3. Popular music e settore discografico
3.2. Il settore discografico e i suoi attori principali
3.2.2. Le case discografiche
Le case discografiche realizzano la fondamentale attività di registrazione dei brani su supporto e, in questo modo, diventano titolari di diritti così come gli autori dei testi, i compositori delle musiche, gli interpreti e infine gli editori, che si occupano di formalizzare l’esistenza dell’opera e di sfruttarla al meglio43. Dal momento che i contratti che tali operatori stipulano con gli artisti assicurano loro l’esclusiva sui diritti di utilizzazione delle canzoni, la qualità del parco artisti è un fattore decisivo per l’ottenimento di un certo livello di redditività (Silva e Ramello 1998). D’altra parte, le royalties corrisposte agli artisti sono tra i costi più ingenti che un’etichetta debba sostenere, perciò, accanto agli artisti affermati, esse scritturano in genere anche delle nuove promesse, che ovviamente hanno meno potere contrattuale e che permettono così di ammortizzare i costi dei big (Stante 2007). La costituzione di cataloghi misti, contenenti star ed emergenti, è inoltre una strada particolarmente praticata perché consentirebbe di ripagare con il successo dei primi anche il rischio assunto promuovendo molti altri dischi pubblicati con scarso esito44 (Frith 2001; Sibilla 2006).
Tale mercato, nello specifico, è dominato dall’influenza di poche grandi case discografiche internazionali (dette major) che, grazie ai propri mezzi promozionali e finanziari – fondamentali in un mercato di massa come questo – lasciano pochissimo spazio alle numerose etichette indipendenti (dette indie), che si dividono il resto del mercato in piccolissime quote. Il settore è dunque basato su una concorrenza di tipo oligopolistico, che in particolare sarebbe spinta da elementi non-price. Infatti, visto che sono soprattutto i gusti e le componenti psicologiche individuali a determinare
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Come s’intuisce, i diritti legati a un’opera vanno ripartiti tra varie figure che, pur svolgendo ruoli diversi, sono tutte interessate alla circolazione del pezzo.
44 La logica che guida tale approccio è quella della diversificazione di portafoglio e del conseguente
sussidio incrociato tra prodotti, in base a cui quelli di successo pagano per quelli che falliscono (Silva e Ramello 1998, p. 51).
l’acquisto di un brano o di un album a discapito di un altro, la sostituibilità del prodotto sarebbe scarsa e la discriminazione di prezzo non avrebbe effetto (Scialò 2003, p. 125). Al contrario, il gioco concorrenziale si compirebbe più che altro sulla qualità attribuita ai singoli prodotti, che dipenderebbe in gran parte dagli investimenti in promozione e marketing che le imprese riescono a effettuare (Silva e Ramello 1998, p. 49).
Diventa quindi fondamentale notare la centralità del rapporto di conflitto/collaborazione esistente tra i due principali attori che operano in tale ambiente (Shuker 2001): le major, che godono dei mezzi per realizzare grandi campagne promozionali, e le indie, che apparentemente sembrano spacciate, ma che, in realtà, come descritto nelle prossime righe, ricoprono un ruolo assai rilevante. 3.2.2.1. Major e indie
L’industria discografica è sostanzialmente un oligopolio, composto da quattro grandi major che controllano circa il 75% del mercato mondiale della musica: la
Warner (che ha in catalogo artisti come Madonna o i Muse all’estero e Ligabue in
Italia), la Universal (nel cui catalogo figurano nomi come U2 o Elton John e molti della musica italiana anni Sessanta), la EMI/Capitol (che può contare su miti del passato come Beatles o Pink Floyd e, in Italia, su Vasco Rossi) e la Sony/BMG (che vanta nomi come Bob Dylan o Bruce Springsteen negli Stati Uniti e Eros Ramazzotti in Italia). Si tratta di multinazionali che fanno o hanno fatto parte di più vaste aziende dell’intrattenimento (Hesmondhalgh 2007; Silva e Ramello 1998), accanto alle quali agiscono imprese indipendenti (indie) di varia dimensione, ma in ogni caso molto più piccole delle major (Stante 2007).
Le grandi major operano in modo globale e sono fortemente centralizzate nei paesi anglosassoni (per lo più gli Stati Uniti), in base ai cui canoni svolgono la loro attività di mediazione culturale: controllano il mercato, decidono quali tendenze e generi spingere e quali frenare. Esse, inoltre, hanno finora controllato anche un altro fattore fondamentale per il successo nel mercato: la tecnologia. Il compact disk, ad esempio, fu inventato dalla Philips (che faceva parte del gruppo Polygram, poi fusasi con la Universal) e dalla Sony. A oggi, in effetti, gran parte della perdita del loro potere deriva anche dal minor controllo della tecnologia stessa: per la prima volta, infatti, chi ascolta musica scaricandola da Internet può usare un hardware e un
Solitamente le major presentano una struttura piuttosto complessa, suddivisa in quattro diversi livelli di lavoro sul prodotto musicale, accanto alle quali si aggiungono le tradizionali strutture amministrative/gestionali (finanziarie, legali, etc.) di una normale grande azienda (Negus 1992). I quattro pilastri, in particolare, sono (Sibilla 2006, p. 39 ss.):
Il reparto artistico (più noto come A&R, che sta per Artist&Repertoire), il quale è responsabile dello sviluppo del prodotto; Le edizioni (o publishing), che curano i diritti d’autore connessi alle opere musicali e quelli relativi all’incisione, alla riproduzione e alla vendita di un disco (i cosiddetti diritti fonomeccanici); Il marketing e la promozione, che curano soprattutto l’immagine dei dischi e degli artisti, sempre più trattati come autentici brand; La distribuzione (sia fisica sia digitale), che, garantendo un’adeguata esposizione, cerca di facilitare l’incontro con la domanda.Le moltissime etichette indipendenti, al contrario, si dividono il restante 25% del mercato mondiale ed hanno una struttura molto più elastica. Esse si occupano principalmente di generi specifici e cercano di soddisfare una domanda di nicchia (Sibilla 2006), ma il loro ruolo nel mercato è fondamentale soprattutto perché, spesso, grazie alla loro minore dimensione e alla maggiore flessibilità, riescono meglio delle major a individuare le tendenze che potenzialmente potrebbero esplodere in futuro. Tant’è vero che molti dei generi di maggior successo, come ad esempio il grunge negli anni Novanta (Barker e Taylor 2009), hanno avuto proprio questo destino. Nel caso del grunge, fu la Sub Pop la piccola casa discografica che per prima si accorse del movimento che stava nascendo a Seattle e che, di lì a poco, avrebbe avuto un successo strepitoso in tutto il mondo (Sibilla 2006, p. 52). Tale pratica costituisce dunque il primo motivo per cui major ed indie arrivano ad avere un rapporto di collaborazione. Come dimostra la storia, infatti, la tendenza secondo cui le grandi società, più standardizzate ma con una maggior possibilità di ottenere visibilità sui media, hanno assorbito quelle piccole, quando queste – grazie alla loro maggiore creatività – hanno iniziato ad avere un successo significativo, si sarebbe ripetuta più volte ed avrebbe permesso il raggiungimento di risultati commerciali considerevoli (Peterson e Berger 1990).
La seconda ragione che porta major e indie a collaborare molto spesso riguarda, invece, la delega di alcune funzioni (in particolare la distribuzione) da parte delle
indie alla major, dietro cessione di una percentuale dei ricavi del prodotto. Il
vantaggio è così duplice: l’etichetta indipendente e l’artista controllano direttamente i propri guadagni, senza dover investire in una struttura di lavoro complessa, mentre la
major, che ha già questa struttura, si ritrova – grazie alla licenza di distribuzione e
senza alcun costo di produzione – dei guadagni aggiuntivi proporzionali alle vendite (Sibilla 2006). Si può quindi concludere che l’esistenza del segmento indipendente del mercato non sia assolutamente in conflitto o in concorrenza con quello major. Al contrario, come evidenziato più volte dalla letteratura specialistica (Hesmondhalgh 2007; Sibilla 2006; Stante 2007), sarebbe indispensabile alla sua esistenza, al suo funzionamento e al suo equilibrio.