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Donne in spazi pubblici e di potere tra X e XII secolo (Liguria, Venezia, Roma) coordinatrice Anna Maria Rapett

Appunti per disegnare una mappa del consenso a re Arduino

OSPITALE DI SAN BARTOLOMEO ‐ 2008

12. Donne in spazi pubblici e di potere tra X e XII secolo (Liguria, Venezia, Roma) coordinatrice Anna Maria Rapett

discussant Tiziana Lazzari

Gestione e devoluzione del patrimonio: le donne delle stirpi signorili nella Liguria del secolo XII

di Paola Guglielmotti

La misurazione del contributo patrimoniale e gestionale fornito dalla componente femminile alle stirpi signorili presenti nell’ambito territoriale del comune di Genova va inscritta nell’osservazione di un noto processo più generale, già ripercorso in più sedi anche per la Liguria. Nel secolo XII la maggiore città ligure ha infatti saldamente avviato la costruzione del districtus, nella duplice accezione territoriale di ambito ravvicinato e di intera regione costiera, mirando a una sottomissione di città e di nuclei di potere signorile. Questi ultimi spesso ancora superano una dimensione locale, disegnando contesti di variegata rilevanza. A tale trend di rinuncia patrimoniale in gran parte a favore di Genova va aggiunto, su una scala meno consistente, il fatto che le famiglie signorili possono alimentare il patrimonio immobiliare degli enti monastici rurali, soprattutto dei cistercensi, in precoce fioritura anche nel contesto ligure. Tale misurazione consente soprattutto di verificare la cronologia e il ritmo delle attività via via residuali di queste donne nello scenario politico e di mostrare qualche snodo problematico. Le devoluzioni, perché in sostanza di queste si tratta, possono infatti contribuire a far luce su precedenti acquisizioni e sulle linee di tendenza relative al ruolo femminile e al privilegio della linea maschile all’interno delle famiglie marchionali.

In un contesto regionale di dimensioni contenute, la verifica può essere condotta, assumendo di necessità una prospettiva solo urbana, grazie a un attraversamento solo dei Libri Iurium genovesi e dei Registri della Catena del Comune di Savona. A una prospettiva così urbanocentrica il contesto documentario ligure non offre quasi correttivi: non sono pervenuti testi narrativi e dei soli tre cartari di monasteri extraurbani disponibili (o ricostruiti) per l’intero ambito ligure, solo quello di un ente cistercense è utile ai fini della verifica.

Pur sulla base di questo esile e condizionante tessuto documentario, il tema dei comportamenti patrimoniali delle donne appartenenti ad ancora prestigiose stirpi marchionali, è un buon rivelatore dei comportamenti de facto: se in qualche caso si può ben comprendere come esse finiscano sotto la giurisdizione genovese, poco o nulla si sa invece della loro condizione giuridica di partenza, dello ius

proprium cui si possano commisurare le loro attività. Quando in questa rassegna si sono rinvenute

più attestazioni relative al medesimo luogo e alla medesima donna, si è trattato per lo più di momenti ravvicinati, benché si incontri un discreto numero di figlie e vedove dei marchesi del Bosco. Niente a che a fare, in definitiva, con i comportamenti ben accertati delle donne delle stirpi marchionali che ancora nel secolo XI si muovono, con grande intraprendenza, in scenari che spesso trascendono gli attuali ambiti regionali.

1. Acquiescenza e supplenza

Un punto di partenza, utile a ribadire che prove di qualche margine di autonomia, non necessariamente perseguita, si possono constatare in prevalenza da parte delle vedove (o delle orfane) dell’aristocrazia extraurbana è la solenne occasione del conferimento, datato 1131, di una sostanziosa donazione al monastero maschile cistercense di Tiglieto, già istituito da qualche anno nella parte nord-occidentale dell’attuale provincia di Genova: qui la comitissa Adalasia, figlia di Ubaldo, ha infatti un ruolo di mera consenziente accanto al marito Anselmo, figlio del marchese Ugo e primo della diramazione aleramica nota con il predicato del Bosco. Registrare questo dovuto consenso femminile è operazione necessaria se, per uno specifico segmento di quella articolata donazione del

1131 a Tiglieto, si menzionano cursoriamente oltre agli uomini anche le donne dell’altro ramo familiare che vi è coinvolto. In due delle tre vicende che adesso illustro non va poi escluso un aspetto strategico, pur nel declino. I limiti delle iniziative su un versante latamente pubblico si avvertono anche nel 1191, quando Azo, figlio del defunto Guglielmo marchese del Bosco, conferma una complessa permuta fatta dalla madre Maria con il monastero di Tiglieto riguardo un mulino nuovo a Varazze, forse anche al fine di sanare la contestazione del potere marchionale implicita nell’edificazione di quel mulino da parte dei figli di un Oberto Portonario contra voluntatem suam (cioè di Maria). Infatti, in situazioni in cui si perdono pezzi significativi di patrimonio il coinvolgimento delle donne che si prestano a tali operazioni potrebbe attenuare un danno che è anche di immagine per la stirpe nel suo complesso: in tali momenti decisivi i membri maschi di queste ramificate famiglie non figurano certo compresenti a mostrare appoggio.

1.1. Tederata e Ferraria dei marchesi del Bosco: oneri anche militari?

È la gran debolezza della componente maschile di uno dei rami marchionali aleramici – numerosi e spesso in conflitto – in cui due donne sono inserite a conferire loro visibilità documentaria; in ogni caso, il marito e genitore ha attuato un’opzione successoria che non ha discriminato o sacrificato moglie e figlia rispetto ad altri collaterali maschi. Nel 1135 Tederata, vedova del marchese Guelfo, e colei che è semplicemente dichiarata sua figlia sono nominate dopo il cognato Alberto Guercio nelle eccettuazioni, registrate nei Libri Iurium genovesi, ottenute dal marchese Aleramo, che nell’assumere impegni con il comune di Genova, ottiene che questi suoi antagonisti non si vincolino in egual modo.

La situazione è meglio comprensibile nel 1137, quando nei Registri della Catena savonesi si vedono menzionate Tederata e Ferraria. Le due donne emergono a proposito del castello di Albisola, il villaggio intermedio tra le rivali Genova e Savona, ma vicinissimo alla seconda. Tederata appare in posizione preminente, ma i vincoli imposti dai Savonesi che ricevono, cioè forzano, la donazione sia del castello, effettuata dalla donna a patto che non sia usato per muover guerra contro Genova, sia di alcuni diritti nel bosco di quel borgo sono notevoli anche per quanto riguarda la prospettiva matrimoniale di Ferraria che – si ingiunge – non accipiet maritum sine voluntate consulum e, in mancanza dei consoli, dei boni homines di Savona: quasi che ciò pesasse davvero una volta private del castello.

Si intenderebbe comunque che madre e figlia, in evidente assenza di eredi maschi nella discendenza diretta di Guelfo, abbiano acquisito in precedenza la pienezza della proprietà e soprattutto abbiano dovuto assumersi le connesse prerogative, poiché figurano tenute a oneri, anche militari, analoghi a quelli osservati dall’esponente di un altro ramo ancora, cioè dal marchese Ugo ancora 15 giorni prima che morisse, a conferma anche di un collasso della componente maschile di

questo ramo aleramico.

La fortificazione, tuttavia, non pare effettivamente dismessa a favore del comune di Savona, esattamente come era avvenuto nell’analoga donazione effettuata già nel 1121-1122 proprio da Guelfo alla Chiesa di Savona, perché un secondo documento, nei Libri Iurium, testimonia un nuovo e in parte opposto impegno della sola Ferraria. Costei giura di non alienare il castello di Albisola senza l’autorizzazione del comune di Genova, di fare guerram de illo castro come le ordinassero i consoli, di salvaguardare i Genovesi in toto meo posse e di prendere dimora a Genova, concorrendo alle spese del comune nella stessa misura della madre, forse ormai defunta. La posizione di Ferraria va perciò inquadrata nella concorrenza tra le due città: ma occorre badare al fatto che nemmeno ci si preoccupa di riformulare il dettato degli impegni militari, con fiducia del fatto che Tederada e Ferraria avrebbero saputo forse assumerli, ma sicuramente delegarli o trasmetterli, magari proprio al coniuge rispetto al quale i Savonesi intendono premunirsi.

La vicenda illustra bene come, almeno nel secolo XII, il genere di chi detiene una proprietà signorile, che appare stratificata, possa risultare tutto sommato indifferente, almeno su un piano formale, poiché al di là di cessioni forse non effettive, a meno di un annientamento militare, tende a

12. Donne in spazi pubblici e di potere tra X e XII secolo (Liguria, Venezia, Roma)

riaffermarsi il nesso tra i primi detentori e il loro castello. Nel reimporsi degli originari domini, più che l’intraprendenza femminile, in questo caso pesano le difficoltà della Chiesa o del comune di Savona e anche di quello della maggior città ligure a esercitare un capillare, e anacronistico, controllo del territorio.

1.2. La comitissa Matilda, moglie dell’imprigionato marchese Alberto Zueta

L’acquisizione ora formulata aiuta a orientarsi meglio nel caso della comitissa Matilda rispetto al castello di Parodi, il villaggio nelle propaggini settentrionali dell’Appennino ligure, illustrato da una serie di atti del 1148 che tracciano un breve percorso, concluso con la devoluzione remunerata, al comune di Genova, di tutta la fortificazione e di metà della annessa curia, da intendersi come luogo materiale, giurisdizione e anche clientela. La vicenda mostra la necessaria e attiva partecipazione di Matilda: un ruolo supplente cui le donne dell’aristocrazia, almeno a questa altezza cronologica, devono essere in previsione attrezzate non solo in caso di vedovanza, ma anche nell’eventualità che i coniugi siano impossibilitati ad agire in prima persona. L’innesco è infatti che il marito di Matilda, il marchese Alberto Zueta, è stato imprigionato da uomini e signori di vicini villaggi. Lo si apprende da due distinti atti quasi sincroni che mostrano ciascuno eventualità e impegni leggermente diversi a seconda che l’interlocutore del comune di Genova sia la comitissa oppure il marchio: e si può subito premettere che i vassalli di cui si parla sono intesi esserlo sia di Matilda, sia di Alberto. In tale quadro colpisce il mancato coinvolgimento di parenti da parte di entrambi i coniugi, anche tra gli astanti, mentre il richiamo generico agli eredi non corrisponde a individui già designati o tanto meno a figli. Con la comitissa il comune di Genova stringe una concordia. Sono in realtà imposizioni perché Matilda è costretta a consegnare, di lì a breve, il castello e metà della curia di Parodi, così da ottenere aiuto per la liberazione del marito, ma spuntando una serie di eccettuazioni riguardo alcuni vassalli. È la contessa a essere individuata quale tramite e garante rispetto agli impegni dei vassalli – dieci dei migliori, che contribuiscano alla difesa del luogo coadiuvando il comune genovese – e del marito: qualora il marchese venisse liberato, deve approvare gli accordi entro un mese; qualora il marchese morisse, la contessa e gli eredi devono comunque rispettare gli accordi e comportarsi come concordato per lui; qualora il marchese venisse liberato, deve giurare l’habitaculum e trasferirsi in città.

Con il marchio ormai civis genovese, il comune cittadino specifica il più largo quadro degli impegni reciproci. I consoli devono indurre Parodi e alcuni vicini villaggi ad aiutare il marchese e a far guerra ai signori di Castelletto d’Orba fino all’uscita di prigionia del marchese. Qualora il marchese, la comitissa o i loro eredi fossero lesi nei loro diritti e prerogative nella curia di Parodi, il comune di Genova deve ordinare al castellano locale e ai soldati che prestino loro aiuto: si apprende così che c’è ormai una vigorosa presenza genovese nel villaggio e nel castello e che vigerebbe di fatto il regime giurisdizionale della città ligure. Inoltre il comune cittadino deve offrire la debita protezione al marchese, ai suoi eredi e alla contessa cum omni medietate curie Parodi. Nell’eventualità che il comune di Genova entri in guerra con l’omonimo Alberto di Gavi e riceva consilium vel adiutorium dal marchese, dalla contessa – anche per la quale si ricorre alle tipiche espressioni del rapporto vassallatico – o dai loro eredi, il comune concede loro la quarta parte di tutta la curia di Gavi; mentre nell’eventualità che si proceda senza il loro aiuto sono i consoli a decidere cosa è congruo dare loro. Il punto di maggiore interesse, nella prospettiva della donna, è che habita prius fortitudine et castro

Palodi, il consoli di Genova devono garantire al marchese una buona casa a Genova e inoltre 700

lire: di queste di 200 spettano a Matilda – forse un indennizzo rispetto al suo apporto dotale? – mentre 500, per la durata del mandato consolare, vanno destinate al mantenimento dei vassalli di cui il marchese disponesse a Genova e che ai consoli apparissero di utilità per il comune, il marchese, la contessa e i loro eredi.

Alberto Zueta giura, in conclusione, impegni rispetto al comune genovese e di abitare in città: con la moglie attua la vendita, ma etichettata quale donazione, del castello di Parodi con metà della sua curia al comune di Genova per 700 lire, senza che però adesso si distingua nella destinazione

della cifra e con coinvolgimento generico degli eredi nel rispetto di quanto pattuito. A Matilda sembra dunque almeno inizialmente riconosciuto il precedente apporto al patrimonio coniugale e in questo ambito sociale ciò implica la piena responsabilizzazione rispetto alla gestione del declino e alla riconversione familiare.

1.3. Alda, moglie di Ottone del Carretto: sacrificio della dote?

Tale dinamica femminile in fase di rinuncia al patrimonio marchionale o a sue significative quote si chiarisce ulteriormente entro la fine del secolo. Luigi Provero ha già posto l’accento sul deficit di numerario delle stirpi signorili disposte tra le attuali regioni Piemonte e Liguria, buon indicatore di una presa politica sui sudditi che va affievolendosi. Nel 1193, la contessa Alda, moglie del marchese Ottone del Carretto, cede al comune di Savona i suoi diritti sul villaggio, la curia e le pertinenze del castello di Quiliano, pegno della dote di 4.000 lire. Ma soprattutto, consenziente e presente il marito, deve consegnare al giudice che rappresenta il comune savonese il documento dotale, di cui non è fornita la data, ma redatto dal notaio Raimondo di Alba, che potrebbe suggerire la sua provenienza da zona a nord dell’Appennino e dare ragione di una dote che consisterebbe tutta in denaro e implicherebbe il coinvolgimento di Alda in una dimensione pubblica dopo il matrimonio. Comprendere quanto Quiliano fosse strategica nella politica marchionale lascerebbe intuire quanto lungimirante sia stata la scelta di porre il pegno dotale su questo specifico spezzone del patrimonio complessivo. Resta invece fuori dalle possibili speculazioni se e come si riequilibri la situazione patrimoniale all’interno della coppia e quali relazioni possano intercorrere da parte dei del Carretto con la famiglia d’origine di Alda che, non identificabile, aveva comunque dato un contributo in numerario, almeno in apparenza, assolutamente fuori standard al matrimonio.

12. Donne in spazi pubblici e di potere tra X e XII secolo (Liguria, Venezia, Roma)

Le donne di Alberico

di Veronica West-Harling

Questo titolo può essere come una versione blanda per la stampa popolare della più accademica “pornocrazia romana” di Liutprando. Ovviamente, è stato spesso sostenuto che Liutprando abbia coniato il termine di misoginia, perché in quanto vescovo, non apprezzava le donne, specialmente quelle potenti. Un’affermazione sbagliata, secondo me, perché era un grande ammiratore dell’imperatrice Adelaide. Ciò che egli mette in luce quando tratta delle donne intorno ad Alberico non è in primo luogo il fatto che sono potenti, ma che sono dissolute e che usano la loro attrattività sessuale per controllare gli uomini. E questo perché, a partire dalla matriarca, tutte loro, egli dice, erano sessualmente voraci e corrompevano degli uomini buoni e forti di Roma. Questo, si potrebbe pensare, è parte integrante del suo tentativo di abbattere la famiglia di Teofilatto e Alberico, signori di Roma per più di 50 anni – che è il suo proposito principale, al fine di esaltare l’ordine restaurato da Ottone I, che egli serviva e che considerava, in quanto imperatore, il legittimo signore dell’Italia e in particolare di Roma.

Ma, dal suo punto di vista, per poter ottenere questo scopo, è chiaro che Liutprando aveva dovuto indirizzare la sua retorica verso le persone giuste, verso Alberico stesso, naturalmente, ma anche verso la vasta famiglia attraverso la quale aveva ottenuto il suo dominio e aveva continuato ad esercitarlo: le donne.

Alberico crebbe con la nonna Teodora, la mamma Marozia senatrix e la zia Teodora II senatrix, due sorelle, chiamate entrambe Berta, dai primi due matrimoni di sua madre Marozia; ad esse si aggiunse sua moglie, forse la meno nota di tutte loro, Alda, figlia di re Ugo. Da Teodora II senatrix erano discese tre cugine femmine: Marozia II senatrix, Teodora III e Stefania senatrix. Vediamo brevemente ciò che sappiamo di ciascuna di loro.

Teodora I, la moglie di Teofilatto vestararius, probabilmente appartenente ad una delle famiglie aristocratiche romane già esistenti nel IX secolo, proprio come suo marito, era considerata da molti, come Eugenio Vulgario, una matrona saggia e pia. Sia lei che suo marito erano vicini a papa Sergio III (904-11) e poi a Giovanni IX arcivescovo di Ravenna, che Teofilatto aiutò a ottenere il papato come Giovanni X - un fatto che presumibilmente era alla base della successiva calunnia di Liutprando che Teodora era stata la sua amante. Teofilatto aveva progressivamente assunto i titoli di magister militum, vestararius e infine senator

Romanorum, un titolo che sarebbe rimasto strettamente legato alla famiglia per tutto il X secolo, sia per gli

uomini che per le donne. Teofilatto e Teodora ebbero 5 figli, tra cui un figlio chiamato anche lui Teofilatto, che tuttavia morì prima di suo padre, e due figli che morirono durante l'infanzia. Solo due sopravvissero, due figlie, Marozia e Teodora.

Marozia fu condannata da Liutprando (di nuovo) per aver avuto una relazione con Papa Sergio III e per aver avuto con lui un figlio, che lei in seguito avrebbe fatto papa con il nome di Giovanni XI. Lasciando da parte questo fatto, che può essere vero o meno, sappiamo che nel 915, con l’appoggio del padre, sposò al suo ritorno l'eroe della battaglia del Garigliano, Alberico duca di Spoleto e marchese di Camerino. Con lui ebbe almeno 4 figli, Alberico, Costantino, Sergio, futuro vescovo di Nepi, e una figlia, Berta. L'alleanza politica aiutò la famiglia a consolidare il controllo su un grande blocco di territori, che includevano il ducato di Spoleto, nonché il nucleo della proprietà di famiglia nella Sabina. Fin qui, tutto normale. Nei primi anni 920, i genitori di Marozia e suo marito morirono. Una conseguenza immediata fu che papa Giovanni X, che, dopo la sua elezione con l'aiuto di Alberico I nel 914 aveva sostenuto le politiche della famiglia, ora si rivoltò contro di loro, ossia contro Marozia e l'aristocrazia romana, che sosteneva la successione di lei al dominio di Roma, sulle orme di suo padre. Giovanni X offrì la corona imperiale a Ugo di Provenza, re d'Italia, in cambio della sua restituzione della Sabina alla Chiesa di Roma e della concessione di Spoleto e Camerino a suo fratello Pietro. I rischi per l'eredità di Marozia e per l'autonomia dell'aristocrazia romana furono immediatamente neutralizzati da Marozia, che sposò Guido marchese di Toscana, che si opponeva a Ugo. La guerra esplose a Roma e nelle vicinanze, con Marozia e Guido da una parte e Pietro dall'altra. Quest'ultimo fu assediato a Roma e ucciso in Laterano, e suo fratello papa Giovanni X fu imprigionato e forse successivamente ucciso. Dal 927 Marozia governò Roma come senatrix Romanorum e patricia. Essa, dopo aver costretto Giovanni X a rinunciare al papato, mise tre papi sul seggio pontificio, il terzo era suo figlio Giovanni XI. Ebbe una figlia con Guido, un'altra Berta, però Guido morì nel 929. A questo punto Marozia tentò un'alleanza con l'imperatore bizantino,

mirando a sposare sua figlia Berta con il figlio del Lecapeno - una mossa che richiese un tempo piuttosto lungo, dal momento che, quando gli ambasciatori bizantini arrivarono a Roma nel 933, lei stessa aveva perso il potere. Prima di ciò, tuttavia, aveva tentato un'ultima mossa politica, che era quella di offrire la sua mano a re Ugo, che naturalmente accettò immediatamente al fine di ottenere il controllo di Roma attraverso di lei. Nel 932 essi si sposarono a Roma, portando Brezzi a suggerire che la tentazione di diventare regina e imperatrice potrebbe aver offuscato il suo giudizio. Che fosse per quel motivo, o perché sentiva ormai la pressione di un figlio ormai