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la ricerca del consenso informato nelle situazioni di emergenza

Il valore vincolante del consenso informato al trattamento si complica ulteriormente nei casi di emergenza sanitaria. Nei momenti concitati di una nascita fortemente pretermine sembra infatti estremamente complesso informare in maniera adeguata i genitori sugli esiti delle nascite alle soglie della vitalità e sulle probabilità di sopravvivenza del nascituro. Il valore del consenso informato trova quindi una prima importante limitazione nelle situazioni di emergenza, per le quali la Convenzione di Oviedo stabilisce che “allorquando in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso

180 Ivi, p. 312. 181 Ivi, p. 330.

appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata”182.

In condizioni di emergenza, la ricerca di un consenso adeguatamente informato porterebbe un ritardo nei soccorsi tale da non permettere un intervento tempestivo. Tuttavia, questo problema potrebbe trovare un’efficace risoluzione intervenendo sul paziente in condizione di emergenza, per poi cercare il consenso dei tutori legali in un momento successivo, oppure stabilendo che ogni futuro genitore venga informato in via preventiva e in modo accessibile sulla natura della potenziale disabilità e sugli esiti a lungo termine di una eventuale nascita pretermine, in modo

tale da avere il tempo per operare una scelta ponderata183.

182 Convenzione di Oviedo, art. 8.

183 Nuffield Council on Bioethic, Critical care decision in fetal and neonatal medicine: ethical issues, op cit. pp. 166-167.

Conclusioni

Il trattamento sanitario dei neonati gravemente prematuri pone alcuni rilevanti problemi decisionali che il presente lavoro ha cercato di delineare e analizzare dal punto di vista etico.

Nel primo capitolo viene definito il concetto di nascita prematura, evidenziando come, a partire dagli anni ‘70, sia stato possibile, grazie ai progressi della ricerca medica, favorire la sopravvivenza dei neonati prematuri a età gestazionali sempre più basse. Analizzando gli studi più recenti relativi ai tassi di sopravvivenza di questi neonati, si è giunti alla consapevolezza che esiste un limite temporale sotto il quale la sopravvivenza non è generalmente possibile, principalmente a causa dello sviluppo incompleto del polmone fetale. Tale limite si colloca attorno alle 23 settimane di gestazione. Abbiamo in seguito individuato una “zona grigia”, compresa tra le 23 e le 24 settimane, caratterizzata da un elevato livello di incertezza prognostica: la vitalità del neonato è incerta e l’eventuale possibilità di sopravvivenza è gravata da un forte tasso di morbilità. Si delinea quindi un primo problema relativo al trattamento sanitario da offrire a questi neonati: dobbiamo infatti decidere se è eticamente doveroso intervenire su ogni nato vivo, indipendentemente dall’età gestazionale, con interventi di rianimazione e sostegno vitale, o se

è più opportuno, per i neonati alle soglie della vitalità, valutare l’intervento caso per caso, sulla base di considerazioni relative all’età gestazionale e allo stato di salute del neonato alla nascita.

Nel secondo capitolo abbiamo parlato delle posizioni emerse nel dibattito italiano circa il trattamento da riservare a questi neonati, evidenziando come si siano delineati due atteggiamenti di senso contrario: l’uno rappresentato dalle “Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse”, documento meglio conosciuto come Carta di Firenze, favorevole all’adozione del trattamento individualizzato, modulato sulla base dell’età gestazionale del neonato e delle sue condizioni cliniche; l’altro rappresentato dal documento del Comitato Nazionale di Bioetica, che invece propone di intervenire attivamente a ogni età gestazionale. Abbiamo quindi rivolto lo sguardo alle linee guida elaborate e adottate in ambito internazionale, evidenziando come queste concordino in genere con la Carta di Firenze.

Poiché le posizioni che hanno animato il dibattito italiano appaiono inconciliabili, abbiamo cercato di offrirne una valutazione etica, analizzando nel terzo capitolo i principi morali che si trovano alla base dei due diversi atteggiamenti. Abbiamo così evidenziato che le soluzioni offerte dal documento del Comitato Nazionale di Bioetica si fondano su

una concezione filosofica di matrice religiosa, per la quale la vita umana è dotata di un valore intrinseco oggettivo, trascendente e intangibile, non disponibile alle scelte dettate dalla volontà dell’individuo. Il diritto alla vita, in qualsiasi sua fase e indipendentemente dal suo livello qualitativo, è concepito come un diritto assoluto; da esso deriva pertanto un dovere parimenti assoluto, prescrivente la necessità di salvaguardare la vita umana ogni volta che ciò sia possibile.

Al contrario, la Carta di Firenze fonda le proprie proposte su un’etica di matrice laica antidogmatica, che riconosce l’impossibilità di appellarsi ad un principio di autorità che possa costituire un fondamento della morale universalmente accettato. All’interno di questa visione etica, l’essere umano è libero di decidere autonomamente come disporre del proprio corpo e della propria vita, in base alle proprie credenze e alle proprie opinioni. Il valore della vita umana non rappresenta un valore assoluto, ma è stabilito dal soggetto che quella vita vive, in relazione alla qualità della propria vita. In questo contesto, la distinzione tra vita biologica e vita biografica può assumere un grande rilievo: ciò che caratterizza la persona umana non è il mero essere biologicamente in vita, bensì la possibilità di vivere una vita biografica, ovvero un’esistenza che permetta di esperire vissuti significativi per l’individuo stesso. Il dovere di salvaguardare la vita

umana risulta quindi un dovere prima facie, che è necessario rispettare in prima istanza, a meno che non ci si trovi di fronte a un dovere contrario e confliggente, ad esempio il dovere di rispettare la volontà di autodeterminazione dell’individuo.

L’appello al principio di autonomia non ci consente però di risolvere le questioni etiche che possono emergere nelle decisioni di trattamento relative a individui incapaci, impossibilitati a compiere scelte autonome e informate. Di fronte all’individuo incapace diventa allora necessario salvaguardare il miglior interesse del paziente, ovvero scegliere il corso di azioni in grado di massimizzare i benefici e ridurre i costi. Il principio del miglior interesse ha il vantaggio di introdurre nel processo decisionale fattori concreti di valutazione, come il grado di sofferenza fisica esperita

dal paziente e la prognosi medica, tuttavia non è privo di difficoltà: non

essendo possibile stabilire in maniera oggettiva quale sia il miglior interesse del paziente, tale principio non permette di risolvere eventuali conflitti di valore.

Per uscire da questa aporia decisionale potremmo essere tentati di aderire all’appello vitalista sostenuto dal Comitato Nazionale di Bioetica che, nelle situazioni caratterizzate da elevata incertezza prognostica, invita ad applicare interventi salvavita in via precauzionale, nell’attesa di una

prognosi certa. Questo appello offre una facile soluzione, sebbene, dal punto di vista delle etiche di matrice laica, non si tratti di una soluzione pienamente soddisfacente. Essa, infatti, non lascia spazio a una valutazione etica razionalmente fondata, in quanto induce ad aderire acriticamente alla posizione etica di stampo religioso, che nelle situazioni di dubbio prescrive il dovere di salvaguardare la vita umana.

Un migliore approccio alla soluzione dei conflitti etici emergenti nei contesti laici pluralistici è offerto da Engelhardt, il quale concepisce l’etica laica come una cornice formale, all’interno della quale individui portatori di valori etici diversi e confliggenti possono tentare di trovare un accordo. La possibilità di raggiungere un compromesso è garantita dal principio di autonomia, che Engelhardt definisce come principio del permesso,

prerequisito indispensabile per la risoluzione delle dispute tra agenti morali che non condividono una medesima morale sostanziale.

Sebbene questa seconda via d’uscita dall’aporia decisionale si concretizzi nell’appello a un principio puramente formale rappresentato dal principio del permesso, essa, al contrario della prima, non implica necessariamente l’adozione di un punto di vista etico specifico, rendendo

possibile pervenire a soluzioni derivanti dall’espressione dei valori etici di

In questo contesto, il miglior interesse del neonato alle soglie della vitalità potrebbe non coincidere con il tentativo di mantenerlo in vita ad ogni costo: quando la prognosi è incerta e gli esiti infausti altamente probabili, il miglior interesse del neonato potrebbe consistere nella sospensione o non attuazione di rianimazione e sostegno vitale, soprattutto se il prolungamento della sua vita è ottenuto tramite l’adozione di trattamenti sanitari fortemente invasivi. Poiché questi neonati hanno un’alta probabilità di sviluppare gravi disabilità, il punto di vista dei genitori dovrebbe essere preso in seria considerazione all’interno del processo decisionale: non è infatti da sottovalutare l’influenza dell’ambiente familiare sulla qualità della vita del soggetto disabile.

La valutazione del corso di azioni da seguire dovrà essere affrontata in sede decisionale: i genitori del bambino, assieme al personale medico, dovranno impegnarsi per giungere a un accordo condiviso. Il personale sanitario assume in questa fase un ruolo centrale nella promozione del miglior interesse del paziente incapace, avendo la responsabilità di offrire ai genitori informazioni chiare e complete all’interno di un dialogo costruttivo, nella consapevolezza che la propria superiorità epistemologica è in grado di esercitare una forte influenza sul processo decisionale.

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