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Casa mondo di Renato Seregni

I grandi sogni irragionevoli tramontano alla fonte asciutta della visionarietà del mondo. Il Grande Ordine avanza. Segnaletiche e lampeggianti nel labirinto di Arianna. Un filo di sequenze e coe-renze imposte ci avvolgono. La Storia: una catena di avvenimenti infedeli. L’evento inatteso, schiaffo di pura vitalità, giace nell’urna assicurativa di una polizza bonus-malus

E cammina, cammina. Ma non come nelle fiabe. Anni settanta, molte volte capo delegazione nella Cina di Mao. Scambi culturali, dibatti-ti polidibatti-tici. Viaggi rabberciadibatti-ti, accoglienze al meglio del possibile. Poi, la Cuba a brandelli. I paesi “socialisti” del Mediterraneo. Il Medio Oriente. La Russia in guerra con l’Afghanistan. Dushanbe, città a sud dell’Uzbekistan, più giorni bloccato in aeroporto tra i cannoneggia-menti, nutrito di uva passa. Non erano fiabe, bensì maiuscole esperien-ze che mi hanno segnato. Però avvertivo sempre più il bisogno di un fine corsa e tornare a casa per fare il punto.

Tutti lo chiamavano Mavalà per la facilità con la quale scodellava storie e situazioni impensabili, ma non impossibili. Come in ogni osteria domina l’oracolo da schedina, e qualunque pettegolezzo si incanaglisce tra i denti di una beghina, così all’ombra d’ogni cam-panile si custodiva la ragion pura incarnata dallo stupido di paese.

Questo pareva fosse Mavalà: conciliatore di metafore lente e rapide, affilate e suadenti, felicità piegata alla tristezza e indisciplina frenata dalla risata.

Malato dentro di poesia, mischiava l’essenza con l’esistenza, l’eter-nità con l’epitaffio segnatempo da portare al polso e l’universalità dentro un urlo beffardo. Sul giudizio da esprimere il paese scom-metteva spaccato, come in uno stadio al derby cittadino.

Va da sé, che il nostro vivesse una doppia esistenza. Una

esaltan-te, fatta di affinità elettive e pazza fantasia, copulando gioia con altri fermamente credendo all’assoluto bene e alla sua dismisura:

vulcanico flauto suonato da un officiante francescano integralista d’osteria. Altro era lo spigoloso rapporto con chi, specchiando in lui i propri limiti, grottescamente lo scherniva. Al malevole ingan-no, caldo come un abbraccio, alla loro goffaggine e malagrazia, se non al loro livore, il nostro rispondeva aderendo al silenzio, oppure con chiassosa allegria. Stupido o saggio, Mavalà, percorreva la valle degli uomini quale molecola che si scioglie e si aggrega secondo le inesorabili leggi del vivere e del morire.

E fui Mavalà, saggio e stupido tra golose parole dal sapore del passato, ogni riga un tuffo saporoso di immagini.

Una volontà radicale di trasformare il mondo letta nel fondo di un bicchiere. E si viaggiava all’osteria del Cavallo d’Oro, tra bonarda e manduria e altre sfuse citazioni in cui il vitigno radica ed esplode vermiglio. Si iniziava con lucido realismo gravato da canti tristi di guerra, di amori finiti, eppoi ci si inoltrava nella sgangherata spensieratezza approdando a puerili farsetti infantili. Alcuni pian-gevano, molti ridevano. Un ultimo canto velato si dissolveva nella notte e ogni finitezza naufragava nell’indefinito.

Mavalà era un Rimbaud mite e angelico. Centravanti alla ricerca del goal di grazia, Ulisse tra lieti calici pensando a una improba-bile Penelope che l’attendeva. Delfino, per scandagliare il vetroso anfratto rubino e calarsi nell’abisso di mago di un Mavalà estraneo a se stesso. E altro ancora per ingannare la crosta del mondo. Un altro ancora, ancora, per immergersi nell’oceano del perdimento.

Salutavo gli amici di un tempo, loro stupiti non mi riconoscevano.

Buon giorno rispondevano guardandomi e procedendo. Ero un nessuno tornato dopo una lunga assenza, bisognoso di loro per far riemergere il condiviso passato giovane svanito come il fumo dei camini.

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Le cose accadono, il mondo si muove, la vita segue il suo corso.

Olimpiadi a Borgomisto, nel loro piccolo: grandi. Chi la spara più grossa, chi la rende più vera, chi la beve. Sul podio prove d’audacia al limite del concepibile. Qui si gareggia onestamente, si perde di-gnitosamente. Se sommi la vittoria di una tappa pirenaica con un orgasmo da ergastolano graziato e aggiungi in sovrappiù lo sgravio per la partenza della suocera, hai una lontana sensazione di quanto sia appagante raggiungere un traguardo. Finalmente! Guardi in alto come ringraziamento, in basso come atto di stima, attorno esigen-do l’applauso. Attimo sublime in cui la marcia trionfale della Aida è uno sputino da bambino, e la dismisura dell’arcobaleno non lo può contenere. Neppure queste modeste miserevoli parole, seppure centellinate da un libro alto, su uno scaffale a soffitto, mondando si-nonimi musicali, possono. Forse i colori, la musica. Forse la poesia.

Viandante, se passi da Borgomisto fermati alle olimpiadi del Caval-lo d’Oro. Troverai atleti carichi di medaglie, esperienze vissute oltre il gradino, che alla voce “rilascio” scioglieranno i muscoli tutti, e da un coro muto, sgorgherà alto l’inno alla gioia.

Vissi il conflitto tra il mio sazio io e il bisogno di loro tutti. Avevo scrit-to pagine pesanti documentando luoghi e tradizioni misteriose citan-dole al Cavallo d’Oro. Ora io, non più solo, danzavo stupori condivisi.

Estremo è il gioco della memoria: il tempo incalza e l’attimo fugge, quanto dura una vita, dal dilatato affanno quotidiano sino al de-terminato istante in cui essa finisce. Terapia contro l’indifferenza.

Lampeggiante per pensare, organizzare, fare. Un podistico andare.

Informazione, comunicazione. Io, ai bordi della storia, compagno il caso. Io, tenuto ad utilizzare tutti gli aspetti della mia vita per for-mare un quadro d’insieme convincente. Io, incapace di afferfor-mare alcunché, solo posso mostrare, raffigurare limiti.

Il mio cortile, la mia gente. Il Cavallo d’Oro tempio della dismisura,

dell’impossibile possibile. Almeno ci si provava, appagante anche il ri-sultato negativo, comunque si era felici.

Un progetto di per sé irrealizzabile se non fosse intervenuta in suo aiuto una certa confusione di idee che minacciava di rendere con-crete le sue aspirazioni. Allergico al pelo solo guardando un gatto di marmo, Mavalà, da responsabile permanente al levar del sole, operava nel tempogiorno un progressivo distacco dalle segnaletiche esistenziali codificate, calandosi nell’imbuto d’invenzioni, goden-done sino all’esasperato e peggior uso. Lui, coniglio bianco: anima bella al buco della serratura; lui isola del tesoro di un concorso lot-teria, Geppetto con sega e colla che modella asini occhiuti per quiz televisivi. Lui, Peter Pan alla stramilano che s’ingozza ai punti risto-ro. Io c’ero, tangibile traguardo. Lui, libero di esprimere il bestiario che più gradiva, Mavalà si faceva cuculo, farfalla, camaleonte o pavone, per essere Kafka, Aristotele, Calvino oppure Giutel, ovve-ro un Giotto amico d’osteria, per via del suo essere imbianchino e tracciatore di righe sul campo del Borgocalcio.

Dio non appare circonfuso di assurdo, ma s’identifica con l’assurdo stesso. Quale uno che abbia studiato a Venegono, Mavalà stop-pava, driblava e insaccava concetti e citazioni sia dalla Bibbia che da Linus, con stravaganti gaddiani passaggi dolomitici. Autodifesa dell’incompetenza. Si giustificava citando la mamma, quindi, in nevrotico straniamento, eccitava l’esigenza di perseguire “con im-pegno” la verità nel polverone delle notizie indistinte.

Io, piccolo uomo, in mancanza di un sicomoro, sono salito sul plebeo gelso per abbracciare il mio mondo e pormi domande.

Chiedo troppo se la mia ansia è gioia che attende un’ansia di gioia che risponda? Chiedo troppo all’avvenire di non replicare il passato e viaggiare paesi, pagine e umori tra scatti e balzi e, come un anfibio fra esistenza e assenza, sentirmi a casa?

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Io, matto che non indugia nel ricordo e non basto a me stesso, io, proiezione mentale di un’opera realistica alla ricerca di un tesoro nascosto, sì, ancora chiedo.

La prudenza dei mercanti, dei preti, dei politici, l’ordinata crudeltà dei giusti. Chiedo troppo io, un “non sono più” e un “non sono ancora”, di vivere le contraddizioni come atto di fede?

Ora il tempo degli orologi, la mannaia dell’anagrafe e il crudele spec-chio vorrebbero altro da me. Ma non ci riusciranno. Io sono quello che sono. Sono quello che ho scritto, quello che percorre fantasie come un bambino di ogni età.

Se il nome Mavalà vi sembrerà banale, chiamatelo pioggia, luna. Se Borgomisto vi sembrerà generico, chiamatelo caso, mondo. Questo paese ama il canto e il prodigio. Questo paese ha vissuto il tutto, coniugando sia la vita che la sua rappresentazione, i modi e le sue forme, cogliendone alle volte un senso. E attende con generoso entusiasmo l’apparire di nuovi giorni.

R. S. 27 aprile 2018

Giuseppe O. Pozzi