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La vicenda Parmalat può essere sintetizzata come il frutto di decenni di malgoverno societario, di collusione tra le cariche apicali dell’azienda ed i poteri bancari e politici del tempo nonché di colpevole inerzia dell’autorità di vigilanza (292).

Il modus operandi che ha contraddistinto gli organi direttivi del gruppo di Collecchio è da rinvenire, sostanzialmente, in una reiterata condotta di falsità nelle comunicazioni sociali. Attraverso la mendace certificazione di bilancio, infatti, l’azienda ha ottenuto ingenti prestiti, successivamente non onorati, tanto da parte dello Stato (grazie anche all’appoggio di alcuni esponenti politici) quanto da parte di diversi istituti di credito (293).

L’indebitamento a seguito di false comunicazioni sociali ha quindi condotto l’azienda all’inevitabile crack: verso la fine del 2003, il totale dei debiti che questa non poteva più onorare ammontava a circa 14 miliardi di euro.

Dopo l’accertamento del default, le stesse banche si sono dichiarate vittime della politica economica fraudolenta dell’impresa che, nel corso degli anni, era riuscita attraverso le falsità sociali a celare l’enorme esposizione debitoria accumulata.

Una volta illustrate la causa dello stato di decozione ed il modus operandi dell’azienda, si devono ora mettere in luce le peculiarità che differenziano il caso

(292) Tra la copiosa giurisprudenza che si è occupata ex professo della vicenda, vedi ex multis,

Tribunale di Roma, sentenza 3 novembre 2009, in www.ilcaso.it; Tribunale di Genova, sentenza 15

marzo 2005, in Danno e resp., 2005, pag. 609; Tribunale di Palermo, sentenza 17 gennaio 2005, inedita; Tribunale di Taranto, sentenza 27 ottobre 2004, in Giur. Mer., 2005, pag.839; Tribunale di Venezia, sentenza 22 novembre 2004, in I contratti, 2005, pag. 5; Tribunale di Firenze, sentenza 30 maggio 2004, in Giur. Mer., 2005, pag. 839.

(293) Considerando che l’origine del malgoverno societario risale agli inizi degli anni ’90, ossia nel

periodo di vertiginoso sviluppo delle imprese sotto analisi, si può affermare che la Consob attivò i suoi poteri ispettivi con un ritardo imperdonabile, arrivando soltanto nel 2003 a visionare le movimentazioni contabili della società.

Parmalat dagli altri che saranno oggetto di apposita analisi nei paragrafi che seguono. Appare utile, a tal proposito, richiamare i tre passaggi fondamentali di cui si compone la complessa vicenda finanziaria sopra cennata e che ha caratterizzato tutti i dissesti finanziari ricompresi nella nostra indagine.

In relazione alla prima fase, vale a dire l’offerta al pubblico, il gruppo di Collecchio ha optato per la strada più sicura offerta dalla sollecitazione all’investimento presso investitori istituzionali. In realtà, una simile scelta risultava dettata dallo scarso o quasi nullo rendimento dei titoli in questione nonché dal riparo offerto dall’art. 100, comma 1, lett. a) che, in simili ipotesi, esenta dall’obbligo di fornire il prospetto informativo, previsto dagli artt. 94 e 94 bis TUF e subordinato alla successiva approvazione da parte della Consob (294).

La ratio dell’art. 100, comma 1, lett. a), è di intuitiva comprensione e riposa su di un condivisibile principio di efficienza. Questo perché tra soggetti di pari conoscenze tecniche, la redazione del prospetto assumerebbe un carattere pleonastico e diseconomico.

Nondimeno, è stata proprio l’assenza di questo filtro di controllo preventivo a permettere all’azienda Parmalat di celare, agli istituti di credito che la sovvenzionavano, lo stato di dissesto finanziario in cui verteva.

Come abbiamo sopra ricordato, il danno è stato poi scaricato, verso il basso, sui singoli risparmiatori che acquistavano obbligazioni Parmalat, ignari dell’imminente crack del gruppo di Collecchio.

Questo meccanismo perverso rende la vicenda Parmalat un unicum nel panorama della storia della crisi industriale in Italia (295). Per la prima volta, infatti, il default di un’azienda non era pagato dagli istituti di credito ovvero dallo Stato bensì, seguendo un

(294) In particolare, l’art. 94, comma 2, TUF specifica il contenuto del prospetto informativo, deferendo i criteri previsti, e già analizzati, dall’art. 21 TUF nel diverso campo dell’offerta al pubblico. In particolare, si prescrive che “il prospetto contiene, in una forma facilmente analizzabile e comprensibile, tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell'emittente e dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell'emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti. Il prospetto contiene altresì una nota di sintesi recante i rischi e le caratteristiche essenziali dell’offerta”.

(295) Analoghe considerazioni verranno svolte a proposito della vicenda successivamente

procedimento a cascata, dalla categoria “finale” dei privati risparmiatori (296). Forse è proprio in questo elemento di novità che si può rinvenire il motivo determinante della sfrontatezza del comportamento assunto dagli organi direttivi di tale impresa.

Passando alla seconda fase, quella relativa alle controversie instaurate dai clienti contro i singoli intermediari, si deve notare come la giurisprudenza di merito che si è occupata dalle vicenda (297) abbia definito gli istituti di credito come una sorta di “osservatori privilegiati” che non potevano non prevedere l’imminente dissesto finanziario dell’azienda de qua (298).

In particolare, nelle offering circular delle banche il rating attribuito al titolo Parmalat era il “BBB”, indicante un titolo adatto anche ad investitori non esperti. Da ciò si può dedurre che la condotta delle banche era volta alla massimizzazione del valore di mercato del proprio portafogli titoli ed al contemporaneo trasferimento, con palese violazione degli obblighi informativi e di condotta prescritti dall’art. 21 TUF, del rischio ai risparmiatori (299).

È stato osservato come il conflitto di interesse, in questi casi, risulti palese perché l’istituto di credito si trovava, contemporaneamente, nella posizione di “finanziatore della società attraverso l’erogazione del credito, manager nella emissione delle obbligazioni, e venditore dei bonds alla clientela retail” (300).

Si deve ricordare, a tal proposito, che, nel caso di rapido disfacimento dal proprio portafogli di titoli in esubero, la Consob ha ritenuto escluso il conflitto di interesse soltanto nel caso in cui “le condizioni della singola transazione fossero – rispetto alle

operazioni con analoghe caratteristiche prospettabili in alternativa – così favorevoli per il cliente da escludere per esso ogni concreto pregiudizio, anche in termini comparativi riferiti al mancato conseguimento di una più favorevole opportunità di

(296) FIMMANÒ, I gap di informazione e controllo nei crac Cirio e Parmalat e le prospettive di

riforma, in Le società, 2004, pagg. 403 e ss.. (297) Vedi nota n. 158.

(298) In effetti, il pericolo di crack era già stato percepito dal mercato finanziario quando, ad inizio

del 2003, il gruppo era stato costretto a ritirare l’emissione di un prestito obbligazionario da 300 milione di euro destinato ad investitori istituzionali a causa delle consistenti vendite del titolo.

(299) Secondo Tribunale di Monza, sentenza 16 dicembre 2004, in www.ilcaso.it, il conflitto sorge

in tutti i casi in cui “l’intermediario persegue scopi ulteriori e diversi rispetto alla realizzazione dell’interesse del cliente, quale, ad esempio, l’obiettivo dell’istituto di credito di eliminare rapidamente dal portafoglio di proprietà titoli presenti in via sovrabbondante, a seguito di una massiccia sottoscrizione dell’emissione obbligazionaria contestata”.

investimento,e ciò tenuto, in particolare, conto della qualità dell’emittente e della liquidabilità del titolo” (301).

Nondimeno, nella previgente disciplina dell’art. 21 TUF - normativa sotto la quale operava l’azienda Parmalat e le banche che la sovvenzionavano - il conflitto di interessi poteva essere superato con l’informazione all’investitore, in ordine alla prestazione finanziaria da lui richiesta, circa l’effettiva sussistenza nonché l’estensione dell’interesse dell’intermediario. Tuttavia, la giurisprudenza di merito più volte richiamata ha sostenuto che, in realtà, l’obbligo di disclosure o non era stato correttamente adempiuto ovvero che l’investitore medio non potesse comunque valutare, in maniera ponderata, il livello di coinvolgimento dell’intermediario finanziario, finendo in sostanza per accollarsi inconsapevolmente i costi di un’operazione per lui dannosa (302).

In estrema sintesi, si può concludere affermando che le condotte degli istituti di credito, lungi dall’osservare la componente fiduciaria del rapporto negoziale instaurato col risparmiatore, sono state volte, tutte, al soddisfacimento dei propri interessi, ossia il facile disfacimento di titoli che, di lì a poco, avrebbero perso ogni rimuneratività attraverso il trasferimento delle passività finanziaria agli investitori.

Per terminare la nostra disamina sul caso Parmalat, si deve accennare alle vicende giudiziarie che, fisiologicamente, sono seguite all’accertamento dello stato di decozione dell’impresa. In particolare sono stati instaurati paralleli procedimenti, civili e penali(303), per le cariche apicali ma l’impresa, grazie a validi piani di salvataggio (economici ed occupazionali), ha comunque eluso la procedura fallimentare beneficiando della meno grave amministrazione straordinaria (304).

(301) Comunicazione Consob n. 97006042/97, in Bollettino Consob, 2007.

(302) Vedi nota n. 157.

(303) Nei confronti del presidente della Parmalat, Calisto Tanzi, il procedimento penale, conclusosi

con la condanna dello stesso a 10 anni di reclusione, concerneva l’associazione per delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta impropria, l’aggiotaggio, l’ostacolo all’esercizio delle funzione di vigilanza della Consob, il falso in comunicazioni sociali ed ai revisori.

(304) Lo Stato, attraverso un finanziamento di 150 milioni di euro, ed alcune banche, si occuparono

del risanamento del gruppo di Collecchio perché potesse continuare l’attività. L’amministratore straordinario Enrico Bondi, nel suo piano di salvataggio, onorò alcuni bond e cedette il Parma Calcio. Inoltre, ha deciso di intraprendere un’azione legale contro le banche creditrici prima del crack, accusandole di aver emesso bond fino all’ultimo momento pur essendo consapevoli della situazione disastrosa in cui versavano i bilanci dell’azienda. A titolo esemplificativo, si stima che Deutsche Bank abbia, a fronte di un prestito di 140 milioni di euro, guadagnato di interessi 217 milioni (+140%), Unicredit Banca da 171 milioni di euro ne ha ricavati 212 (+124%), Capitalia ha incassato il 123% in più