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Il ruolo degli individui e delle comunità nella costruzione dell’autenticità della

2. La ricerca di autenticità nel consumo di popular music Rassegna della letteratura

2.3. La ricerca di autenticità da parte dei consumatori di popular music

2.3.4. Il ruolo degli individui e delle comunità nella costruzione dell’autenticità della

La famosa studiosa di musica Tia De Nora (2000) concepisce il significato della musica come un qualcosa che si costruisce in relazione a come essa venga recepita da parte delle persone e, più in generale, sostiene l’impossibilità di parlare di musica al di fuori del suo contesto d’uso. Ad esempio, la musica usata all’interno della pubblicità31 (Scott 1994), nel cinema (Holbrook 2005) o nei reality show (Holmes 2004) assumerebbe un significato totalmente trasformato rispetto a quello originale. Ciò non significa che la musica non abbia alcun valore intrinseco, ma che esso risulti più o meno evidente e rilevante in funzione del particolare contesto in cui sia utilizzata e, nello specifico, rispetto all’uso che ne venga fatto dal ricevente (Middleton 1994). A supporto di questa tesi, De Nora (2000, p. 33) propone diversi esempi interessanti. Secondo l’autrice, l’inno americano suonato da Jimi Hendrix al Festival di Woodstock nel 1969, durante la guerra in Vietnam, con la chitarra elettrica che simulava il suono delle bombe, avrebbe assunto un significato unico e assolutamente diverso rispetto a quello tradizionale che quella musica aveva32. Analogamente, come spiega Middelton (1994, p. 16), le musiche su cui i tifosi allo stadio ricostruiscono un testo, adattato al contesto, vengono totalmente trasformate, e così i loro significati intrinseci.

31 Interessante è il caso di Vasco Rossi (Sibilla 2006, p. 47), che nel corso degli anni ha concesso

diversi brani alla pubblicità (Vita Spericolata alla Chicco, Come stai alla Vodafone, Senza Parole e

Rewind alla Fiat) e, vista la programmazione in maniera ossessiva in TV, ha finito per innervosire non

poco i suoi fan. Essi, infatti, stentavano a riconoscere in quella veste le canzoni del loro artista preferito, che nel 2006 si è dichiarato pentito della scelta e ha promesso che non avrebbe mai più concesso brani alla pubblicità, negandosi alla Fiat che gli chiedeva Ti prendo e ti porto via per il lancio della nuova Bravo.

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Vale la pena aggiungere che dopo quella performance (critica, deviante e per alcuni dissacrante), il significato stesso dell’inno americano è cambiato. Jimi Hendrix ha così insegnato che si sarebbe potuto suonare l’inno americano anche nel momento più acuto della contestazione giovanile, semplicemente adattandolo ai codici di quella cultura, arrivando a criticarlo, ma sempre con rispetto e considerazione.

Una prospettiva simile è quella di Hargreaves e North (1999), i quali cercano di individuare le motivazioni che sottendono al consumo di musica e distinguono tra quelle di tipo “intra-personale” e quelle di tipo “inter-personale.” Le prime riguarderebbero l’utilizzo della musica al fine di costruire la propria identità, mentre le seconde avrebbero a che fare con la comunicazione della propria identità all’esterno e quindi con l’instaurazione di relazioni sociali. La cosa interessante da notare è che, in entrambi i casi, il consumo di musica può essere visto come un mezzo che permette di vivere delle esperienze autentiche (Frith 1996a; Goulding, Shankar ed Elliott 2002; Hesmondhalgh 2008; Holbrook 1986; Lacher 1989; Shankar 2000): da un lato perché, grazie al consumo di musica, gli individui riuscirebbero ad avere un contatto diretto e immediato con il proprio sé (Grazian 2003; Lacher e Mizerski 1994; Willis 1990), dall’altro perché quest’attività permetterebbe loro di comunicare qualcosa di sé all’esterno e, in questo modo, di appartenere a dei gruppi in cui stabilire delle relazioni genuine con delle persone e distinguersi da altre (Bourdieu 1984; Frith 1996b; Hogg e Banister 2000).

Per quanto riguarda il primo aspetto, Holbrook (1986) e Shankar (2000), tramite due interessanti studi di tipo introspettivo volti a investigare le proprie preferenze musicali, mettono in luce la stretta relazione esistente tra il consumo di musica e il proprio senso di sé. Lo studio di Holbrook (1986), in particolare, focalizza l’attenzione su come l’autore, nella sua gioventù, abbia usato la musica per conoscere in modo più approfondito la propria identità. Shankar (2000) discute il ruolo della musica nel ricordare le proprie esperienze passate. Un altro lavoro importante è quello realizzato da Grazian (2003), il quale evidenzia come anche una musica non oggettivamente autentica possa permettere di vivere momenti di autenticità. Ad esempio, nel caso dei turisti che vanno ad ascoltare un blues molto idealizzato, e diverso da quello reale, nei club di Chicago, l’esigenza di autenticità potrebbe comunque essere soddisfatta poiché una tale esperienza consentirebbe di vivere qualcosa di diverso dalla norma, che li farebbe sentire liberi dagli obblighi e dagli impegni quotidiani e, pertanto, veramente se stessi. Altri autori, come ad esempio O’Guinn (1991), osservano come l’interesse per un particolare genere di musica o per un artista possa arrivare a trasformarsi in un senso di adorazione e devozione, e come soprattutto i musicisti preferiti possano essere considerati dei veri e propri oggetti di culto. Anche in questo caso, a prescindere dalla reale genuinità degli artisti, gli individui potrebbero comunque soddisfare il proprio bisogno di

autenticità perché, ad esempio tramite il collezionismo di oggetti (CD, fotografie, biglietti dei concerti, poster, etc.) legati a loro, potrebbero evocare ricordi, realizzare di aver vissuto delle esperienze importanti (Grayson e Shulman 2000a) e dunque vivere dei momenti autentici, in quanto utili a prendere una maggior coscienza del proprio sé (Belk 1988).

Mentre questi studi si riferiscono principalmente al rapporto tra il consumo di musica e la propria identità, il secondo filone esplora anche i processi coinvolti nella presentazione di sé all’esterno (Hogg e Banister 2000). Secondo alcuni autori, infatti, il consumo di musica può avere una forte valenza simbolica ed essere molto importante nel mostrare la propria personalità e nell’intrecciare relazioni con altre persone (Frith 1996a; Hargreaves e North 1999; Larsen, Lawson e Todd 2001; Lewis 1992). Negli studi sui fan club (Henry e Caldwell 2007b; O’Guinn 1991; O’Reilly 2007; Schau e Muniz 2007), ad esempio, è stato spesso evidenziato come la passione comune per un artista, soprattutto attraverso i rituali grazie a cui essa viene manifestata (lo scambio di materiale relativo alla star, la presenza ai concerti e la partecipazione a raduni e ad altri eventi organizzati), favorisca un contatto con altre persone appassionate (Frith 1996b). La musica, in questo caso, rappresenterebbe un mezzo per vivere tali tipi di relazioni e, talvolta, l’aspetto della socializzazione diventerebbe addirittura più importante della musica in sé.

Sempre per quanto riguarda questo secondo aspetto, è importante evidenziare come, accanto ai fan club, si possano identificare comunità di appassionati legate sempre ad un artista o ad un genere musicale, ma con la peculiarità d’essere nate come elemento di reazione alla società. Esse, in pratica, vengono considerate come dei mezzi attraverso cui, specialmente i giovani, si raffigurerebbero un proprio gruppo sociale, affermando la loro distinzione e dichiarando chiaramente di non far parte di una massa indifferenziata e anonima (Shuker 2001; Thornton 1998). Tali gruppi, spesso etichettati con il termine di “subculture,” si distinguerebbero dalle altre aggregazioni per un maggior coinvolgimento con cui intenderebbero la partecipazione, che implicherebbe anche l’osservanza di uno stile di vita deviante e ribelle rispetto alla cultura predominante (Fox 1987; Halnon 2005; Kruse 1993; Moore 2004, 2005; Widdicombe e Wooffitt 1990). In particolare, come descritto da Haenfler (2004), gli studi sulle subculture, che hanno analizzato la ricerca dell’autenticità per mezzo della partecipazione a gruppi con cui si condivide la passione per un determinato tipo di musica, ma anche e soprattutto lo stile e la

concezione della vita, hanno preso in esame, ad esempio, l’evoluzione delle subculture heavy metal (Straw 1990; Walser 1993), hippie (Bennett 2001; Widdicombe e Wooffitt 1990), punk (Fox 1987; Moore 2004; Widdicombe e Wooffitt 1990) e straight edge (Haenfler 2004; Williams 2006), e sembrano condividere l’idea centrale che, in questo tipo di aggregazioni, i partecipanti darebbero vita ad una propria cultura, autentica poiché in qualche modo esterna ai

media ed al mercato (Halnon 2005).

Tuttavia, come nota ad esempio Thornton (1998), sotto l’influsso dei media e attraverso l’azione delle case discografiche, i nuovi stili di musica e le loro espressioni di ribellione tenderebbero a essere disponibili al mercato di massa e, spesso, a essere commercializzati, diventando essi stessi parte del mercato e producendo così un senso di alienazione nei membri (Frank 1997; Heath e Potter 2005; Moore 2005). Secondo Thornton (1998), inoltre, sarebbe vero anche il processo contrario, ovvero le subculture – pur dichiarandosi alternative al mercato – prenderebbero proprio dai mass media molti degli argomenti e delle risorse culturali attorno alle quali costruire la propria ideologia e il proprio ruolo nella società. Peraltro questa di Thornton è solo una delle numerose critiche che sono state fatte al concetto di subcultura, molto in voga tra gli anni Settanta e Novanta per descrivere la relazione tra la musica, la cultura e l’identità degli individui, soprattutto grazie all’importante lavoro svolto dal famoso Centro di Studi Culturali di Birmingham (Bennett 2001; Cohen 1993; Hall e Jefferson 1976; Hebdige 1979). Più di recente, invece, i ricercatori ne starebbero evidenziando le debolezze e si starebbero orientando verso concetti alternativi, come quello di “neo-tribù” (Bennett 1999) o – più spesso – di “scena” (Bennett e Peterson 2004), nei quali vengono messi in risalto soprattutto la labilità dei confini tra cultura e subcultura e la maggiore fluidità esistente all’interno di questi gruppi (Jenkins 1992), i quali difficilmente rispecchierebbero delle solide gerarchie come quelle descritte dalla Scuola tradizionale di Birmingham.

Lo scopo di questi nuovi lavori, dunque, sarebbe quello di rappresentare anche altri modi attraverso i quali i giovani partecipano a comunità, si relazionano con la musica, prendono coscienza di sé e comunicano all’esterno ciò che sentono dentro (Williams 2006). Secondo tali prospettive (Henry e Caldwell 2007a; Larsen 2000; Yazicioglu e Firat 2007), nello specifico, le persone potrebbero partecipare a rituali (come ad esempio concerti o festival) e, pur non facendo parte di subculture né

osservando i medesimi stili di vita delle altre persone, condividere con esse – ancorché in modo fugace – una stessa passione (Frith 1996b). Nel loro studio etnografico dei rave, Goulding, Shankar ed Elliott (2002) osservano proprio come l’esperienza convissuta dai partecipanti a queste manifestazioni offra una possibilità di fuga temporanea e un sentimento di comunione, d’affetto e di libertà, che svaniscono subito dopo che la festa sia finita.

Derbaix e Decrop (2007), in proposito, ritengono che, nel caso dello spettacolo dal vivo, coesisterebbero diversi tipi di autenticità. Da un lato, infatti, uno show può essere considerato autentico quando l’esecuzione è simile al modo in cui gli spettatori l’hanno fissata nella loro mente nel corso degli anni. Da un altro lato, l’autenticità può derivare dalla qualità della relazione che c’è tra l’identità dell’artista e la sua performance sul palcoscenico. Più tale relazione è percepita come coerente, più lo spettacolo è ritenuto autentico. Infine, l’autenticità può scaturire anche dal rapporto che s’instaura tra l’artista e il pubblico. L’esistenza di forti relazioni sociali ed empatiche tra artista e spettatori, e tra le persone del pubblico, può – in effetti – aggiungere autenticità all’esibizione.

In conclusione, anche nel caso della popular music, il concetto di autenticità risulta di non facile definizione e si presta ad essere osservato secondo diverse prospettive. Per completezza, quindi, nell’ultimo paragrafo viene fatto un breve cenno anche al ruolo svolto dalle imprese del settore rispetto a tale tendenza.