizioni cliniche del nato e delle sue risposte alle cure ricevute. Un intervento tempestivo e immediato permette inoltre di guadagnare tempo aggiuntivo necessario per discutere delle sue condizioni cliniche con l’equipe medica e con i genitori. Nel caso in cui le terapie non dovessero produrre effetti positivi, risulta appropriato evitare che le cure intensive sfocino nell’accanimento terapeutico.

La stessa posizione è sostenuta dal documento pubblicato dal Comitato Nazionale di Bioetica denominato I grandi prematuri. Note bioetiche del 29 febbraio 2008, che analizza la Carta di Firenze fornendone una valutazione etica. Questa valutazione non è stata approvata dalla totalità dei membri del Comitato, una parte di essi, infatti, ha espresso il proprio dissenso motivandone le ragioni in allegato al documento stesso.

La prima parte del documento, che si occupa di inquadrarne la tematica, pone in evidenza l’esistenza di un dibattito relativo al problema etico riguardante la “decisione di sospendere trattamenti salvavita e di rianimazione a carico di neonati nati in età gestazionale estremamente bassa o comunque portatori di patologie altamente invalidanti, sulla base

sostanzialmente del giudizio in merito alla loro futura e precaria 'qualità di vita'”49.

Dopo aver evidenziato il positivo raggiungimento di progressi tecnici e medici che a partire dagli anni ’90 hanno migliorato la prognosi della sopravvivenza, quali l’uso di cortisonici e surfattante, l’estensore del documento chiarisce il fatto che l’emergenza dovuta a una nascita estremamente prematura non ha ricevuto un approccio univoco da parte dei neonatologi nei vari Paesi e individua tre tipologie di intervento che vengono generalmente adottate per affrontare il trattamento:

1. Approccio Statistico: utilizzato soprattutto dai medici svedesi, tipico

dei neonatologi propensi a non intraprendere trattamenti qualora vi siano dati statistici di prognosi infausta. In base a tali dati viene stabilito a priori un limite di età gestazionale o di peso alla nascita sotto il quale si erogano esclusivamente cure confortevoli50;

2. Approccio Prognostico Individualizzato: utilizzato principalmente

nel Regno Unito, prevede la sospensione del trattamento nel caso in cui ci si trovi di fronte a un deterioramento della situazione clinica. Questo metodo prevede l’istituzione di cure temporanee in sala parto

49Comitato Nazionale per la Bioetica: I grandi prematuri. Note bioetiche, 29 febbraio 2008, p. 3. 50Cfr. T.M. BERGHER, “La cura dei bambini prematuri al limite della capacità di vita. Prospettiva

svizzera” in Interventi al limite, cit. pp. 123-124. Cfr. anche G. CHIRICO, “Tra scienza e etica: cosa dicono le linee guida internazionali?” in Interventi al limite, cit. p. 104.

per tutti i nati aventi ragionevole possibilità di sopravvivenza. La risposta del paziente viene controllata a intervalli regolari per verificare se è opportuno proseguire con la somministrazione delle cure intensive, che saranno adottate finché i benefici sembreranno essere superiori alle difficoltà. Nel caso in cui non si abbiano ragionevoli aspettative per una qualità di vita accettabile, il medico, in accordo con i genitori del paziente, potrà decidere di adottare opzioni alternative, come l’utilizzo di cure confortevoli51;

3. Attivismo Terapeutico o dell’attesa: utilizzato in genere negli USA e

in Italia, secondo il quale è opportuno iniziare il trattamento in ogni situazione sostenendolo finché non si è virtualmente certi della morte imminente.

Vengono inoltre individuati tre tipi di situazioni cliniche che si presentano in epoca neonatale:

1. neonato di bassissimo peso perché nato prematuramente o per gravi

cause di ritardo di sviluppo endouterino;

2. gravi traumi dovuti a lesioni cerebrali causate da anossia intrauterina

intervenuta nel corso della gravidanza o del parto, che possono riguardare anche i nati a termine;

3. gravi condizioni morbose intervenute durante lo sviluppo

intrauterino, con cause genetiche, virali o dovute a gravi malformazioni.

Il documento in oggetto evidenzia che in tutti i casi sopra citati la prognosi è riservata, non essendo possibile stabilire a priori se il neonato sopravvivrà o meno, e potenzialmente negativa relativamente agli esiti, dal momento che con molta probabilità il neonato riporterà un qualche grado di disabilità. Il fulcro del dibattito è quindi se, in questi casi, risulti appropriato intraprendere un percorso improntato all’attivismo terapeutico oppure se sia più opportuno astenersi da trattamenti che possono essere considerati futili e contrari al miglior interesse del bambino:

“Si deve accogliere la tendenza ad allargare la politica di “non rianimare” i neonati a rischio […]? Oppure è moralmente più corretto applicare a tutti i neonati che danno segni di vita le cure rianimatorie e il sostentamento vitale attendendo che il bambino si dichiari (come si dice in gergo) e cioè possa meglio precisarsi la diagnosi quoad vitam in rapporto all’andamento clinico delle prime ore o nei primissimi giorni di vita?”52.

Emerge qui chiaramente che le due posizioni prese in considerazione richiamano due principi diversi e tra loro opposti. La prima, la cosiddetta

“politica del non rianimare”53, si ispira al principio della disponibilità della

vita umana, e si basa sul presupposto che non sia nell’interesse del bambino avviare i trattamenti necessari a mantenerlo in vita in quanto tali trattamenti sono da considerare futili poiché il neonato avrà scarsissime possibilità di sopravvivere e di condurre una vita libera da gravi handicap. La seconda posizione invece si basa sul principio della sacralità e indisponibilità della vita umana, e ritiene che la mera sopravvivenza, pur accompagnata da severe disabilità, rappresenti il miglior interesse del nato, in quanto qualsiasi tipo di vita, anche nelle più gravi circostanze, è sempre degna di essere vissuta.

Il documento prosegue evidenziando il duplice valore etico che l’incertezza della prognosi può rivestire per il medico: se da un lato questa incertezza può essere considerata negativamente e condurre alla desistenza terapeutica, dall’altro lato può invece essere considerata positivamente e portare al trattamento a oltranza. Il medico è quindi diviso tra l’abbandono e l’accanimento terapeutico. Poiché, secondo il Comitato di Bioetica, negli ultimi anni in Europa è evidente un ampliamento della tendenza alla desistenza terapeutica, da più parti è richiesta l’elaborazione di una regolamentazione giuridica delle pratiche di fine vita in epoca neonatale,

analogamente a quanto avviene circa il dibattito sull’eutanasia in età adulta. Il Comitato precisa che le valutazioni sul trattamento dei nati estremamente prematuri esulano dal dibattito sull’eutanasia infantile, essendo questa seconda ipotesi illegale nel nostro Paese.

Il documento in esame procede con un’analisi della Carta di Firenze, evidenziando che le raccomandazioni di intervento in essa contenute propongono indicazioni di trattamento esclusivamente sulla base dello sviluppo fetale, senza fare riferimento alle condizioni o alle patologie che hanno causato la nascita prematura54. Si precisa inoltre che, per i nati al di

sotto delle 22 settimane di età gestazionale, la Carta di Firenze propone di non rianimare, ammettendo deroghe in casi eccezionali. Queste indicazioni, seppur basate su dati scientifici, possono condurre a comportamenti “pregiudizialmente non rianimatori”55, facendo propendere il giudizio dei

medici verso comportamenti orientati alla desistenza terapeutica.

Il documento prosegue asserendo che allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non esiste nessuno strumento che possa dare certezza sulla prognosi circa le possibilità di sopravvivenza o gli esiti a distanza. L’età gestazionale e la valutazione alla nascita dei parametri vitali non possono

54 Ivi, p. 9. Tra le possibili cause di nascita estremamente pretermine il Comitato Nazionale di Bioetica include il ricorso ad aborti tardivi.

dare indicazioni certe: la prima può essere oggetto di una valutazione errata e si può correre il rischio di sottostimare l’età gestazionale del nato, la seconda non è sempre in grado di fornire indicazioni esatte e non può quindi avere un rigoroso valore prognostico. Il fatto che, durante le prime ore di vita del nato estremamente prematuro, non sia possibile stabilire una diagnosi e una prognosi certe, conduce a una prima valutazione etica indicante la necessità di intervenire con un’assistenza immediata, assistenza che potrà essere sospesa solo nel caso in cui si raggiunga la certezza di sfociare nell’accanimento terapeutico. Inoltre, il solo fatto che il neonato possa sopravvivere con gravi disabilità non dimostra la futilità dell’intervento ma, al massimo, ne evidenzia la limitata utilità. Per il Comitato Nazionale di Bioetica la gravosità di una vita “di bassa qualità” non può mai essere confusa con la gravosità del trattamento: mentre un trattamento gravoso e sproporzionato può essere sospeso perché futile, “non è [invece] lecito né eticamente né giuridicamente non iniziare o interrompere un trattamento non gravoso per evitare la gravosità di una vita con handicap”56.

Un’ulteriore critica del Comitato di Bioetica alla Carta di Firenze consiste nel fatto che quest’ultima sembra ignorare l’articolo 7 della legge

sull’interruzione volontaria di gravidanza. In tale articolo è specificato che qualora sussistano possibilità di vita autonoma per il feto abortito, il medico deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita. La Carta di Firenze, invece, inverte questo principio alle 22 e alle 23 settimane proponendo come regola la non rianimazione, cosa che non appare giustificata al Comitato Nazionale di Bioetica in quanto tali prescrizioni non sono fondate sulla certezza scientifica della futilità del trattamento, ma piuttosto sull’incerta utilità del trattamento. Nel caso dei gravi prematuri non varrebbe più il principio in base al quale è necessario attuare interventi salvavita eccetto i casi di comprovata futilità, bensì il principio contrario, secondo il quale tali trattamenti non sono dovuti, a meno che non ne sia provata l’utilità e a patto che i genitori esplicitino il loro consenso al trattamento.

La richiesta di consenso al trattamento da parte dei genitori risulta del tutto fuori luogo agli estensori del documento in analisi: infatti, solo il medico è in grado di stabilire se il neonato è vitale e se le cure erogate siano utili o meno. Il ruolo dei genitori risulta quindi fortemente ridimensionato rispetto alla Carta di Firenze: i genitori devono essere sempre tempestivamente informati circa le condizioni del nato, ma il loro consenso al trattamento non può essere giuridicamente ed eticamente

vincolante, in quanto essi non dispongono delle conoscenze scientifiche necessarie per poter giudicare obiettivamente la situazione clinica del proprio figlio. Seguire le indicazioni dei genitori condurrebbe quindi, a parere del Comitato, all’inaccettabile umiliazione dell’autonomia decisionale ed epistemologica del medico, il quale sarebbe obbligato a “soggiacere ad indicazioni forti sul piano umano ma – tranne casi eccezionali – non argomentate scientificamente”57. I genitori si trovano

inoltre in una condizione di particolare coinvolgimento emotivo e non sarebbero quindi in grado di operare una scelta razionalmente fondata.