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Retorica figurata a Parma in età podestarile: forma di autocelebrazione o espressione di un consenso?

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Marzo 2019

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La Sismed, Società italiana degli storici medievisti, ha organizzato tra il 14 e il 16 giugno del 2018 il primo convegno della medievistica italiana negli spazi del Centro Residenziale Universitario di Bertinoro, un borgo arroccato su un colle in provincia di Forlì-Cesena. L’iniziativa è stata articolata in 48 panel tematici cui hanno preso parte poco meno di 200 medievisti – a diversi stadi della loro carriera universitaria – tra coordinatori, relatori e discussant.

La Sismed ha deciso di mettere a disposizione della comunità scientifica i primi esiti di quasi tutti i panel, che testimoniano larga parte dei temi vivi nella medievistica italiana del secondo decennio del secolo: si leggono qui le relazioni presentate nel corso del convegno, in una versione preliminare a una rielaborazione in forma più distesa e completa – arricchita dal contributo di dibattito seguito alle esposizioni nei panel – e in vista di una eventuale e più tradizionale pubblicazione.

Gli autori sono stati lasciati liberi di consegnare i propri lavori nella modalità di loro maggior gradimento, spesso senza note e bibliografia e talora nella semplice forma di abstract. Il deposito, sotto la data del 30 marzo 2019, di tale assemblaggio non selettivo (mancano solo i testi di chi ha lecitamente preferito non consegnare) nell’Open Archive di Reti Medievali (<www.rmoa.unina.it>) ha la funzione di tutelare questo patrimonio intellettuale e il diritto di ciascun autore. I panel sono presentati nella successione che si legge nella locandina del convegno, qui riprodotta in calce al pdf cumulativo.

il Presidente della Sismed Stefano Gasparri

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Indice

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

coordinatore Nicola Mancassola ………. 1 2. Interazioni fra Turchi, Greci e Latini in età bizantina e postbizantina

coordinatrice Sandra Origone ……….... 27 3. Affinità elettive: dinamiche e relazioni delle élites dell’Italia nel VI secolo

coordinatori Maria Cristina La Rocca e Andrea A. Verardi ……….. 45 4. Libertas: lunga durata e discontinuità di una Leitidee

coordinatrice Caterina Ciccopiedi ………. 59 5. Indicatori del consenso. Tradizioni documentarie e sistemi di datazione

nel regnum Italiae (sec. XI-XII)

coordinatore Alfredo Lucioni ……… 69 6. Ospitali benedettini in età basso medievale. San Bartolomeo a Spilimberto

di Modena: storia, archeologia e salute

coordinatore Simone Biondi ………...………... 75 7. Spazi e sistemi politici nelle città comunali e signorili italiane dei secoli XII-XIV

coordinatore Andrea Zorzi ……….…….. 101 8. Benevento tra potere pubblico, vescovi e musulmani.

Nuove linee di ricerca per l’Italia meridionale nell’altomedioevo (secc. VIII-IX)

coordinatrice Giulia Zornetta ………... 103 9. Nomina sunt consequentia rerum. Etnonimi fra retorica imperiale ed esegesi biblica

coordinatore Salvatore Liccardo ……….. 121 10. Pievi, parrocchie e comunità nelle Alpi. Perché c’è ancora bisogno

di occuparsi dell’organizzazione territoriale della cura d’anime

coordinatore Emanuele Curzel ……… 129 11. L’Italia medievale nelle banche dati internazionali: i Regesta Imperii

e il Repertorium Germanicum

coordinatore Andreas Rehberg ……… 137 12. Donne in spazi pubblici e di potere tra X e XII secolo (Liguria, Venezia, Roma)

coordinatrice Anna Maria Rapetti ………..…………..… 139 13. I linguaggi del consenso. Memoria, retorica figurata, storiografia

in ambito cittadino (XIII sec.)

coordinatore Pietro Silanos ……….. 153 14. Società urbana e istituzioni municipali nei regni italiani del tardo medioevo

coordinatori Francesco Senatore e Pinuccia Simbula ………..… 179 15. Le altre migrazioni I. Mobilità regionale e micro-mobilità di uomini e donne

tra tarda antichità e alto medioevo (secoli VI-X)

coordinatrice Anamaria Pazienza ……… 209 16. Governare il cambiamento: memoria e realtà degli assestamenti

istituzionali nella vita religiosa regolare tra X e XIII secolo

coordinatore Umberto Longo ………..…… 217 17. Archivi rurali nel tardo medioevo italiano

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coordinatore Alfio Cortonesi ………..……….… 243 19. Frammenti dentro le mura: spazi cittadini tra conflitto e politica

coordinatore Francesco Poggi ………. 267 20. Crisi di legittimità nel Regno di Napoli: pratiche politiche

e rappresentazioni culturali nel Mezzogiorno aragonese

coordinatore Roberto Delle Donne ………. 291 21. Vincitori e vinti: ritratti dall’espansione carolingia

coordinatore Francesco Borri ……….. 311 22. Disobbedire nella Chiesa: discorsi, conflitti e gerarchie tra Alto

e Basso Medioevo (IX-XIII secolo)

coordinatore Francesco Cissello ………..… 329 23. Documentazione e classificazione sociale nell’Italia tardomedievale

coordinatore Massimo Vallerani ………... 339 24. Ospedali: attori economici di città e campagne nel medioevo

coordinatrice Marina Gazzini ………..…… 355 25. Le dinamiche del consenso (2). Governance cittadina, spazi urbani,

comunità religiose

coordinatore Roberto Lambertini ……… 375 26. I domini del principe di Taranto in età orsiniana. Un progetto

(e un percorso) di statualità nell'Italia del XV secolo: istituzioni centrali, governo del territorio, ricadute sulle realtà locali

coordinatore Francesco Somaini ………... 389 27. Le altre migrazioni II. La mobilità dei morti tra tarda antichità e

alto medioevo (secoli VI-X)

coordinatore Francesco Veronese ……… 417 28. Strategie del consenso. Trattatistica e predicazione al servizio della governabilità

coordinatrice Maria Giuseppina Muzzarelli ……… 435 29. La ricerca prosopografica nella storia delle élites intellettuali

nel tardo medioevo: dalla letteratura erudita ai database

coordinatrice Stefania Zucchini ………... 451 30. Struttura economica e spazi commerciali di Venezia nel Medioevo: secoli XII-XIV

coordinatore Bruno Figliuolo ……….. 473 31. Deliberazioni urbane, crisi e cambiamenti di regime nell’Europa mediterranea

(secoli XIII-XV)

coordinatore Pierluigi Terenzi ………. 493 32. Curare i corpi, salvare le anime: pratiche testamentarie, fondazioni monastiche,

assistenza ospedaliera e dimensione urbana nella Sicilia tardo medioevale

coordinatrice Patrizia Sardina ……….. 509 33. Beni pubblici e politica regia nel Regno Italico I. Beni pubblici e politica

regia nel regno Italico. Patrimonio fiscale, monasteri e azione regia nell’Italia del nord (secoli IX-X)

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34. Costruzione del consenso, imposizione dell’assenso. Il Concilio di Basilea e i suoi protagonisti

coordinatrice Daniela Rando ………... 555 35. E pluribus unum. Per una ricostruzione degli archivi medievali degli ordini religiosi

coordinatrice Olivetta Schena ……….. 557 36. Alla conquista dei mercati. Formazione e affermazione delle eccellenze

produttive toscane nel tardo Medioevo

coordinatore Franco Franceschi ………... 559 37. Consociazioni familiari in ambito cittadino bassomedievale:

tra parentela e politica

coordinatrice Paola Guglielmotti ……….… 573 38. Penisola italiana ed Europa centroorientale nel Medioevo:

economia, società, cultura

coordinatore Andrea Fara ………..…….. 585 39. Beni pubblici e politica regia nel Regno Italico II. Il governo imperiale

degli Svevi in Toscana: base fondiaria e prassi politiche

coordinatore Simone M. Collavini ………... 607 40. Il governo episcopale e la definizione dei suoi spazi nel basso medioevo italiano

coordinatore Nicolangelo D’Acunto ………... 627 41. Le dinamiche del consenso (1). Forme di rappresentanza dell’impero

e del papato nell’Italia padana (sec. XII)

coordinatrice Maria Pia Alberzoni ………... 635 42. I mercanti di Lucca nel network europeo di Bruges nel tardo medioevo:

affari e politica

coordinatrice Laura Galoppini ……….……… 647 43. Artigiani e politica nelle città del basso Medioevo. Qualche esempio

fra Italia e Francia

coordinatrice Elisa Tosi Brandi ……….…..… 659 44. La famiglia bizantina. Scritture e pratiche del ricordo

coordinatore Salvatore Cosentino ………..………..… 679 45. L’élite dei papi: forme di riproduzione sociale e identità familiare

a Roma dall’VIII al X secolo

coordinatrice Maddalena Betti ………...……..… 691 46. Linguaggi religiosi e potere nel Medioevo tra Oriente e Occidente (Secoli IX-XIV)

coordinatore Raffaele Savigni ………...…….. 713 47. Gli usi politici dell’Antichità romana nel Medioevo (nell’età tardomedievale)

coordinatori Florent Coste e Carole Mabboux ………...… 747 48. Problemi e paradigmi italiani nella storiografia iberoamericana

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coordinatore Nicola Mancassola discussant Paola Galetti

Breve sintesi: La sessione che si propone all’interno del I Convegno SISMED della Medievistica

Italiana si pone come obiettivo quello di analizzare l’articolazione della società cittadina prima della nascita dei Comuni (IX-XI secolo). Focalizzando l’attenzione su alcuni significativi casi campione (Piacenza, Reggio Emilia e Ravenna) si cercherà di delineare la struttura dei principali gruppi cittadini che coadiuvarono prima gli ufficiali pubblici poi il vescovo nella gestione della città. Attraverso lo studio dei legami clientelari, delle forme associative informali, dei gruppi di potere e via dicendo sarà possibile porre in luce i meccanismi che regolarono l’amministrazione del nucleo urbano prima della nascita formale del Comune.

Nello specifico il caso di Piacenza verterà sullo studio della società cittadina in età carolingia. L’elevato numero di fonti documentarie a disposizione permette infatti di seguire da vicino l’articolazione del tessuto sociale urbano, mettendo in evidenza le strategie di precisi gruppi di individui operanti all’ombra del vescovo, degli ufficiali pubblici o delle principali istituzioni religiose (in particolare la chiesa di Sant’Antonino e il monastero di San Sisto). Ma non solo. In taluni casi il grado di analisi potrà essere più elevato, riuscendo a ricostruire le vicende di alcuni individui e del loro gruppo famigliare per più generazioni, con un taglio diacronico di grande interesse.

L’esempio di Ravenna sposterà l’attenzione su un periodo cronologico successivo (X-XI secolo), cercando di tratteggiare la composizione della società urbana precomunale, le principali funzioni (anche economiche) svolte dalle varie componenti sociali e quali relazioni intrattennero con il vertice del potere cittadino. In particolar modo si cercherà di delineare sia il ruolo della tradizionale componente signorile cittadina, sia il peso sempre crescente dei negotiatores che in questo centro urbano paiono aver avuto un ruolo di primo piano nella società urbana precomunale.

Infine, il caso di studio di Reggio Emilia avrà come obbiettivo quello di ricostruire i tratti caratteristici della società cittadina nel periodo compreso tra l’XI e gli inizi del XII secolo. Lasciando sullo sfondo le vicende della famiglia dei Canossa, si tenterà di ricostruire attraverso l’uso di fonti perlopiù inedite la composizione della società cittadina precomunale, il rapporto tra i cives, gli enti religiosi urbani e le famiglie dei milites rurali, i processi di inurbamento anteriori alla costruzione del distretto cittadino, e, infine, il complesso ruolo della città nel conflitto tra Papato e Impero.

Nomi dei partecipanti: prof.ssa Paola Galetti, (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna),

dott. Nicola Mancassola, (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), dott. Marco Cavalazzi, (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), dott.ssa Mila Bondi, (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna)

Discussant: prof.ssa Paola Galetti Relazioni: dott. Nicola Mancassola, Piacenza in età carolingia.

Articolazione sociale e struttura della comunità cittadina; dott.ssa Mila Bondi, La città di Ravenna prima del Comune (X-XI secolo); dott. Marco Cavalazzi, La società cittadina reggiana in epoca pre-comunale (XI-inizi XII sec.).

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Piacenza in età carolingia. Articolazione sociale e

struttura della comunità cittadina

di Nicola Mancassola

Questo contributo raccoglie la relazione tenuta nel convegno “I Convegno SISMED della medievistica italiana”, Bertinoro, 14-16 giugno 2018 all’interno del panel Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo).

Il contributo corrisponde al testo letto durante la conferenza, con piccoli aggiustamenti di forma senza i riferimenti bibliografici e il rimando alle fonti.

Nonostante questi limiti, la scelta di pubblicare sul web il contributo è stata spinta dal fatto che si ritiene il quadro generale ricostruito un significativo tassello per la comprensione dell’articolazione sociale e della struttura della comunità cittadina di Piacenza in età carolingia.

L’impegno è quello di procedere a breve all’edizione dell’articolo completo di cui questo contributo costituisce dunque una prima anticipazione.

Premessa

L’elevato numero di fonti documentarie di età carolingia relative alla città di Piacenza e una prassi notarile che di sovente esplicitava il luogo di residenza dei vari soggetti coinvolti nel negozio giuridico, rende questo centro urbano un caso di studio privilegiato per un’indagine sulla società cittadina.

Attraverso una schedatura sistematica di tutti gli individui attestati tra il 774 e il 900, si è potuto ottenere una vasta banca dati che ha permesso di seguire da vicino le vicende non solo di numerosi cittadini, ma anche di un numero non trascurabile di famiglie per più generazioni.

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

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Nonostante ciò, alcune zone d’ombra e difficoltà permangono. Se, come detto, i notai piacentini furono generosi di informazioni sul luogo di residenza, ciò rimane una tendenza e non una regola fissa. O meglio una regola che venne meno in determinate circostanze. Quando a caratterizzare l’individuo furono infatti altri fattori i notai omisero il luogo di provenienza. Ciò vale per i soggetti in grado di firmare in maniera autografa, per alcune classi di artigiani, per i funzionari pubblici, per i notai e via dicendo. Una vasta fetta della popolazione risulta quindi nascosta. Per stanarla bisogna operare un’indagine più ampia che incroci vari elementi quali le reti sociali, il luogo di redazione dell’atto, il notaio estensore, gli enti o le persone coinvolte, la presenza o meno di beni urbani o prossimi alla città. In tal modo, pur con un margine di incertezza non del tutto superato, è stato possibile ricostruire con più organicità il tessuto sociale urbano.

In questa sede si proporranno alcuni filoni di ricerca funzionali ad un primo inquadramento della questione che, alla prova dei fatti, appare molto complessa e non sempre di facile lettura.

Dovendo padroneggiare una mole notevole di dati, si sono rese necessarie alcune scelte, così che dalla narrazione storica proposta sono stati messi da parte tutti i religiosi. Assieme ad essi non tratteremo il fenomeno di inurbamento dei possessores rurali, poiché spesso avvenne inserendo un membro della propria famiglia all’interno delle gerarchie ecclesiastiche cittadine e quindi non può essere analizzato senza una parallela indagine sugli ecclesiastici di Piacenza. Lasceremo sullo sfondo anche il ruolo del culto dei santi e delle chiese cittadine nella formazione dell’identità urbana, tema ben analizzato sia a livello generale, sia a livello locale. L’oggetto della ricerca non verterà neppure sulle istituzioni cittadine in quanto tali. Anche in questo caso, si tratta di un tema con una solida e condivisa tradizione di studi alla spalle.

Quello su cui invece si focalizzerà l’attenzione è il tessuto sociale urbano (quello che nella tradizione storiografica relativa ai secoli IX e X viene definito collettività urbana o cittadinanza) che gravitava attorno a queste istituzioni e che costituiva il cuore pulsante della città, ma che per l’età carolingia, a differenza che per il secolo successivo, di rado è stato oggetto di un autonomo studio. In accordo con questa impostazione alcune domande hanno indirizzato la ricerca.

Esisteva un’unica accezione di comunità urbana oppure dobbiamo declinare il termine comunità al plurale?

Quale era la composizione sociale della città di Piacenza in età carolingia? Quali le funzioni e le reti clientelari di alcuni tra i più attivi cittadini?

Quali le capacità di esprimere decisioni politicamente rilevanti dei ceti preminenti?

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Un'unica comunità o più poli identitari? Alcune considerazioni sul tessuto insediativo della città di Piacenza

Ad una prima, generale analisi possiamo notare come gli abitanti della città si identifichino in due blocchi distinti: da un lato abbiamo gli uomini e le donne che risiedevano all’interno delle antiche mura di età romana. Costoro, nella maggior parte dei casi, utilizzarono le formule de civis Placencia, de Placencia, abitatores intra civitate Placencia, e assai più di rado si premurarono di dare una definizione più specifica: de Domo per chi proveniva dall’area della cattedrale, de Foro per chi proveniva dall’antico Foro romano, De Porta Mediolanensis, De Porta Nova, De Porta Pusterola, De Porta Sancti Laurencio per chi proveniva dalle porte urbiche.

Ma al di là di queste sporadiche, anche se importanti attestazioni, l’identità cittadina pare prevalere sulle insulae insediative, segno di individui che si riconoscevano in maniera unitaria come coloro che vivevano all’interno delle antiche mura. Significativo poi il fatto che nella definizione del luogo di provenienza, che di sovente esprimeva anche la comunità di appartenenza, non si facesse mai riferimento in maniera esplicita alle numerose chiese urbane. Ciò suggerisce come le istituzioni religiose, per quanto importanti nella formazione dell’identità cittadina, non fossero l’unico fattore in campo. Anzi la menzione delle porte urbiche, sebbene episodica, lascia trasparire come il controllo dell’accesso alla città e la sua difesa militare dovettero rivestire un ruolo tutt’altro secondario nella creazione di un comune senso di appartenenza.

Ma accanto alla Piacenza in senso stretto sorta sulle vestigia del vecchio municipio romano, si collocava anche il sobborgo di Strada. Dotato di una forte identità e di una densità demografica rilevante, il sobborgo si sviluppò nei pressi della chiesa di Sant’Antonino e prese il nome dall’asse viario che costeggiava Piacenza da Sud-Ovest ad Est (la via Francigena).

Nettamente di minore importanza pare un altro sobborgo cittadino, quello di Sancta Brigida posto ad ovest della città, così come dal punto di vista demografico e dell’identità cittadina non pare aver avuto alcun peso (almeno nel IX secolo) il monastero di San Sisto di Piacenza, forse perché da poco fondato (874) e forse perché espressione di un potere esterno alla città (l’imperatrice Angilberga).

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

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La composizione sociale della città carolingia

Definiti i poli insediativi di identità urbana, un ulteriore punto da mettere a fuoco è il peso delle varie componenti all’interno della società cittadina. Partiamo dagli artigiani.

Nella Piacenza carolingia si sono rintracciati individui dediti sia alla lavorazione di metalli preziosi aurifices, sia di metalli più comuni fabri o ferrari oppure specializzati in attività particolari come i monetieri e i marescalci. Accanto a costoro erano presenti artigiani impiegati nella lavorazione, trattamento e confezionamento di pelli e tessuti: calegari, fulli e sarti oltre a individui a vario titolo coinvolti nella lavorazione dei prodotti alimentari: cogus, mulinarius, prestinarius.

In questo scenario colpisce la totale assenza di negotiatores. E colpisce ancor di più se si pensa alla posizione strategica di Piacenza lungo le principali direttrici viarie della pianura padana e al ruolo commerciale della città confermato dai tre grandi mercati annuali e dai tre porti lungo il fiume Po. Ancora una volta si pone dunque il problema di quanto le fonti in nostro possesso possano essere utili per definire con precisione la composizione sociale urbana, visto che a rigor di logica pare difficile ipotizzare che in età carolingia a Piacenza e nel suo comitato non esistesse neppure un minimo gruppo di persone dedite principalmente ad attività commerciali.

Legati ai vertici del potere pubblico o religioso erano due precisi gruppi sociali, talvolta coincidenti, quello dei vassalli e dei franchi.

I vassalli appaiono con una certa frequenza nella città di Piacenza e sebbene non venga mai detto il loro luogo di residenza, il fatto di trovarli nel centro urbano nelle più svariate circostanze suggerisce come qui si sviluppasse buona parte del loro spazio di azione sociale. Interessante da un punto di vista cronologico rilevare un loro deciso aumento nell’ultimo quarto del IX secolo, segno di una marcata diffusione dei rapporti vassallatico beneficiari.

Analogo discorso può essere fatto anche per gli individui professanti la legge salica che costituirono un nucleo rilevante all’interno della città. Favoriti dal fatto che per i franchi i notai furono più prodighi di informazioni sul luogo di residenza, possiamo notare come costoro si distribuirono in maniera omogenea nella città, essendo ben attestati sia in Placencia, sia nel sobborgo di Strada, indice di un loro capillare radicamento nel tessuto sociale cittadino.

Anche se numericamente poco rilevanti un peso specifico notevole lo dovettero avere i funzionari pubblici maggiori (conti, visconti, locopositi) e minori (scabini) sebbene accanto a loro e accanto alle istituzioni religiose cittadine non emerga ancora un significativo gruppo di individui esperti di diritto (nella più ampia accezione possibile del termine).

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I notai, infatti, appaiono coinvolti nella vita sociale della città di Piacenza grossomodo con la stessa frequenza e gli stessi ruoli dei ceti più importanti, ma non sembrano svolgere in maniera esclusiva alcune funzioni specifiche, ad eccezione, ovviamente, di quella di redattori di negozi giuridici.

Al di là dei notai non si notano altri soggetti esperti di diritto visto che gli advocati risultano perlopiù radicati sul territorio e non in città e i giudici regi o imperiali sono ancora espressione esterna alla collettività cittadina. Un nucleo locale di giudici comincerà, infatti, a prendere forma agli inizi del X secolo, quando verrà meno la figura degli scabini. Il caso dello scabino Grasevertus (880-892) e di suo figlio Grasebertus (913-938), dapprima anch’esso scabino e poi iudex domni regis ben esemplifica il processo in atto.

Mettendo insieme i dati raccolti, possiamo quindi rilevare come emerga un tessuto sociale cittadino piuttosto articolato. Accanto a funzionari pubblici maggiori e minori e ai vertici della chiesa cittadina si delinea un nucleo significativo di franchi e vassalli che costituirono una componente di peso soprattutto nell’ultimo quarto del IX secolo.

Più in ombra paiono invece rimanere i notai attestati come estensori di negozi giuridici, con un coinvolgimento nella norma all’interno delle dinamiche della società cittadina.

Non trascurabile fu il ruolo degli artigiani sia di alto, sia di basso profilo, attestati con costanza, sebbene non sempre con frequenza.

Decisamente inferiore fu invece il peso della componente mercantile che, se divenne un tratto caratteristico della società piacentina di X secolo, in età carolingia pare rimanere nell’ombra.

A tutti costoro va infine aggiunto il nutrito gruppo di religiosi delle chiese e dei monasteri cittadini e suburbani che parteciparono attivamente alla formazione e trasformazione della collettività cittadina, ma alla cui analisi si demanda in altra sede.

Questo quadro per quanto significativo e per quanto metta in evidenza le principali tendenze in atto, a ben vedere risulta lacunoso. Sono, infatti, ancora esclusi dalla narrazione storica tutti quei cittadini di Piacenza (di fatto la maggior parte di quelli attestati nelle fonti scritte) privi di qualifica e genericamente connotati come de civis Placencia o de Strada.

Chi erano costoro? Che ruolo avevamo nel tessuto sociale cittadino? Quale era la loro principale fonte di reddito?

Patrimoni e funzioni sociali dei cives: considerazioni generali e alcuni casi di studio

Da un punto di vista patrimoniale si rileva come i beni in possesso di questi cives si differenziassero in due precise categorie: urbani e rurali.

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

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Le proprietà poste all’interno della città o negli immediati sobborghi erano formate quasi esclusivamente da abitazioni, mentre assai rari erano i terreni destinati ad usi agricoli.

Questi ultimi erano invece ubicati con maggior densità nella campanea e nei pratas Placentini, ovvero nella pianura che, avendo come limite settentrionale il fiume Po, si sviluppava tutto attorno al nucleo urbano. Ma non solo. Arativi, vigne, oliveti e prati si trovavano anche più lontano, fino ad arrivare ai rilievi collinari e alla bassa pianura lungo il Po.

Spesso vennero specificate le dimensioni di tali poderi, così che è possibile avere un’idea concreta di questi patrimoni. Nessuno civis possedeva grosse aziende fondiarie (curtes). Tuttavia alcuni disponevano di beni non trascurabili (tra cui un mulino). Altri operarono un investimento patrimoniale in colture specialistiche.

Nella primavera dell’878 i cugini Gumfredus e Sunivertus de Strada ottennero in livello un uliveto nell’alta valle del Nure. Essendo altamente improbabile che i due individui coltivassero direttamente il podere, distante oltre 45 km in linea d’aria da Piacenza, è verosimile che gli stessi si avvalessero di propri servi o altra manodopera, ottenendo comunque un profitto che è facile credere fosse olio da smistare nei mercati cittadini.

In città, sempre a rigor di logica, affluirono, nelle abitazioni dei cives anche il vino e i cereali delle loro proprietà rurali (la presenza di numerosi piccoli poderi, l’assenza di case all’interno delle loro proprietà rurali, la mancanza di aziende curtensi decentrate sul territorio paiono confermare questa ipotesi). Resta però da capire se tali derrate servissero al solo fabbisogno famigliare o poco più (in tal caso saremmo in presenza di coltivatori diretti di fatto residenti in città e non sul territorio) oppure travalicassero queste esigenze, costituendo un surplus da rimettere in circolazione e da cui trarre una qualche forma di profitto. Gli elementi per andare in questa direzione non sono molti. Tuttavia in alcune, poi non così rare circostanze l’azzardo può essere fatto.

Prendiamo ad esempio Prosperius. Nell’estate dell’889 comprò da Lupus, per una discreta cifra (20 soldi) una casa fuori le mura di Piacenza, che andava ad aggiungersi a quella dove già abitava, (la famiglia di Prosperius viveva a Piacenza almeno da una generazione) e un campo di circa uno iugero a Viscaria nei Prata Placentina. Qui doveva trovarsi un più ampio nucleo patrimoniale, visto che nella stessa località aveva beni anche Lupus il padre di Prosperius. L’impressione è dunque quella di essere di fronte ad un gruppo famigliare con una discreta liquidità, in grado di implementare il proprio patrimonio immobiliare urbano e quello fondiario rurale. Difficile quindi pensare a coltivatori diretti. Arduo però comprendere da dove arrivasse questa disponibilità economica. In parte essa poteva certamente provenire dal surplus agricolo generato dalle proprietà

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rurali, rimanendo però impossibile capire se fosse l’unica fonte di reddito oppure ne costituisse solo una parte, in questo caso quanto rilevante?

Spostando ora il piano della ricerca, focalizziamo l’attenzione sulle funzioni sociali di questi cives, aspetto su cui le fonti scritte sono piuttosto generose di informazioni.

In prima battuta si osserva come furono coinvolti capillarmente nella vita cittadina. Li troviamo infatti attestati fra i testimoni sia di transazioni di beni cittadini, sia di beni rurali, fra i periti chiamati in causa nelle permute, come fra gli astanti ai placiti e via dicendo. Una pluralità di funzioni che mette in luce una classe di cives eterogenea, dove trovano spazio sia piccoli allodieri attestati solo in veste di testimoni di negozi giuridici ordinari, sia persone di più alto livello, chiamate in causa in situazioni più complesse (fino al massimo grado del placito) e operanti in accordo con i vertici delle istituzioni civili o ecclesiastiche della città. Tra questi ultimi un ruolo di primo piano lo rivestirono coloro in grado di sottoscrivere l’atto in maniera autografa, individui sicuramente di alto rango sociale e dotati di una grande autorevolezza in seno alla società cittadina. Alcune vicende personali possono chiarire meglio la questione.

Legato ai funzionari pubblici e alla componente franca risulta Adrevertus de civis Placencia. Egli appare per la prima volta nell’estate dell’861 come testimone in un livello che vedeva coinvolto il locopositus Gaiderisisus. Lo troviamo poi nella primavera dell’873 in veste di perito in una permuta svolta dal vescovo di Piacenza, che agiva per conto dello xenodochium fondato dal fu Ratcausus. Non sappiamo chi fosse questo Ratcausus, ma il fatto che tale nome rientrasse più volte nel gruppo famigliare del locopositus Gaiderisisus (nonno e fratello), forse è più che una semplice coincidenza. Due anni dopo, nell’estate dell’875, Adreveertus assieme al figlio Domninus svolse il ruolo di fideiussore, garantendo un uomo libero chiamato a testimoniare in un processo a favore del franco Guntardus. Nell’inverno dell’878 eccolo riapparire, sempre assieme al figlio, come testimone in una compravendita di beni urbani che vide coinvolti un nutrito gruppo di franchi e cittadini di Piacenza. Nell’autunno dell’883 lo troviamo tra i testimoni di una vendita di beni urbani. In questa circostanza il contesto pare rimandare a soli cives. Tuttavia a ben vedere si tratta solo di un’impressione. Infatti i beni oggetto della compravendita in origine appartenevano ad una coppia di coniugi di legge salica. L’ultima sua attestazione, assieme al figlio, risale invece alla fine del IX secolo quando appare tra i testimoni di una vendita di beni rurali non lontano da Piacenza. Da tutti questi elementi, Adrevertus risulta quindi muoversi prevalentemente in città o nella campagna circostante e risulta legato a funzionari pubblici e franchi, costruendo il suo prestigio sociale in concerto con questi gruppi, pur non essendo egli di legge salica. Del tutto trascurabili appaiono invece i rapporti

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

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con le istituzioni religiose della città. Interessante infine notare come questo ruolo si trasmetta di padre in figlio. Abbiamo già visto più volte Domninus agire a fianco del genitore, ma egli si mosse anche in maniera autonoma. Ancora vivo il padre lo troviamo, infatti, tra i testimoni di un importante placito che riguardava la proprietà di beni urbani.

Un percorso diverso seguì invece Madelbertus abitator in civitate Placencia. Nell’892 lo troviamo presente in tre atti distinti. Nell’inverno apparve tra i testimoni di una importante investitura di beni da parte del vescovo di Piacenza ai canonici della cattedrale. Nella primavera tra i testimoni di una divisione di beni da parte di alcuni sacerdoti di Sant’Antonino. Infine nell’inverno rivestì il ruolo di perito in una permuta di beni urbani e rurali tra il vescovo di Piacenza e i canonici della cattedrale. Da questi elementi appare quindi un percorso analogo e antitetico a quello prima discusso di Adrevertus. Analogo in quanto entrambi riuscirono a godere di un alto prestigio sociale e analogo in quanto entrambi operarono prevalentemente in ambito urbano o nei dintorni della città. Antitetico poiché diverse erano le strade intraprese: Madelbertus infatti sviluppò la sua rete sociale legandosi esclusivamente alle istituzioni religiose cittadine.

I due casi di studio trattati non esauriscono di certo tutte le possibili strategie in campo, numerosi altri esempi potrebbero essere proposti. Come quello di Vidalis che basò la sue rete sociale esclusivamente sulla chiesa di Sant’Antonino. Quello di Daniel de Strada e di suo figlio Placentinus che seppero legarsi sia a gruppi di franchi, sia alle maggiori chiese cittadine. Quello di Warimbertus che divenne uomo di fiducia del presbiter di Sant’Antonino Agustinus e molti altri ancora, sviluppando relazioni complesse che bene emergono quando è possibile seguire per più generazioni le sorti di uno stesso gruppo famigliare.

Decisioni politicamente rilevanti dei ceti preminenti: l’elezione del vescovo Guido

Per concludere ci si vuole soffermare su un documento che costituisce un unicum ovvero l’atto dell’elezione del vescovo Guido1.

Siamo nel 904, da poco a causa della morte di Everardo la diocesi di Piacenza è priva del suo Pastore, così che clero e popolo (cleri populive) si riuniscono e di comune accordo eleggono Guido, vescovo di Piacenza.

1 Sull’elezione del vescovo Guido è in fase avanzata di redazione uno specifico articolo in cui

oltre ad una dettagliata analisi del contesto sociale di riferimento si proporrà un’edizione critica del documento.

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Suggella il decreto di elezione una nutrita schiera di testimoni suddivisi tra 44 religiosi e 28 laici.

Il documento edito dal Campi nel 1651 non è certamente ignoto agli studiosi, tuttavia, per quanto riguarda i temi trattati in questa sede, ci si è sempre limitati a constatarne l’eccezionalità.

Senza entrare nel merito della figura del vescovo Guido (904-940) che necessiterebbe di una specifica e complessa trattazione e che rappresenta uno dei vescovi più importanti della prima metà del X secolo dell’area padana, quello su cui ci si vuole soffermare è l’elenco dei sottoscrittori l’atto. Molto spesso si è stati in grado di rintracciare questi individui in altre fonti coeve, permettendo così di capire quali fossero i loro legami sociali e il loro ruolo all’interno del tessuto cittadino. In questo modo è stato possibile comprendere meglio il decreto di elezione, evidenziando quale fu la componente cittadina in grado di esprimere o comunque di partecipare ad una decisione così importante per la collettività urbana.

Tralasciando i religiosi, vediamo chi erano questi individui. L’unico rappresentate del potere pubblico pare essere lo scabino Nortarus, il che lascia aperta l’ipotesi che l’elezione del vescovo potesse essere avvenuta in assenza di un comes, visto che l’ultima attestazione del conte Sigefredus risale proprio al 904. Accanto allo scabino si segnala anche la presenza del notaio Adalbertus. Nutrita fu la partecipazione di franchi all’atto. Ad oggi si sono identificati Rahinardus, Odelbertus, Gariveretrus, Andreas, Albericus, Rotbertus, Froterius, 3 di loro (Albericus, Rotbertus, Froterius) già vassalli del precedente vescovo Everardo. Questa constatazione oltre a testimoniare un ruolo attivo nella vicenda di tale gruppo etnico, indica anche come la precedente rete clientelare del defunto presule avesse ancora una voce in capitolo.

Questo stretto legame tra franchi, vescovo Everardo e la rete clientelare da lui costruita pare essere l’elemento costante anche per gli altri individui presenti all’elezione di Guido. Pur con storie e peso sociale differente, si tratta, infatti, di soggetti residenti a Piacenza che avevano avuto relazioni stabili con franchi, con vassalli del vescovo e, nei casi più significativi, con il presule stesso. Ma non solo. Oltre a ciò potevano vantare anche frequentazioni con funzionari pubblici maggiori (conte, conte di palazzo, visconte) e con la canonica della cattedrale di Santa Giustina.

Un aspetto significativo è il fatto che questa rete, soprattutto quella vassallatico-beneficiaria, si fosse sviluppata con forza proprio con l’avvento alla cattedra episcopale di Everardo. Solo dal suo insediamento, infatti, le menzioni di vassalli vescovili si moltiplicarono, segno di una strategia consapevole e che alla prova dei fatti si dimostrò vincente.

In un periodo di debolezza del potere regio e forse di vacanza della sede comitale, ad esprimere o comunque a ratificare la scelta del nuovo vescovo fu

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dunque la componente franca locale e tutta quella rete clientelare di cives di Piacenza che attorno ad essa si era costituita sotto la regia del precedente vescovo. Tale rete clientelare risultò molto solida e coesa, dimostrando di non subire il contraccolpo della morte del presule e evidenziando una capacità politica notevole. Il nuovo vescovo, anche se fosse stato imposto dall’esterno per decisione regia, si trovò quindi ad operare all’interno di un perimetro già ben marcato.

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La società cittadina reggiana in epoca pre-comunale

(XI-inizi XII sec.)

di Marco Cavalazzi

Questo contributo raccoglie la relazione tenuta nel convegno “I Convegno SISMED della medievistica italiana”, Bertinoro, 14-16 giugno 2018 all’interno del panel Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo).

Il contributo corrisponde al testo letto durante la conferenza, con piccoli aggiustamenti di forma senza i riferimenti bibliografici e il rimando alle fonti.

Nonostante questi limiti, la scelta di pubblicare sul web il contributo è stata spinta dal fatto che si ritiene il quadro generale ricostruito un significativo tassello per la comprensione dell’articolazione sociale e della struttura della comunità cittadina di Reggio Emilia alle soglie del basso Medioevo.

L’impegno è quello di procedere a breve all’edizione dell’artico completo di cui questo contributo costituisce dunque una prima anticipazione.

Premessa

Per compiere questa ricerca è stato analizzato un discreto numero di atti privati, poco più di 400 documenti pergamenacei conservati in particolare presso gli archivi dei monasteri cittadini (quello femminile di S. Tommaso e quello maschile di S. Pietro e S. Prospero fuori le mura); i documenti della canonica della cattedrale di Reggio Emilia e quelli della canonica di S. Prospero in Castello, la seconda canonica urbana.

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Due i principali limiti di questa ricostruzione: il primo è la perdita di parte di alcuni archivi. La mancanza principale riguarda la canonica di san Prospero, spesso interprete delle istanze delle élite urbane. Il ruolo di questo istituto nella vita sociopolitica cittadina rimane in gran parte sconosciuto per l’XI secolo. Il secondo limite è di natura più generale, riguardante una parte consistente di questa ricerca, cioè quella prosopografica: le famiglie appartenenti al gruppo giuridico-notarile (iudices, avvocati e notai) tardarono a definire appellativi familiari contraddistintivi; la cosa si registra in modo più diffuso solo nel corso del secondo quarto del XII secolo, quando anche queste incominciarono a riconoscersi in genere in un eponimo. Il processo è invece più precoce per le famiglie aristocratiche dei milites rurali, che già nel corso della seconda metà dell’XI secolo incominciarono a identificarsi in genere con il toponimo che contraddistingueva la località al centro del loro potere territoriale.

Nella prima parte della relazione ci soffermeremo sulla conformazione della topografia urbana, così come è possibile ricostruirla sulla base dei dati desunti dalle fonti scritte incrociati con i dati archeologici e gli studi pregressi, al fine di verificarne il rapporto con i fenomeni socio-economico-politici che illustreremo in seguito.

Nell’XI secolo i luoghi che polarizzavano lo spazio urbano reggiano erano essenzialmente sei. All’interno dell’area del castrum vescovile (una porzione di tessuto cittadino fortificato nel corso del X secolo) si trovavano la cattedrale e il palazzo vescovile. Si collocavano nei loro pressi anche due canoniche urbane: la più antica, quella della cattedrale, già attestata alla metà del IX secolo e detta di S. Maria e S. Michele; e quella più recente, la canonica della Basilica di S. Prospero in Castello, risalente alla fine del X secolo. Almeno a partire dal 1006, all’esterno della città, sorse invece il monastero di san Prospero fuori le mura, altro ente religioso che polarizzò la vita cittadina reggiana del periodo, posto dal 1057 sotto la diretta protezione papale. Il più antico cenobio reggiano fu però il già citato monastero di S. Tommaso forismurascivitatis Regi, noto a partire dall’835.

Nell’XI secolo la città di Reggio Emilia si trovava allo stadio finale di un processo di contrazione insediativa che aveva preso le mosse dal fenomeno di disgregazione della città antica di età romana. Anche per Reggio calza la definizione di città contratta, già utilizzata in altre sedi per indicare un fenomeno di riduzione dello spazio urbano insediato nel corso dei secoli altomedievali.

I documenti di XI secolo infatti, parlano di una civitasvetus, una città vecchia, riferendosi ai resti della città di età romana, che si distingueva dalla civitas Regi vera e propria, la città altomedievale murata. Nella civitasvetus si trovava per esempio il monastero di S. Tommaso, detto infatti in civitateveterepropecivitate Regi.

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Simile collocazione topografica venne utilizzata anche per il monastero di S. Raffaele, altro cenobio periurbano, quando, nel 1074, insieme a S. Tommaso venne detto foris Regio.

La situazione sembra iniziare a mutare dalla fine dell’XI secolo, quando la città fu sottoposta a un processo di crescita urbanistica.

Il monastero di S. Tommaso, dagli anni ’90 dell’XI secolo venne posto, non più foris Regio, ma in suburbio Regio. In quel periodo, infatti, un burguscivitatis Regi sorse intorno a esso, borgo poi detto di S. Pietro. Compare nella documentazione di quegli anni anche un burgus S. Nazarii, nei pressi del precedente, sempre a nord del castrum vescovile. Lo stesso monastero di S. Prospero fuori le mura, più decentrato di S. Tommaso rispetto alla città altomedievale, risulta essere il centro di un sobborgo cittadino già dai primi decenni del XII secolo, il burgusS.tiProsperi.

Va detto che, come avvenuto per altre città, come per esempio Pisa, il progredire delle indagini archeologiche e la messa a sistema di questi dati ha permesso di sviluppare l’idea non tanto di una città contratta, ma piuttosto polinucleata, in cui vari centri economico-politici e istituzionali, come chiese e mercati, permisero la nascita di veri e propri quartieri urbani, in una sorta di città fatta di isole insediative, sottoposte a progressiva conurbazione. In effetti, la Reggio che venne cinta da mura nel corso del XIII secolo era ormai un organismo molto più complesso rispetto a quello tratteggiato, il prodotto di una crescita vertiginosa per la quale la città più che quintuplicò l’area difesa dalle mura altomedievali, in un trend di crescita che l’accumunò ad altre città della penisola centro-settentrionale.

In sintesi, se quindi il cuore cittadino nel corso dell’XI secolo era costituito dal castrum vescovile e dalla città altomedievale, possiamo tuttavia rinvenire nelle fonti di quel periodo una progressiva crescita dello spazio urbano e l’affermazione di poli secondari, sorti in genere presso gli enti religiosi, capaci anche, come vedremo, di influenzare vari aspetti della sociabilità della comunità urbana.

La composizione della società cittadina reggiana

La seconda parte di questo intervento sarà indirizzata a definire i tratti contraddistintivi della società cittadina reggiana e alcuni fenomeni che paiono essere stati particolarmente caratterizzanti.

Il primo aspetto che desidero affrontare è quello della composizione delle élite cittadine.

Due sono i gruppi principali a capo della vita cittadina: quello giuridico – notarile, composto da iudices, avvocati e notai e quello dell’aristocrazia militare,

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legata in particolare al vescovo reggiano, ma non solo, e che possedeva beni in città o si legava agli enti religiosi cittadini. La componente commerciale e artigianale rimase esclusa dalla documentazione, almeno fino agli anni 30-40 del XII secolo, probabilmente non perché fosse assente del tutto in città, ma piuttosto per l’incapacità di accedere alla documentazione scritta o per la scelta dei suoi membri di non definirsi negotiator o artigiano nel documento scritto.In qualsiasi caso, in passato sono stati chiamati in causa due fattori per spiegare il ritardato sviluppo economico-commerciale della Reggio medievale: il primo, la difficoltà del Vescovo e delle élite reggiane nel garantirsi uno sbocco commerciale stabile e sicuro sul Po; il secondo l’impervietà e la perifericità dei valichi appenninici reggiani rispetto a quelli limitrofi, per esempio parmensi o bolognesi.

La base della ricchezza di queste élite fu dunque sempre la stessa: il possesso fondiario e la gestione di diritti e prerogative di tipo signorile. Anche le famiglie urbane del gruppo giuridico-notarile cercarono di reinvestire la loro ricchezza nel possesso della terra. Un caso interessante in tal senso: Domenico de civitate Regi, di certo prima del 1073, aveva acquistato da Enuvrardo da Antisica, membro di una famiglia rurale parmense in piena crisi in quel periodo, vari beni posti nella loro terra di origine, Antisica, località della media valle del torrente Parma, e in altre località tra cui la città di Reggio stessa. Tra i beni acquisiti in Antisica figuravano anche una chiesa e un castello. In questo caso quindi un membro della società urbana, apparentemente non precedentemente caratterizzato da particolari connotazioni aristocratiche, ottenne il controllo di terre rurali, ma anche, dobbiamo presuppore, di tutti i diritti civili e religiosi connessi al possesso di un castello e di una cappella rurale. Altro caso interessante di mobilità sociale all’interno delle élite urbane è quello della famiglia dei da Sesso; questi risultano apparentemente assenti dalla documentazione cittadina della prima metà dell’XI secolo. Si affermarono, però, fin dagli ultimi decenni di quel secolo nel vuoto lasciato dalla crisi di famiglie più antiche, come gli stessi da Antisica o i da Modolena, creando un nucleo di potere territoriale nella pianura immediatamente a nord-est della città, dove appunto si trovava la località di Sesso, e spingendosi fino alle propaggini orientali della pianura parmense. Grazie a un rapporto privilegiato con il monastero di S. Prospero di Reggio, instaurato fin dagli anni ’80 dell’XI sec., questa famiglia creò le basi politico-economiche per diventare uno dei principali attori della scena politica cittadina dei decenni successivi.

Al di là della permeabilità dei gruppi sociali descritti, aperti a nuovi ingressi, è comunque ravvisabile una sorta di gerarchizzazione trasversale delle élite urbane, sulla base della ricchezza e dei diritti signorili esercitati. Al vertice abbiamo le famiglie dell’aristocrazia di alto livello, come i da Correggio o la famiglia degli Arduini, conti di Parma. Gli elementi contraddistintivi di questo

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livello più elevato furono: il controllo di più castelli e di ampi patrimoni fondiari, spesso dislocati in aree geografiche diverse, anche esterne al Reggiano; l’esercizio di poteri pubblici che si accompagnavano a titoli comitali. Questi personaggi instaurarono rapporti clientelari con gli enti religiosi cittadini, in particolare il monastero di S. Prospero e la canonica della cattedrale, a volte anche in conseguenza di rapporti con la chiesa reggiana, come vale,ad esempio, per il conte Uberto, fidelis matildico figlio di Arduino conte parmense. Interessante anche il caso dei da Correggio, comites legati a Matilde di Canossa: nel 1059 Gerardo figlio di Frogerio donò beni cospicui alla canonica della cattedrale al fine di aumentare il numero dei presbiteres di questo ente, attuando probabilmente un’azione di penetrazione politica all’interno di questa istituzione. Queste figure, che possono detenere beni in città o in prossimità di essa, rimasero però apparentemente sullo sfondo dello scenario politico cittadino: pur avendo potere e ricchezza sufficiente, operarono in modo limitato in città, in sottofondo o comunque a livelli molto alti delle gerarchie urbane, non tanto perché contrastati da forze interne, quanto piuttosto perché per lungo tempo non risultò per loro necessario investire più del dovuto a tale livello, un atteggiamento che detennero in alcuni casi anche nel corso della prima età comunale, tardando a inserirsi nelle gerarchie consolari.

Un secondo livello è costituito da famiglie dell’aristocrazia (sia multizonali, sia zonali) o civesche detenevanoanche più di un castello, ma non titoli un tempo pubblici, come quello comitale, e che crearono legami con le istituzioni religiose urbane, detenendo già in partenza o acquisendo beni in città. Si tratta sia di famiglie di signori rurali inurbati che di cives che entrarono in possesso di consistenti beni rurali tra cui anche a volte chiese e castelli; per questi vale su tutti l’esempio della famiglia di Domenico de civitate regi fatto poc’anzi.

Infine, abbiamo un terzo livello dell’élite cittadina, costituito da famiglie di iudices o notai che ebbero accesso anche a cariche di medio-alto livello, come quella di advocatus degli enti religiosi cittadini, ma che apparentemente non riuscirono a effettuare un salto sociale che li portò a radicarsi anche nel territorio rurale, acquisendo il controllo di castelli o di vasti patrimoni fondiari. Rispetto a questa tripartizione risulta quasi del tutto oscuro un elemento che sarebbe invece necessario considerare, cioè l’accesso alle cariche delle istituzioni religiose cittadine da parte di queste famiglie. Ciò è dovuto ai limiti delle ricostruzioni prosopografiche: questi religiosi non utilizzarono alcuna denominazione familiare almeno fino ai decenni centrali del XII secolo.

Pare quindi chiaro che la composizione dell’aristocrazia militare e delle famiglie cittadine in senso stretto non sia stata omogenea: abbiamo cives tra virgolette “più aristocratici” di altri, cioè in grado di avvicinarsi agli standard dell’aristocrazia militare e, viceversa, signori rurali che erano più “civici” di altri, cioè portati ad avvicinarsi alle questioni cittadine più di altri signori rurali.

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Cives e aristocrazie rurali: quando gli interessi convergevano. Legami personali e inurbazione precoce

In questa varietà la presenza di interessi comuni portò in alcuni casi i due gruppi a convergere già nel corso dell’XI secolo, dando origine a legami clientelari, proprietà consortili e forse anche legami familiari trasversali tra i due gruppi. Due esempi risultano interessanti in tal senso. Il primo, datato al 1021, è quello di Ugo del fu Maldecherio di Reggio: abitante della città egli decise o si trovò costretto a vendere vari beni al marchese Bonifacio Canossa, sparsi nel centro urbano e in diverse località poste nei suoi pressi, salvo poi riceverli indietro dallo stesso marchese in precaria. In questo caso Ugo si trovò per sua iniziativa o suo malgrado complice della politica espansiva del marchese. Il secondo esempio riguarda una delle famiglie cittadine tra le più interessanti, quelle dei Rogerii/Ruggeri. Attestati nella documentazione reggiana come iudices fin dai primi decenni dell’XI secolo, è possibile seguire questa famiglia, legata alle principali istituzioni reggiane, con una certa sicurezza nel corso dei decenni successivi grazie alla ricostruzione dei legami parentali, fino a quando non li troviamo tra i consoli del comune già dagli anni ’30 e ’40 del XII secolo. Nel 1112 un membro di questa famiglia, Berta figlia di Gerardo di Rogerio si trovò a chiedere in precaria alla badessa di S. Tommaso varie terre poste sia in città che in territorio reggiano, agendo insieme ai figli del comes Gerardo II da Correggio, forse nell’ambito di un possesso di tipo consortile o anche di legami di tipo familiare.

Un fenomeno più ampio coinvolse alcune famiglie che poi fecero parte della Domus Mathildis, le quali tra gli anni ’60 e ‘70 dell’XI secolo tesero a creare legami con le istituzioni monastiche cittadine, primo tra tutti il monastero di S. Prospero fuori le mura; siamo quindi nel periodo in cui resse le sorti della famiglia attonide la madre di Matilde, Beatrice di Lorena. Tra queste famiglie troviamo oltre ai conti di Parma stessi (Arduino prima e Uberto poi), anche i da Baiso, i Bianchi/da Rubiera, i da Castellarano, i da Mandria, i da Roteglia, i da Bianello e gli stessi da Correggio. Il processo, una volta interrotto, riprese solo a partire dal 1093-95, quando la città tornò sotto il controllo matildico. Matilde e la sua famiglia sono state considerate essenzialmente estranee all’ambito cittadino, ma lo stesso non si può dunque dire per le famiglie a esse legate, le quali, pur donando raramente beni in città, ma piuttosto nei pressi di essa o più spesso nelle zone sotto il loro controllo, crearono comunque significativi legami con questa istituzione urbana, il monastero di s. Prospero fuori le mura.

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Il rapporto con gli enti religiosi cittadini sfociò in alcuni casi anche in un precoce processo di inurbazione da parte delle aristocrazie rurali, che accumularono beni in città o nei suoi sobborghi. Solo per citare alcuni casi: tra le famiglie di più antica origine troviamo i da Antisica già menzionati o i Frogeridi/da Correggio (presenti in città fin dal 1037); alcuni probabili milites vescovili come i da Arginee i da Massenzatico. Non mancano vassi di più bassa levatura, come Rustico da Cella, servusdel conte Uberto, che possedeva case e vari beni in città sul finire dell’XI secolo. Forse un processo simile lo attraversa anche la stessa famiglia dello stesso conte Uberto: con lui è attestato nel 1084 un figlio Ardicius-Arduinus, item comes; nel 1146 un comesArduinusrisulta possedere beni in città e poco dopo (1150) un’Egina, moglie del fu Arduino comes, donò alcuni beni nei pressi della città di Reggio per la salvezza dell’anima del marito; questi elementi potrebbero evidenziare un progressivo avvicinamento della famiglia comitale degli Arduini alla città di Reggio, percorso forse conclusosi con l’inurbazione.

Le istituzioni urbane e la vita cittadina: norma ed eccezione

Passando a considerare il modo in cui queste élite esprimevano il loro volere anche a livello politico va ravvisata una sostanziale tenuta delle istituzioni tradizionali della città, controllata dal vescovo cittadino, in virtu’ di una serie di diplomi imperiali ottenuti proprio nel corso del X e XI secolo. Rispetto a questa situazione, che fu la norma nel corso dell’XI secolo, alcuni casi specifici fanno emergere l’intervento di gruppi di cives nelle decisioni riguardanti la città, seppur in appoggio a dei provvedimenti del vescovo cittadino stesso. Un atto indicativo in tal senso è quello che vede protagonista il vescovo Ludovico (1092-93), fino a poco tempo fa ritenuto dai più scismatico, ma in realtà schierato con il partito matildico, il quale nel 1093 riconfermò la curtis di S. Stefano in Vicolongo, nella bassa pianura reggiana, alla canonica della cattedrale. Attuò tale provvedimento alla presenza dei civesnostrorum, di Uberto comes(vassallo matildico) e della familia vescovile. La presenza della comunità urbana dei cives, o per lo meno, possiamo presumere, delle élite cittadine, intese probabilmente riaffermare la coesione della città, schierandola al fianco del partito papale, dopo che per diversi anni era rimasta nelle mani di un vescovo scismatico, Gandolfo. Il conflitto papato-impero, sembra, in effetti, avere agevolato lo sviluppo di un’autocoscienza della città, le cui élite si trovarono probabilmente costrette a rapportarsi con i poteri forti del tempo attraverso l’individuazione di rappresentanti della comunità urbana. Potrebbe rientrare in questa casistica un preposituscivitatis citato in un documento del 1105. La carica doveva risalire ad alcuni anni prima; il documento in questione è infatti una donazione effettuata da una certa Clariza, figlia del fu Ardengusprepositus de

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Civitate Regi, che donò alcuni beni nei pressi della città al monastero di S. Prospero di Reggio.Ardingus forse potrebbe anche essere stato il preposito di una delle due canoniche cittadine, il riferimento alla quale sarebbe stato omesso nel documento; ma va detto che un tale preposito non risulta dai documenti di quegli anni. Potrebbe quindi effettivamente trattarsi di un rappresentante dei cives, o almeno delle élite urbane, che avrebbe esercitato il suo ruolo nel corso degli anni precedenti, più caotici dal punto di vista politico amministrativo. Tuttavia, organismi assembleari civici più complessi sono attestati nelle fonti reggiane solo in un periodo successivo, cioè dagli anni ’30 e ‘40 del XII secolo, quando sono già presenti anche i consoli cittadini e il comune aveva già avviato il processo di costruzione del distretto cittadino.

Conclusioni

In sintesi, vale la pena segnalare alcune considerazioni conclusive rispetto alla conformazione della società cittadina reggiana tra XI secolo-inizio XII.

Prima di tutto la mutevolezza dei gruppi sociali, cives e aristocrazie militari, gruppi che furono aperti a passaggi da uno schieramento all’altro e a fenomeni di mobilità sociale, sia verso il basso (con la crisi di certi lignaggi) sia verso l’alto (con l’ascesa di altri). Il secondo punto è che questa liquidità sociale si tradusse anche nella disomogeneità interna di questi gruppi, che, sulla base della ricchezza e dei poteri esercitati, sono ulteriormente suddivisibiliin sottolivelli. La vicinanza di alcune famiglie rurali agli scenari urbani e viceversa la capacità di alcuni lignaggi cittadini di affermarsi in campagna, detenendo anche prerogative signorili, si tradusse in un precoce contatto tra la città e la campagna e i rispettivi attori, molto prima che prendesse avvio il processo di costruzione del distretto comunale. Una situazione di questo tipo, del tutto compiuta nei suoi vari aspetti già alla fine dell’XI secolo, fu la base da cui presero le mosse le istituzioni comunali del secolo successivo. Non è di certo un caso che furono proprio le famiglie dell’aristocrazia militare rurale e dell’élite urbana più attive su entrambi gli scenari, quello cittadino e quello rurale, già dall’XI secolo a divenire gli attori principali del comune reggiano, sancendone così la fattibilità e il successo.

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La città di Ravenna prima del Comune (X-XI secolo)

di Mila Bondi

Quanto segue è costituito dalla relazione tenuta nel “I Convegno SISMED della medievistica italiana”, Bertinoro, 14-16 giugno 2018 all’interno del panel Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

e corrisponde al testo letto durante la conferenza, con qualche aggiustamento di forma ma senza i riferimenti bibliografici e il rimando alle fonti.

Si tratta infatti di un primo approccio all'argomento, le cui problematiche sono da definire meglio e da approfondire dovutamente.

Il desiderio è quello di procedere ad una nuova e più esaustiva edizione dell’articolo, di cui questo contributo costituisce dunque una prima messa a punto.

A Ravenna, la nascita del Comune è fatta risalire all'inizio del XII secolo (la prima lista di consoli è del 1109: si tratta della cessione di una salina, nel Cervese, alla quale erano presenti cinque consules, a fianco di 3 uomini di legge e 2 capitanei). Per questo, nel tentativo di individuare chi vivesse in città prima dell'affermazione del Comune, sono stati presi in considerazione i documenti del X e XI secolo, conservati all'interno dell'Archivio Arcivescovile e pubblicati da Ruggero Benericetti. Appare dunque evidente che, nelle carte, trovi spazio solo chi ebbe un rapporto, per quanto sporadico, con la Chiesa di Ravenna, lasciando nell'ombra chi non era coinvolto in queste relazioni.

Va premesso che quanto si esporrà non pretende di essere esaustivo rispetto all'argomento, visti anche l'elevato numero di documenti disponibili e la ricchezza delle informazioni in essi contenute. Un ulteriore limite è poi costituito dall'assenza di aggiornate ricerche prosopografiche per Ravenna, che favoriscano una più solida articolazione del discorso.

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

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Come premessa, si vogliono richiamare due elementi che aiutino a definire il quadro. Il primo, è costituito dal noto passo di Agnello, contenuto nella vita di Damiano, relativo quindi ad un episodio del VII secolo, nel quale la società ravennate appare già chiaramente stratificata in cives illustres, mediocres e parvuli. Oltre a ciò, è fatto esplicito riferimento ad una organizzazione della popolazione urbana per porte, a cui già appare collegato un forte senso di gruppo, se non di comunità (tanto da spingere gli abitanti afferenti alla Porta Teguriense e quelli della posterula detta di Sommo Vico a combattere tra loro).

Il secondo, dalla questione - già affrontata da molti (per citarne alcuni, Carile, Cosentino e Vespignani) - della doppia titolatura impiegata nei documenti di quest'area, con un primo elemento relativo al rango (vir illustris, vir magnificus, vir clarissimus, ...) e un secondo termine legato alla funzione (dux, magister militum, dativus, consul ... e altri).

E proprio rispetto a quest'ultimo elemento, in molti si sono interrogati se - nei secoli presi in esame - il termine impiegato faccia ancora riferimento allo svolgimento di una carica o se invece abbia ormai assunto il solo valore onorifico. In questa sede non si intende entrare nel merito della questione, ma solo richiamare alcuni elementi, in modo particolare riguardanti la qualifica di consul, impiegata grossomodo una novantina di volte nei documenti, almeno fino a metà del secolo XI. In molti casi, del titolo si fregiano sia il padre che il figlio (o figli), mentre in altri, la persona citata nel documento è detta "ex genere consul", indicando la provenienza da quel gruppo socialmente identificato.

Il titolo di consul può trovarsi associato, oltre alla qualifica di rango (in genere vir clarissimus), a quelle di pater civitatis, di tribunus, negociator o tabellio: sembrerebbe dunque riferito ad un gruppo di persone abbastanza eterogeneo, cioè a chi sembra appartenere allo strato degli illustres (nelle genealogie del Buzzi, compare anche nelle famiglie dei duchi Romualdi o in quella dei duchi e magistri militum dei Deusdedit), ma anche a chi era impegnato nel commercio o svolgeva una funzione "d'ufficio".

Nei documenti esaminati, i consoles agiscono perlopiù come testimoni, comparendo molto poco nel ruolo di concessionari, soprattutto per quanto riguarda i beni urbani (con transazioni relative a parti di case e di terreni coltivati o vigne). Sono un poco più visibili nel territorio, ma con patrimonialità che - se esaminati singolarmente - appaiono comunque contenute, costituite perlopiù da una parte di fundus. E' quindi verosimile ritenere che - almeno in qualche caso - disponessero di patrimonialità non visibili nelle fonti conservate. Fa eccezione la concessione rilasciata, nel 973, dall'arcivescovo Onesto ai fratelli Atilianus e Garardus consules, figli emancipati del console Giovanni, costituita da fundi e vari appezzamenti.

Risulta significativa anche la dotazione fondiaria dei De Calcinaria, dispersa entro un'area distante fino ad una cinquantina di chilometri da Ravenna. La

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famiglia compare nelle carte dalla seconda metà del X secolo e la prima citazione è relativa a Natal consul, del 972. A questa segue poco meno di una decina di altri documenti (quasi tutti dell'XI secolo) nei quali i De Calcinaria compaiono come testimoni o concessionari in transazioni eseguite dall'arcivescovo o dal monastero femminile di Sant'Andrea Maggiore, ponendo dunque la famiglia all'interno della clientela dei due enti religiosi. Particolarmente consistente è quella rilasciata (nel 1029) dall'arcivescovo Gebeardo al nobili viro Andrea de Caltjnaria, assieme alla sorella Anna, lo stesso che, una ventina di anni dopo, è indicato come consul. E' poi importante sottolineare che un altro Andrea De Calcinaria, (forse un nipote) compare tra i cinque consoli elencati nel già richiamato documento del 1109, considerato la prima attestazione della carica consolare a Ravenna.

Nello stesso elenco compare anche Enrico di Porta Nuova (lo si ritrova anche nella seconda attestazione consolare del 1115). Se davvero furono membri della stessa famiglia, è possibile risalire ai De Porta Nova fino alla fine del X secolo, quando compare Paulus (vir clarissimus de Porta Nova), figlio di Iohannis consul e a sua volta consul dal 1003. Rabertus, figlio del fu Giovanni detto de Porta Nova, è poi indicato tra i meritevoli che parteciparono al placito del 1027 nel Riminese, nel quale la Chiesa Ravennate rivendicava la proprietà di diversi beni qui posti. Esaminando i documenti che li riguardano, appare particolarmente evidente il legame sviluppato dalla supposta famiglia con la regione urbana omonima: sia perché le proprietà riconducibili ai De Porta Nova sono tutte collocate in questa regio (e non sono attestati possedimenti extra-urbani), sia perché fecero parte della clientela del monastero di San Giorgio in Taula, in alcune carte detto anche "fuori Porta Nuova" (tutti i documenti che li citano riguardano infatti transazioni effettuate da questo ente religioso).

Nonostante il coinvolgimento prolungato nel tempo alla vita politica della città, rispetto ai De Calcinaria, i De Porta Nova sembrerebbero tuttavia di tono minore, sia perché disponevano di una dotazione patrimoniale inferiore e limitata a Ravenna, sia perché legati ad un monastero "minore". In entrambi i casi, comunque, nel documento del 1109 i consoli provenienti da entrambe le famiglie vengono distinti dai capitanei - che si qualificano come tali - e anche in documenti successivi sembrano esserne diversificati, con interessi differenziati. Per quanto riguarda poi gli altri consoli menzionati nel già citato documento del 1109, sembrerebbero assenti dalle carte arcivescovili.

Nelle famiglie dei capitanei è frequente riscontrare il titolo di dux, trasmesso per più generazioni (e in questo caso i Traversari ne sono l'esempio migliore), ma non solo. Questo ceto è forse quello che ha attirato maggiormente l'attenzione degli studiosi ed è già nota la loro relazione con la Chiesa

1. Le comunità cittadine prima della nascita del Comune (IX-XI secolo)

Figura

Figura 1 Ricostruzione della Rete di Simmaco in F
Figura 3 Ricostruzione della Rete di Simmaco in P
Figura 4 Rete sociale ricostruita sulla base degli epistolari (Ego-Network)
Figura 5 La rete sociale monastico/ascetica nella Roma di VI secolo
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