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Considerazioni finali: lacune normative o inefficacia della

Terminata la disamina circa i casi più eclatanti di dissesto finanziario, si può ora passare all’analisi della questione che il titolo del paragrafo principale ci impone, ossia verificare se i defaults sopra cennati sono stati causati, ed in che misura, da un corpus normativo troppo facile da eludere ovvero se a difettare è stata l’effettività di norme che, sulla carta, erano state ben congegnate.

Dai rilievi che seguono può anticiparsi sin da ora che la responsabilità grava su entrambi i fattori sopra delineati perché è stata proprio la sinergia tra una normativa “debole” e la sua ineffettività a determinare le condotte illecite degli intermediari.

In tutte e tre le vicende, possiamo confermare che l’intermediario ha sempre violato il dovere di informarsi (know your merchandise rule e know your customer

rule). Tuttavia, essendo il dovere di informarsi presupposto logico del dovere di

informare, una volta inquinato il primo onere viene successivamente invalidato anche il secondo e, per l’effetto, anche il corretto risultato che dovrebbe delinearsi alla fine del processo informativo: la suitability rule e la best execution rule.

In particolare, nel caso Cirio ad essere carente è stata (ed è tuttora) una dettagliata normativa – a mo’, ad esempio, di quella fiscale - circa le operazioni infragruppo possibili, con meccanismi volti ad evitare costituzioni fittizie di crediti (una sorta di

(320) L’Argentina a tutt’oggi mantiene lo status di default ed è stata estromessa dai mercati finanziari internazionali, atteso l’omissione dolosa dello stato sudamericano che, in particolare, ha intenzionalmente occultato, prima di dichiarare il default, le sue riserve all’estero (oltre 150 miliardi di dollari).

scatole cinesi) e con relative sanzioni per i danni patrimoniali cagionati agli azionisti(321).

Inoltre, per quanto concerne l’emissione di obbligazioni senza rating, sarebbe auspicabile, se non il divieto tout court, quanto meno la previsione di procedure particolari, con obblighi informativi più pregnanti a favore del cliente e, magari, disposizioni ad hoc per affrontare quel particolare ed elevato rischio (322).

A titolo esemplificativo, si potrebbero introdurre regole sul c.d. holding period, ossia sul tempo minimo che deve intercorrere tra la sottoscrizione in sede di emissione di obbligazioni senza prospetto informativo da parte degli intermediari e la vendita delle stesse al pubblico. Ovvero, potrebbe abrogarsi l’art. 100 comma 1 lett. F) TUF che esonera dall’obbligo di prospetto informativo e di comunicazione alla Consob le obbligazioni bancarie e le polizze assicurative a contenuto finanziario (323).

In via generale, invece, sarebbe necessaria la semplificazione del prospetto contenente le informazioni sul profilo rischio-rendimento per far sì che l’obbligo di informazione non si traduca, paradossalmente, in un danno da disinformazione, stante la complessità del materiale fornito che soltanto pochissimi risparmiatori saprebbero maneggiare (324).Il rischio finale che si prospetta in caso di una legislazione pesante e dettagliata è, in finale, quello di determinare effetti controproducenti rispetto alla ratio ispiratrice dell’impianto normativo, risolvendo la tutela del cliente nel mero rispetto di regole più formali che non sostanziali e, oltretutto, facendo lievitare i costi di servizio.

Abbiamo già visto (325) come tali considerazioni hanno fatto dubitare la dottrina prevalente (326) della effettiva adeguatezza delle disposizioni in materia di tutela dell’investitore, posto che è notorio che il modo migliore per lasciare disinformato l’interlocutore sia proprio quello di inondarlo di complessi e tecnici documenti con la certezza che, sommerso da una quantità spropositata di informazioni da cui fosse difficile rintracciare le poche essenziali, l’interessato non avrebbe alcuna possibilità di districarsi.

(321) ONADO, I risparmiatori cit., pagg. 534 e ss. (322) RUSSO, Il caso Parmalat cit., pag. 1268.

(323) Per queste considerazioni de iure condendo, vedi FIMMANÒ, I gap cit., pag. 405

(324) ONADO, I risparmiatori cit., pagg. 534 e ss. (325) Vedi capitolo I.

Sempre a proposito del prospetto informativo, gli escamotage delle sollecitazioni all’investimento, utilizzati nelle tappe iniziali dei crack sopra analizzati, hanno condotto il legislatore finanziario ad introdurre nel TUF un art. 100 bis che, riferendosi ai casi di esonero dall’obbligo di presentare il prospetto informativo, dispone una disciplina particolare per la successiva circolazione in Italia dei prodotti finanziari oggetto di sollecitazione all’investimento. La nuova normativa non solo specifica che gli investitori professionali che trasferiscono titoli emessi sono soggetti allo statuto dell’art. 21 TUF ma che gli stessi investitori rispondono della solvenza dell’emittente, per la durata di un anno dall’emissione, nei confronti degli acquirenti che non rivestano la qualifica di investitori professionali (327).

Questo potente deterrente, nonostante sia temporalmente limitato, costringe l’intermediario finanziario a verificare con estrema attenzione gli strumenti finanziari che acquista per poi specularne nella successiva vendita.

Dalla ricostruzione sopra effettuata e dalle considerazioni ora spese, c’è anche chi ha sostenuto che il caso Cirio – ma non anche quello Parmalat che, come abbiamo visto, si fonda principalmente sulla falsificazione della situazione patrimoniale - è emblematicamente non solo un caso di market failure, ma anche un caso di regulatory

failure (328).

In particolare, lo stesso autore, notando come sia nel caso Cirio che in quello Parmalat, l’intervento della Consob sia stata fatalmente tardivo, ha auspica un maggior parco di poteri impeditivi in capo a tale autorità di vigilanza (329).

Accanto all’inidoneità normativa, però, abbiamo anticipato sopra come vi sia un concorso di “responsabilità” anche dell’ineffettività del sistema, fattore che ha impedito la trasformazione della norma da mera lettera a forza cogente.

Per quanto concerne il conflitto di interessi, la normativa – precedente alla recezione della direttiva MIFID – sotto l’imperio della quale tali dissesti si sono verificati imponeva agli intermediari finanziari di “organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitto di interesse” e, nel caso concreto in cui questo si

(327) Per un’analisi di tale normativa, vedi amplius SANGIOVANNI, La responsabilità cit., pag. 692.

(328) ONADO, I risparmiatori cit., pag. 536. (329) ID., pagg. 534 e ss.

verificasse, di “agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento”.

Tale disciplina avrebbe senz’altro potuto trovare completa ed efficace attuazione con l’introduzione, negli intermediari finanziari polifunzionali, delle c.d. chinese walls, ossia barriere predisposte dagli stessi intermediari per rendere autonomi ed indipendenti i diversi settori interni, garantendo al contempo la loro separazione contabile ed amministrativa nonché evitando la circolazione, o meglio la fuga, di informazioni da un settore all’altro (330).

In tal modo, le muraglie cinesi avrebbe potuto evitare, o quantomeno limitare, il conflitto di interessi e di doveri nei casi, come quelli che hanno occupano i defaults sopra analizzati, di collocamenti di titoli emessi da soggetti finanziati dagli stessi istituti di credito.

Proseguendo le nostre considerazioni, si devono esaminare le carenze strutturali della funzione di vigilanza e le condotte spregiudicate dei c.d. gatekeepers che, sfruttando al meglio le lacune e le debolezze del sistema (soprattutto laddove si accogliesse incondizionatamente il risarcimento del danno come paradigma di rimedio), potrebbero reiterare i loro comportamenti contra legem a causa della fragilità degli argini di deterrenza che il sistema stesso ha predisposto (331).

Nel caso Parmalat, ad esempio, la Consob giustificò il suo ritardo ispettivo denunciando, oltre che la carenza di poteri impeditivi, l’impossibilità di accedere alla Centrale dei rischi (332) nonché la difficoltà di rinvenire anomalie finanziarie in dati e movimentazioni falsificate.

Mentre sul primo e l’ultimo rilievo si può essere parzialmente d’accordo, sul secondo si è espressa una forte riserva. In realtà, l’art. 7 TUB esclude il divieto di

(330) Le c.d. chinese walls, previste dall’art. 56, commi 3 e 4, reg. Consob contrastano, però, con la

sopravvenuta disciplina introdotta dalla direttiva MIFID. Lo denuncia RUSSO, Il caso Parmalat cit., pag.

1260 e ss.

(331) Sulle difficoltà, non solo dal punto di vista del diritto sostanziale ma anche da quello del diritto processuale, insite nel ristoro civilistico, con conseguente vantaggio per gli intermediari, vedi amplius i paragrafi 2 e 3 di questo capitolo.

(332) Organo disciplinato nel testo unico bancario che ha la funzione di produrre informazioni secretate utili agli intermediari per il contenimento dell’alea derivante dal cumulo dei fidi in capo ad un medesimo soggetto, per la valutazione del merito creditizio e in generale per la gestione del rischio.

divulgazione dei dati sui singoli affidati della Centrale nei confronti delle altre autorità di vigilanza (333).

Ad ogni modo, gestendo esso soltanto i crediti bancari a livello nazionale ricevuti dai risparmiatori da parte delle banche e degli intermediari vigilati dalla Banca d’Italia, la Consob non avrebbe potuto ottenere alcuna informazione utile a livello di credito bancario sovranazionale (334).

Analizzando il riparto per obiettivi delineato dall’art. 5 TUF, poi, un altro autore ha mostrato l’immanente conflitto di interessi insito nella disposizione, ripercuotendosi negativamente sulla funzione di vigilanza. In effetti, se la Banca d’Italia è competente per quanto concerne la stabilità patrimoniale degli intermediari e la Consob per quanto attiene alla trasparenza dei comportamenti di quest’ultimi, il loro operato coordinato si trasforma in realtà in una sorta di interferenza di gestione che provoca un’immanente inefficacia del sistema di vigilanza, considerato che chi regola la stabilità è inevitabilmente favorevole ad operazioni che riducono il rischio per le banche mentre chi assicura la trasparenza si deve istituzionalmente preoccupare di tutelare i singoli investitori garantendo loro tutte le informazioni possibili sul grado effettivo di rischio, senza preoccuparsi se questo riduce in concreto i margini di guadagno dell’intermediario (335).

Discorso a parte meritano i c.d. gatekeepers le cui condotte, affiancandosi a quelle della proprietà e dei ruoli apicali delle società in dissesto, sono state altrettanto censurabili e spesso hanno contribuito causalmente ai default delle aziende medesime.

Se si ricostruisce il loro ambito operativo, all’interno del sistema di regolamentazione e controllo del mercato finanziario, nella macrostabilità, microstabilità e trasparenza e protezione dell’investitore, si può affermare che, in tutte e tre le vicende che qui ci occupano, i gatekeepers sono venuti meno al loro dovere inserendosi etiologicamente nel processo che portato al default tanto della Cirio, quanto della Parmalat e della repubblica Argentina (336).

(333) FIMMANÒ, I gap cit., pag. 406.

(334) Ibidem.

(335) FIMMANÒ, I gap cit., pag. 409, il quale, in ordine alla Banca d’Italia, precisa che “essa ha storicamente privilegiato la stabilità dei propri soggetti rispetto alla tutela dell’investitore o della concorrenza o, in altri termini, ha concorso a causare il ribaltamento, a favore degli intermediari, dei rischi sul mercato finanziario dei capitali e, quindi, in ultima istanza, sugli investitori”.

Avendo già trattato dei limiti della funzione di vigilanza delle rispettiva autorità amministrative indipendenti, ci si vuole soffermare qui sull’operato dei revisori contabili nonché degli analisti finanziari.

Ai primi spettava il delicato compito di assicurare la veridicità delle movimentazioni contabili delle imprese vagliate e la trasparenza della loro situazione finanziaria, fattore essenziale ed imprescindibile nelle scelte di investimento. Sennonché le stesse società di revisione non avrebbe rinvenuto, nei bilanci Cirio e Parmalat, alcuna situazione anomala o patologica nel corso del ventennio di operazioni finanziarie poi rivelatesi disastrose (337).

Il motivo potrebbe essere rinvenuto nel mantenimento di rapporti duraturi, spesso collusivi, con la società vagliata. In effetti, una relazione duratura conviene alla società di revisione perché stabilizza i profitti e riduce i costi, posto che redigere il bilancio di una società nota è meno costoso.

A tal riguardo, si è auspicato, al fine di diminuire queste “relazioni pericolose”, un sistema basato sulla scelta del revisore condivisa dal consigliere che rappresenta gli azionisti di minoranza nonché dai sindaci. A ciò si dovrebbe affiancare la responsabilità civile di un solo revisore, una durata più breve agli ordinari contratti novennali nonché il divieto di rinnovo del mandato certificatorio anche nei confronti di una società collegata. Il regime di rotazione, poi deve concernere non solo la società vagliata ma anche i partners e coloro che svolgono materialmente l’attività societaria (338).

Discorso diverso si deve fare per gli analisti finanziari e per quelli di investimento i quali ognuno nel proprio campo operativo, influiscono sulle decisioni dei risparmiatori.

In particolare, mentre i primi suggeriscono strategie di investimento sulla base dell’andamento della società e del mercato finanziario (339), i secondo lavorano per le agenzie di rating ed esprimono un giudizio di merito sugli emittenti gli strumenti finanziari.

(337) FIMMANÒ, I gap cit., pagg. 403 e ss.

(338) Per queste considerazioni de iure condendo nonché per un’analisi comparatistica col sistema

statunitense, ed in particolare col modello del PCAOB (Public Company Accounting Oversight Board),

vedi amplius FIMMANÒ, I gap cit., pag. 412.

(339) La valorizzazione degli analisti finanziari “indipendenti” è un rimedio considerato della

Fermo restando la necessità di un obbligo normativo di esternazione dei propri interessi, attuali o potenziali, con la società oggetto di analisi, essi avrebbero disatteso, nei casi in questione, una precisa disposizione: invero, l’art. 69 reg. emittenti (n. 11971 del 1991) impone loro di trasmettere gli studi effettuati alla Consob ed alla Borsa italiana per poi essere messi a disposizione del pubblico. L’assenza di qualsivoglia risultato, specialmente in ordine al gruppo Cirio, sarebbe da ascrivere, secondo un autore che si è occupato ex professo di tale anomalia operativa, principalmente in due motivi: gli analisti finanziari sapevano, prima ancora di filtrare la situazione patrimoniale societaria, che si trattava di un’azienda “rischiosa”, ossia pericolosa da valutare ovvero gli stessi sapevano che, in ogni caso, i propri clienti (fondi, investitori istituzionali ecc.) si sarebbero astenuti dall’investire in quella società (340).

Per concludere, abbiamo visto come nei più recenti default lo stato di decozione dell’impresa sia sempre stato determinato da una congerie di fattori che, in concorso, hanno condotto al dissesto finanziario. Non si può, se non arbitrariamente, evidenziare un fattore predominante: in alcuni casi, come nella costituzione di fittizi crediti infragruppo da parte del gruppo Cirio, è proprio una normativa dettagliata a difettare; in altri, come nel caso delle false movimentazioni del bilancio Parmalat, la normativa c’era ma la sua ineffettività è stata determinata dall’inerzia delle autorità di vigilanza e dei c.d. gatekeepers. Possiamo affermare, comunque, la sussistenza di una stretta correlazione – o, meglio, di un circolo vizioso che si auto-alimenta - tra lacune normative ed inosservanza in concreto di disposizioni troppo “morbide” o, al contrario, talmente rigorose da essere nella realtà dei fatti “ineseguibili”.

Invero, l’ineffettività conclamata di una norma, ad esempio l’art. 69 reg. emittenti sopra analizzato, comporta a lungo termine lo stesso effetto della lacuna normativa perché, nei fatti, è “come se” la disposizione non esistesse nel sistema normativo.

Gli intermediari, che di questo sistema sono esperti, beneficiano così di pericolose sacche di impunità a scapito degli investitori che, dal canto loro, neanche possono dolersi dell’inesistenza di una precisa regolamentazione che, invero ed anche se formalmente, esiste.