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Appunti per disegnare una mappa del consenso a re Arduino

OSPITALE DI SAN BARTOLOMEO ‐ 2008

46 CAVALLO, GENTILCORE 2007.

47 Un’introduzione esaustiva sulla questione in JOHNSON 1999, pp. 116-131.

48 Si vedano le analisi sulla funzionalità degli ambienti in JOHNSON 2002, pp. 67-73 e GILCHRIST 1994. Un approccio in termini di matrix in RICHARDSON 2003, p. 131.

49 Ci sembra di particolare interesse l’attenzione per l’organizzazione spaziale degli ospedali fiorentini in HENDERSON 2006, p. 200.

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Coordinatore Andrea Zorzi

Discussant Jean Claude Maire-Vigueur

Gli studi sulla storia politica delle città comunali e signorili conoscono negli ultimi anni un rinnovamento interpretativo profondo, orientato al superamento di «quello che potremmo chiamare il “pregiudizio filocomunalistico” che a lungo ha afflitto la storia politica italiana», per usare le parole di Gian Maria Varanini (2006). La «messa in forse dell’esistenza di un modello comunale» (colta da Massimo Vallerani nel 2011) appare l’esito più evidente del rinnovato fervore della ricerca. Continua infatti a pesare sul senso comune storiografico una narrazione della storia politica delle città italiane, erede della pedagogia nazionale otto-novecentesca, radicata intorno ad alcune solide convinzioni: che i comuni fossero piena espressione della libertà dei cittadini, che la degenerazione delle lotte di fazione avesse determinato la loro crisi, e che i regimi signorili avessero segnato la fine della libertà aprendo la strada alle invasioni straniere della fine del XV secolo. Matrice ideologica di tale visione rimane la precomprensione che la storia delle città italiane sia stata il teatro di una contrapposizione tra un ipotetico mondo delle libertà politiche e quello della tirannide. Il comune, in particolare, continua a essere interpretato come il sistema politico delle esperienze di autonomia cittadina, il quadro costituzionale di tipo tendenzialmente statale. Le ricerche recenti hanno messo a fuoco i limiti cognitivi di tale modello, che appare sempre più inadeguato a descrivere e a dotare di senso la complessità e l’eccezionalità dell’esperienza politica della civiltà cittadina italiana. Si tratta dunque di meglio perimetrare l’identità del comune e, al contempo, di arricchire di senso la conoscenza della natura e del funzionamento del sistema politico delle nostre città basso medievali. Una prospettiva euristica appare quella di riconoscere l’esistenza di uno spazio politico composito – vale a dire la

civitas, oggetto di riflessione della trattatistica sul suo regimen – in cui agiva una molteplicità di

nuclei di potere e di attori politici: dal vescovo al comune, dal “popolo” alle arti, dalle societates le più varie alle partes. All’interno di questo spazio politico, caratterizzato da una comune matrice cittadina e dalla varietà di assetti di potere, di configurazioni istituzionali e di linguaggi politici, il comune emerse faticosamente in competizione con altre forze attive al suo interno, e fu presto affiancato da una varietà di soggetti: societates le più varie, le varie articolazioni del “popolo”, le parti, le arti, i signori, etc. Ciascuna di queste forze si affermò con proprie istituzioni e proprie normative, agendo in uno spazio comune e rielaborando i valori e i linguaggi del discorso pubblico cittadino. Nel tempo il sistema tese a farsi sempre più complesso. L’effetto più evidente fu la moltiplicazione dei processi di esclusione dalla partecipazione politica e di riammissione negoziata alla cittadinanza.

Relatori:

Stefano Bernardinello, I mutamenti dei regimi nelle città alla metà del XII secolo: considerazioni

sullo spazio politico milanese prima della discesa del Barbarossa

Andrea Zorzi, Interpretare il comune

meridionale nell’altomedioevo (secc. VIII-IX)

coordinatrice Giulia Zornetta discussant Claudio Azzara

Donare, ricevere, redistribuire.

Duchi, abati e monasteri a Benevento nell’VIII secolo

di Vito Loré

0. Il dossier di VIII secolo conservato dal cartulario di S. Sofia di Benevento è stato edito solo di recente da Jean-Marie Martin e poi, per la parte più antica, da Herbert Zielinski. Il titolo del cartulario è Liber preceptorum: sono i diplomi, i precepta, il perno della compilazione, il cui redattore ha sistematicamente tralasciato le carte private, solo in minima parte recuperabili dagli inserti contenuti nei documenti più tardi, di X-XII secolo, della tradizione di S. Sofia, e almeno in parte confluite in un altro cartulario, oggi perduto e noto solo da un frammento superstite. La selezione operata a monte dall’estensore del Chronicon Sanctae Sophiae dà solo in parte ragione di un elemento di tutta evidenza: l’assoluta centralità di duchi e principi come referenti politici ed economici di chiese e monasteri beneventani nell’VIII secolo. Tale centralità è a mio parere non effetto di una distorsione prospettica, ma espressione di un’effettiva costellazione di rapporti fra autorità politiche e monasteri, propria di Benevento e degli spazi più vicini alla capitale del ducato. 1. Prima della fondazione del monastero femminile di S. Sofia ad opera del duca Arechi II, negli anni 760, al centro della nostra attenzione si pone un’altra chiesa omonima, dall’orizzonte più domestico, fondata dall’abate Zaccaria in località Ponticello, alle porte di Benevento. La chiesa fu con ogni probabilità edificata sulle terre appartenute a un defunto Waldulfo, concesse dal duca Romualdo II all’abate nel 721. La chiesa esisteva di certo già nel 723, quando Romualdo le concesse la facoltà di ricevere offerte, la soggezione al solo Palazzo (escludendo dipendenze da vescovati e xenodochi), nonché la facoltà per Zaccaria di designare il proprio successore. Il riferimento agli xenodochi si spiega con un diploma perduto del primo periodo di regno del duca Romualdo (706-732), confermato da Romualdo stesso nel 742, dopo il suo ritorno al potere: a Zaccaria Romualdo concedeva lo xenodochio e il monastero di S. Benedetto, con tutti i suoi redditi (census), la dipendenza dal solo Palatium e l’esenzione da qualsiasi obbligo di ospitalità. Evidentemente, nelle intenzioni del duca e dell’abate, S. Benedetto e S. Sofia di Ponticello dovevano rimanere entità distinte, non coordinate per via gerarchica, unite dalla comune dipendenza dal Palazzo e dalla persona dell’abate.

Nel 742, luglio e settembre, il nuovo duca Gisulfo II confermò nei medesimi termini a Zaccaria il controllo sia di S. Sofia, sia di S. Benedetto, con due distinti diplomi; seguono altre conferme, con alcune integrazioni, in cui i ruoli di Zaccaria, abate di S. Sofia e di S. Benedetto, sono sempre tenuti fermamente distinti; nel 756 Zaccaria era morto, sostituito alla guida di S. Benedetto dall’abate Maurizio, della cui attività parleremo brevemente più avanti. Da quel momento in poi, invece, non abbiamo più tracce sicure di S. Sofia di Ponticello, che scompare come entità autonoma insieme con il suo fondatore e abate.

Zaccaria fu un personaggio strettamente legato al Palazzo e alla dinastia ducale. Nei diplomi ci si rivolge a lui come “abbati nostro”, o “sanctissimo abbati patri nostro” e a lui è riservata una quota cospicua dei diplomi superstiti per i decenni 720-740. Per comprendere la logica interna del rapporto fra l’abate, le sue chiese e i duchi, bisogna però distinguere. Zaccaria compare in tre vesti differenti: come singolo, come fondatore e abate di S. Sofia di Ponticello, come abate dello xenodochio e monastero di S. Benedetto. Nei tre contesti il tenore e il contenuto delle concessioni cambia notevolmente. A S. Benedetto i duchi non riservarono alcuna concessione di beni immobili, fondiari o no, ma confermarono redditi e concessero esenzione dall’autorità vescovile e protezione del Palazzo. S. Sofia, oltre alla protezione dal Palazzo e all’esenzione, ricevette direttamente beni

immobili in una sola occasione, nel 726: un gualdo sul Calore, presso Benevento, per consentire attività di pesca ai dipendenti. Il grosso dei beni concessi dai duchi a Zaccaria fu indirizzato invece direttamente a lui. Erano beni appartenuti a morti senza eredi, incamerati dal duca secondo l’interpretazione locale della legge longobarda. Nel 721-722 le prime concessioni riguardano i beni di Waldulfo e di Pergoaldo, a Benevento e a Quintusdecimus; seguono nel 723 i beni già appartenuti a Totone transpadanus. Parte dei beni di Waldulfo fu destinata anche a un altro religioso, l’abate Deusdedit, che ricevette terre e famiglie contadine nei pressi del torrente Saccione; e a Deusdedit, a Zaccaria e a un altro abate, Paolo, il duca aveva concesso anche terre in condominio sul Lauro, presso Lesina.

Dai diplomi generali di conferma del 724 e del 745 sappiamo che S. Sofia aveva accumulato possedimenti formati per l’essenziale da beni di morti senza eredi, in gran parte situati a Benevento e nel territorio circostante. Si trattava di un patrimonio spazialmente molto disomogeneo, di consistenza piuttosto mediocre, com’è possibile evincere soprattutto dal numero ridotto di famiglie dipendenti. È interessante notare che quei beni erano stati devoluti dal duca non direttamente a S. Sofia, ma al suo abate; Zaccaria ne aveva poi fatto dono alla chiesa, vedendosi confermato il passaggio dalle due ulteriori, complessive conferme ducali. A questi diplomi per la persona di Zaccaria ne vanno aggiunti altri due, con i quali all’abate si cedevano due condome, cioè due unità familiari di rendita, a pieno titolo parte del fisco ducale: solo in questi due casi la formula di garanzia metteva al riparo l’abate da eventuali rimostranze degli ufficiali (“et a nullum quempia gastaldium aut actorem nulla vobis exinde substrahatur”), e non da generici “homines”, soggetti privati, come avveniva per i beni di morti senza eredi, che evidentemente transitavano solo velocemente per la disponibilità dei duchi, senza entrare a far parte a pieno titolo del patrimonio pubblico. A quanto possiamo vedere, tali concessioni non furono riassorbite nel patrimonio di S. Sofia di Ponticello, perché non citate nei diplomi di conferma generale: rimasero nell’esclusiva, e perciò forse temporanea, disponibilità dell’abate.

Il dossier centrato sulla persona dell’abate Zaccaria disegna dunque un circuito chiuso, centrato sui duchi. Essi proteggevano chiese e monasteri, li ponevano sotto il loro patrocinio, sottraendoli alla giurisdizione vescovile; gli atti di generosità dei duchi seguivano logiche complesse, smembrando patrimoni come quello di Waldulfo e creando invece solidarietà nella condivisione di risorse fondiarie, come nel caso dei tre abati in condominio sui possedimenti di Lesina. Nel caso di Zaccaria le donazioni che arricchirono S. Sofia di Ponticello transitarono per lo più dalla sua persona, quasi a sottolineare il rapporto speciale fra l’abate e i duchi. In altri casi, invece, le concessioni ducali furono destinate direttamente a monasteri: così, con un diploma perduto degli anni 689 circa-700, i duchi Teoderada e Gisulfo avevano concesso condome a S. Benedetto di Benevento; nel 718-719 Romualdo II aveva concesso una casa del suburbio a S. Giorgio di Salerno; nel 724 all’abate Theoderaci, rettore della chiesa di S. Pietro ad aquam Sancti

Potiti, lo stesso duca aveva concesso quattro famiglie di coloni. Ma si trattava comunque di

generosità ducali: le dotazioni venivano alle chiese e ai monasteri, oltre che dai duchi, dai soli fondatori, sempre chierici o religiosi, e dalle famiglie dei monaci che entravano a farne parte. Così, per esempio, nel caso di Iubinianus e della moglie Donnula, che nel 719 donavano tutti i loro beni al monastero di S. Pietro a Massanum, dove i figli sarebbero presto entrati come monaci. Chiese e monasteri appaiono attori economici modesti, sia per l’estensione dei patrimoni, sia per la loro capacità sociale di intercettare flussi di donazioni. Del resto ciò non stupisce particolarmente, se pensiamo che di norma, almeno nella città di Benevento e nell’area circostante, nell’arco di un paio di generazioni al massimo le fondazioni private a noi note cadevano sotto il diretto controllo del Palazzo, che si riservava la nomina degli abati, sottraendo così chiese e monasteri tanto al controllo delle famiglie fondatrici, quanto ai vescovi. La centralità ducale era probabilmente un fattore potente di inibizione, che ostacolava sia la formazione di embrionali congregazioni, sia un’espressione più articolata dell’attività economica dei monasteri. A partire dagli anni sessanta, in corrispondenza del ducato di Arechi II, le cose cambiano da diversi punti di vista.

8. Benevento tra potere pubblico, vescovi e musulmani. Nuove linee di ricerca per l’Italia meridionale nell’altomedioevo (secc. VIII-IX)

2. Il successore di Zaccaria come abate di S. Benedetto fu l’energico Maurizio, che si applicò a un recupero e a una razionalizzazione del patrimonio monastico. Nel 756 vinse una causa relativa al controllo della chiesa di S. Nazario presso Alife, contesa a S. Benedetto da alcuni membri della famiglia fondatrice; nel 762 recuperò il controllo di condome a Prata, manomessi da Zaccaria; nello stesso anno operò una permuta di terre.

Negli anni immediatamente successivi, mentre continuano le consuete, “interne” donazioni operate dai fondatori alle loro proprie chiese e ai propri monasteri, alcuni cambiamenti di assoluto rilievo si accompagnano alla fondazione del monastero femminile di S. Sofia ad opera di Arechi II. Il duca fondò S. Sofia con ogni probabilità negli anni 760 e pose a capo del nuovo monastero una sua consanguinea1, in modo per vari aspetti simile a ciò che contemporaneamente accadeva a Brescia, con il rapporto privilegiato fra S. Salvatore e la famiglia regia di Desiderio.

Attraverso la filigrana di una documentazione che pure resta formata quasi solo da diplomi, scorgiamo i primi, consistenti indizi di un ruolo economico del monastero più complesso e articolato, rispetto a quello di altri enti religiosi beneventani del passato recente. Nel 772 S. Sofia acquistò una terra con vigna in località vicina a Benevento; negli anni precedenti il 774 ricevette dal sacerdote Mauro tutti i suoi beni e in particolare la chiesa di S. Martino di Mottola; acquistò un casale da un abitante di Cosenza, Roderissi; ricevette il dono della chiesa di S. Adiutore presso S. Agata e di tutti gli altri beni di Brunilmo; e tutti i beni di Guarniperto. Gli esempi di acquisti e donazioni da privati potrebbero arrivare alla quindicina, attingendo alle conferme di donazioni più antiche, contenute in alcuni dei diplomi ducali emanati nel 774, e soprattutto alla megafalsificazione che apre il Chronicon di S. Sofia, con la probabile, principale funzione di appiattire le donazioni più antiche su quell’anno, segnato dall’assunzione del titolo principesco da parte di Arechi. Dunque il primo periodo di S. Sofia è segnato da due elementi. Il monastero ricevette donazioni da più soggetti, che esorbitavano dai referenti unici per i monasteri e le chiese attivi nel periodo precedente: i duchi e i fondatori. In secondo luogo S. Sofia acquistò beni fondiari e non, con un’iniziativa che, allo stato della documentazione, è anch’essa indizio di un atteggiamento nuovo: il monastero si mostra come soggetto capace di iniziative economiche autonome, finalizzate con ogni probabilità a integrare i primi nuclei di patrimonio acquisiti con le donazioni.

Se già prima del 774 S. Sofia mostrava dunque caratteri di novità nel panorama beneventano di VIII secolo, la serie di diplomi arechiani di quell’anno la proiettava su scenari del tutto inediti. Per la prima volta un duca (ora principe) distraeva a favore di un ente religioso non beni “volatili” e modesti di morti senza eredi, non solo singole famiglie di dipendenti (condome), ma blocchi di proprietà tratte dai gai, le ampie estensioni di terra che del fisco principesco erano la parte sostanziale, costituendone anzi l’ossatura: centinaia e centinaia di ettari in località sparse per buona parte del principato, ma concentrate in particolare fra Molise e Puglia settentrionale.

Sia la capacità di agire in proprio con acquisti e permute, sia l’accesso a donazioni private diffuse su spazi ampi e provenienti da soggetti numerosi, sono una costante delle vicende degli altri due grandi monasteri meridionali, S. Vincenzo al Volturno e Montecassino, nel IX secolo. Il modello primo di queste reti devozionali monastiche in area longobarda fu però probabilmente S.