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Il criterio del miglior interesse per le scelte relative al soggetto incapace

3.1 L’etica dell’indisponibilità della vita umana nel documento del Comitato Nazionale

3.2.2 Il criterio del miglior interesse per le scelte relative al soggetto incapace

Come abbiamo visto, le etiche di matrice laica non concepiscono la vita

umana come avente un valore assoluto di ordine religioso o metafisico; al contrario, essa è caratterizzata da un valore relativo, in relazione alla sua qualità. Il valore della vita risiede allora nel suo essere degna di essere vissuta. Poiché il valore della vita è subordinato alla sua qualità, le vite individuali possiedono un valore qualitativo diverso a seconda del contesto in cui si trovano: il valore della vita umana varia di volta in volta, in quanto la vita è un bene che non può prescindere dalle condizioni effettive in cui essa stessa si realizza.

Singer e Rachels, nel polemizzare contro la concezione dell’eguale valore di ogni vita tipica della morale tradizionale, evidenziano come anche le etiche della sacralità della vita umana, in realtà, operino distinzioni qualitative tra i diversi tipi di vita, grazie alla tradizionale separazione tra mezzi di cura ordinari e straordinari. Riconoscere, ad esempio, che è possibile lasciar morire di polmonite un anziano affetto dal morbo di

Alzheimer136, o che non è moralmente obbligatorio istituire una cura

insulinica in un paziente con un tumore allo stadio terminale che si ammali di diabete137, significa di fatto riconoscere che ciò che è eccessivo e

sproporzionato in un trattamento terapeutico non dipende da una caratteristica intrinseca della cura in oggetto, ma da considerazioni relative all’ipotesi di auspicabilità circa il prolungamento della vita del paziente, ipotesi che sottende una valutazione sulla qualità e sul valore della vita in relazione alle sue condizioni cliniche.

Un problema di difficile soluzione sorge però quando si prendono in considerazione situazioni che rendono le prospettive di vita del soggetto incapace significativamente meno felici di quelle di un individuo sano, ma non così infelici da rendere la vita un peso insopportabile.

Non essendo possibile stabilire quale sia il livello minimo accettabile per una vita qualitativamente degna di essere vissuta, può ritenersi opportuno che le decisioni relative al trattamento del soggetto incapace vengano prese in relazione al suo miglior interesse, ovvero scegliendo il corso di azioni che è in grado di massimizzare i benefici e ridurre i costi dal punto di vista del paziente. Il principio del best interest ha il vantaggio di introdurre nel processo decisionale fattori concreti come le sofferenze fisiche e la

136 P. SINGER, Ripensare la vita, Il Saggiatore, Milano 2000, pp. 193-194. 137J. RACHELS, cit. p. 106.

diagnosi medica138, individuando nella tutela della vita e della salute del

paziente l’unico fine della decisione, limitando in tal modo la libertà di scelta di coloro che sono chiamati a decidere in sua vece.

Il miglior interesse del paziente si realizza in un trattamento proporzionato, nel quale i rischi e gli eventuali danni e sofferenze arrecati devono essere commisurati ai benefici attesi, evitando trattamenti futili, che hanno il solo scopo di allontanare il momento della morte. Non è infatti nell’interesse del paziente insistere in terapie di supporto vitale, quando ciò impone un peso intollerabile per il paziente stesso, ovvero quando il trattamento non offre possibilità di sopravvivenza ed è quindi di futile utilità, oppure quando la qualità di vita prospettata è talmente povera o prevede sofferenze tali da ritenere che la vita futura risulti insopportabile

per il paziente139.

Se volessimo applicare il principio del miglior interesse alla situazione dei neonati fortemente pretermine, potremmo rilevare che il prolungamento della vita del neonato il quale, alle soglie della vitalità, presenta un’alta probabilità di incorrere in disabilità gravi e un basso tasso di sopravvivenza, potrebbe essere considerato come contrario al miglior

138 T.L. BEAUCHAMP, J.F. CHILDRESS, op. cit, p. 185. 139 Ibid.

interesse del paziente, in quanto è alto il rischio di intraprendere terapie gravose e futili, destinate ad allontanare la morte solo per poco tempo.

Seguendo le indicazioni fornite dalla Carta di Firenze, non sarebbe opportuno compiere l’atto rianimatorio su neonati al di sotto delle 23 settimane di gestazione: per questi neonati infatti, la rianimazione si

configura in genere come accanimento terapeutico140. Come abbiamo visto

in precedenza, gli studi internazionali ci mostrano che al di sotto delle 23 settimane di gestazione le probabilità di sopravvivenza sono talmente esigue da rendere plausibilmente futile la rianimazione del paziente. Nonostante ciò, la Carta di Firenze lascia aperta la possibilità di intervento nei casi del tutto eccezionali in cui siano presenti possibili capacità vitali, mettendosi al riparo dall’eventualità di negare, in alcune circostanze, un trattamento utile al paziente.

Analogamente, le linee-guida per l’astensione dall’accanimento

terapeutico nella pratica neonatologica141 evidenziano che, allo stato

140“Nell’ipotesi di non poter identificare gruppi di bambini che possono o no beneficiare di un trattamento aggressivo, i documenti del Consiglio Superiore di Sanità e del Comitato Nazionale di Bioetica invitano a “rianimare tutti, sempre” e poi a vedere... Un’affermazione di questo tipo è, per definizione, la base dell’accanimento terapeutico o comunque un’esortazione a cure inutili. In Toscana, nonostante le cure aggressive del 2003-04 sono morti tutti i bambini nati a 22 settimane” M.S. PIGNOTTI, “Il convegno di Firenze e il dibattito sui grandi prematuri”, in Bioetica rivista

interdisciplinare, XVII:1, cit. p. 31.

141“Linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica”, a cura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli”, Roma. Cattedra di Neonatologia, Istituto e Centro di Bioetica, in I quaderni di Scienza e Vita, III, giugno 2007, pp. 82-83.

attuale delle conoscenze e delle tecnologie disponibili, la sopravvivenza dei neonati al di sotto delle 23 settimane di gestazione è condizionata negativamente dall’assenza degli alveoli polmonari, ovvero delle aree deputate allo scambio dei gas. Per questo motivo è indicato astenersi dall’intubazione endotracheale e dalla ventilazione.

Per quanto riguarda i nati alle 23 e alle 24 settimane di gestazione, sebbene i dati sulla sopravvivenza siano più incoraggianti, è evidente come quest’ultima raggiunga comunque percentuali molto basse, mentre i dati sulla probabilità di incorrere in gravi disabilità risultino elevati. Se in questo caso il trattamento non appare sempre futile in relazione alla possibilità di sopravvivenza, è però da tenere in considerazione il fatto che esso possa essere considerato sproporzionato. Si tratta, infatti, di un intervento medico con un’alta probabilità di sfociare in esiti di grave disabilità, pertanto rientrante nella fattispecie dell’accanimento terapeutico, come evidenziato dall’articolo 16 del Codice di Deontologia medica:

“Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed

eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”142.

Le linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica, confermano le proposte di trattamento della Carta di Firenze per le 23 settimane, in quanto raccomandano la rianimazione in sala parto solo per i pazienti che risultano vitali, mentre alle 24 settimane di gestazione indicano di procedere all’intubazione endotracheale e all’assistenza ventilatoria in ragione del fatto che, in questa fascia di età, “il sistema respiratorio è nella fase finale del periodo canalicolare ed ha raggiunto una maturazione sufficiente per sostenere lo scambio dei gas”143.

Per i nati che sopravvivono alla rianimazione e che giungono in terapia intensiva, le stesse linee-guida ammettono che alle 23 settimane la sopravvivenza è comunque occasionale ed è indicata un’assistenza intensiva in funzione delle risposte che vengono prodotte dal neonato; per le 24 settimane si avverte che le complicanze possono essere gravi e frequenti e che quindi la prognosi può essere modificata in qualsiasi

142 Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Codice di

Deontologia Medica, 18 maggio 2014, art. 16, p. 5.

143“Linee-guida per l’astensione dell’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica”, cit., p. 83.

momento, inducendo a considerare attentamente il rischio di incorrere nell’accanimento terapeutico144.