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4.1 I derisi dalla cattiveria della gente …

4.1.2 La cattiveria che condanna una vita …

Passando all'altro capo del filo, in Verga è impossibile non esaminare riguardo questo argomento la novella Rosso Malpelo, apparsa in quattro puntate sul quotidiano romano «Fanfulla» dal 2 al 5 agosto 1878, fu edita in opuscolo nel febbraio 1880, sempre a Roma, col sopratitolo Scene popolari, nella collana periodica «Biblioteca dell'Artigiano» curata dalla rivista «Il Patto Di Fratellanza»; fu quindi compresa in Vita

dei campi a partire dalla prima edizione del 1880.

La novella che è uno dei capolavori di tutta la produzione verghiana, nasce nel clima della Milano di quegli anni e l'autore, stimolato dall'apposita legislazione emanata dal Parlamento nel 1879 sullo specifico argomento del lavoro minorile, racconta e descrive nel modo più autentico e realista che esiste quel mondo siciliano popolare del tutto ignoto al pubblico letterario del tempo.

La vicenda si svolge tutta attraverso l'opinione comune e collettiva della società sul protagonista, il quale rimane per tutta la durata del racconto uno sconfitto, un vinto non soltanto sul piano lavorativo, ma ancor di più su quello affettivo.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.8

Verga insomma, per usare la giusta espressione del critico Guido Baldi, “regredisce” volutamente al livello della mentalità popolare per riprodurne la visione del mondo, il quale ritiene Malpelo malizioso e cattivo perché rosso di capelli9.

Nella cava dove Malpelo lavora vige la legge di sopraffazione e tutta la comunità paragona i suoi atteggiamenti a quelli animali ed egli stesso prende a poco a poco consapevolezza del suo ruolo e comincia a comportarsi come tale:

8 Giovanni Verga, Rosso malpelo, in Tutte le novelle, a cura di Carla Riccardi, Milano, Mondadori, 1979, p. 173

9 Guido Baldi, L'artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, Liguori, 1980

Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c' ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi10.

Anche il padre prima di lui aveva avuto la sua stessa fortuna, tanto da meritarsi il nome di «mastro Misciu Bestia, l'asino di tutta la cava11; la sua morte scatena in Malpelo un sentimento di autodistruzione e lo stravolge al punto che

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei s’acconciava ad esserlo peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro.12

Se da un lato la collettività nega a Malpelo quasi il diritto alla sua stessa umanità, dall’altro il protagonista stesso dimostra di aver compreso molto bene la legge economica di sopraffazione del più debole, tanto da accettare tutte le violenze e i soprusi del mondo circostante. Egli stesso si fa oppressore di altri ragazzi e maestro di un altro personaggio, Ranocchio, un ragazzo storpio che egli a suo modo protegge, anche se in modo crudele e lo fa anche con un mal celato godimento e che in realtà è solo la proiezione di sé stesso:

Cogli altri ragazzi era poi addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, ed il modo in ci l'avevano lasciato crepare13.

10 Ibidem 11 Ivi, p. 174 12 Ivi, p. 177 13 Ibidem

Per un breve periodo Malpelo passa dall'essere la vittima a carnefice, forse per vendicarsi o forse per affermare la sua figura, riversa tutto quello che di solito viene fatto a lui su Ranocchio, con l'unica differenza che lui spera attraverso ciò di insegnargli qualcosa:

Egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, e gli diceva: To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! [...] Malpelo allora confidava a Ranocchio: -L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi. Oppure: -Se ti accade di dare delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso14.

Per effetto di «bieco orgoglio o di disperata rassegnazione»15 Malpelo viveva in questo modo, considerato un animale selvatico e sconfitto sotto ogni aspetto della sua vita, soprattutto quello familiare, la madre non mostrava affetto e lui viveva bene nella sua cava, come se fosse la giusta punizione per essere quello che è; ricorrenti i paragoni del ragazzo con gli animali, soprattutto con l'asino.

La svolta della novella arriva quando viene rinvenuto il cadavere del padre e, anche nel momento in cui il ragazzo mostra dei segni d’affetto per l’unica persona che gli ha voluto bene, conservandone gelosamente le scarpe e gli arnesi di lavoro, la comunità popolare giudica negativamente il suo atteggiamento, imputandolo alla sua stranezza

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com'erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi,

14 Ivi, p. 178 15 Ivi, p. 179

egli aveva risposto di no16.

Per Malpelo, la prospettiva della morte diventa cessazione delle proprie sofferenze, così com’è stato per l’asino grigio della cava, morto dopo una vita di sofferenze e per Ranocchio, che muore perché malato di tubercolosi dopo una lunga agonia durante la quale egli non lo lascia solo.

Abbandonato anche dalla madre e dalla sorella, al protagonista non resta che adeguarsi in tutto e per tutto al proprio destino di diverso e di reietto, accettando una rischiosa missione esplorativa nella cava e «lasciandoci le ossa»17:

Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco di vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui18.

É l'ultima feroce ingiustizia che gli vene inflitta, e che significa per Malpelo porre fine alle proprie sofferenze, e dare un senso alla tragedia silenziosa che ha vissuto per tutta la vita, la quale magari si sarebbe potuta evitare se solo tutto il mondo intorno a lui non gli avesse fatto credere di essere una bestia e non si fosse accanito contro di lui solo per stupida convinzione popolare e superstizione che giudica in modo sbagliato un essere umano per il colore dei suoi capelli.

Due casi diversi eppure simili, Maggiolino e Teresella da un lato e Malpelo dall'altro, personaggi derisi e presi in giro senza alcun motivo e costretti a vivere in silenzio nella condizione che non hanno scelto ma è stata loro imposta dalla cattiveria e dal pregiudizio di chi li giudica diversi ponendoli nella posizione di sconfitti ed esclusi per tutta la loro vita.

E tuttavia è notevole la differenza tra le due novelle analizzate, mentre in De Marchi si arriva a un lieto fine perché la forza dell'amore e dei sentimenti onesti e sinceri vince anche sulla cattiveria della gente, in Malpelo non c'è nessuna prospettiva né possibilità di uscirne come un vincitore.

16 Ivi, p. 183 17 Ivi, p. 188 18 Ivi, p. 189