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13. I linguaggi del consenso. Memoria, retorica figurata, storiografia in ambito cittadino (XIII sec.)

I Convegno della medievistica italiana - 2018 13. I linguaggi del consenso. Memoria, retorica figurata, storiografia in ambito cittadino (XIII sec.)170

Raccontare il consenso e il dissenso: Guglielmo Boccanegra negli Annali genovesi e nella memoria storica cittadina.

Marino Zabbia

Il mio breve intervento è dedicato a un sondaggio nella sezione degli Annali

genovesi comunemente nota come “Annalisti ignoti”. Si tratta di quella lunga e

disomogenea parte degli Annali che dal 1225 arriva al 1264 e non presenta nel testo l’indicazione del nome dell’autore, al contrario di quanto era accaduto per la parte precedente, inaugurata da Caffaro e continuata da notai impegnati negli uffici cittadini incaricati dai vertici del Comune, e come fu in seguito per la parte successiva al 1264, affidata a commissioni di giurisperiti e laici fide digni di nomina podestarile.

Prima di procedere con l’analisi del testo, ritengo opportuno spendere qualche parola per chiarire l’approccio che ha guidato la mia lettura. Ormai è un assioma che le cronache non sono supermarket dai cui scaffali prendere informazioni – così ci insegnava Paolo Cammarosano quand’ero studente, ma ora vedo che nell’intervista apparsa su «Reti medievali. Rivista», 17/1 (2016) il generico supermarket è diventato UPIM. Le cronache invece sono fatti storici in sé, da studiare nel loro complesso (e quindi partendo da una lettura integrale del testo). Inoltre tutti concordiamo, almeno a livello teorico, con l’affermazione che un autore medievale è prima di tutto fonte di sé stesso. Ma forse non è altrettanto serenamente acquisito il fatto che, nel momento in cui uno scrittore poneva mano alla sua cronaca, era conscio di aderire alle regole di un genere letterario dalle caratteristiche riconosciute anche se fluide, poiché la storia – almeno quella più recente – non era una materia codificata, di quelle che si insegnavano nelle scuole. Era intenzione di quello scrittore – dichiarata di solito nel prologo – redigere un testo utile per i suoi lettori che conservasse memoria del reale svolgimento delle vicende passate, ma allo stesso tempo offrisse diletto ed ammaestramento. Per dimostrare la credibilità del racconto i cronisti si appoggiavano ad autorevoli testimonianze: la migliore era quella loro propria, poi veniva quella di testimoni credibili, meglio se diretti, a cui si finiva per equiparare le fonti scritte, esse pure ritenute testimonianze e come tali valutate. Per produrre un testo godibile quegli stessi autori si rifacevano a esempi “classici”: di solito usavano opere tardoantiche o altomedievali, più raramente romane, oppure riproducevano nella loro pagina

soluzioni apprese leggendo novelle ed exempla, o studiando l’ars dictaminis. In quelle opere trovavano esempi di stile, ma anche “falserighe” da aggiustare o riprodurre testualmente, senza per questo venire meno al loro impegno di verità. Così fece, tanto per rimanere a Genova, Oberto Cancelliere, il primo continuatore di Caffaro, quando, per ricordare come nel 1164 a Genova si stabilì di fissare in un anno la durata del consolato, riportò alla lettera un passo della Historia romana di Paolo Diacono. E già Antonio Placanica ha notato una ripresa testuale da Sallustio nella sezione del 1163 degli Annali, quindi ancora di Caffaro, nel ritratto di Rainaldo di Dassel (per il quale ci si ispirò a Cicerone, ma quanti Catilina si incontrano nelle cronache cittadine). Prendere atto di queste caratteristiche delle cronache non implica alcuno scetticismo verso le fonti narrative, anzi mira a valorizzare le loro potenzialità e costituisce un invito a utilizzarle con maggiore assiduità di quanto non si faccia oggi. Anche se disponiamo di poche edizioni veramente critiche, con un esaustivo apparato di commento e quindi dobbiamo muoverci con cautela ed evitare di avanzare interpretazioni che non siano fondate su solide basi erudite.

Tra queste potenzialità, la più immediata mi sembra la possibilità di ricostruire la cultura storiografica bassomedievale, anche se così facendo si sposta ancora di più l’attenzione dalla storia politica – protagonista di questo panel – alla storia culturale. Scritte sovente sulla spinta di un’urgenza politica, le cronache vedono diminuire il loro peso di messaggio politico a vantaggio del loro valore culturale via via che ci si allontana dal momento della loro composizione. Ecco allora che gli annali piacentini guelfi di Codagnello sono un’ottima fonte per gli annali piacentini ghibellini scritti una quarantina d’anni dopo; che la cronaca di Arnolfo di Milano è stata copiata accanto alla Vita Airaldi chi voleva raccogliere informazioni su Milano nel secolo XI (nel quattrocentesco manoscritto Milano, Biblioteca ambrosiana, H.89.inf); e che le cronache di Albertino Mussato sono fonte preziosa e esplicitamente citata per i biografi tardotrecenteschi dei Carraresi, famiglia di cui pure quell’autore era stato avversario politico (e non molto tempo prima).

Interessante è anche studiare l’evoluzione della memoria storica di una città seguendo il percorso diretto o mediato delle notizie da un testo più risalente ad altri più recenti. In quest’ottica il caso genovese si presenta come campo di studio assai promettente, anche se quella ligure non è un’eccezione. Pure a Venezia, a Firenze, ma anche a Piacenza è possibile vedere come le notizie si spostano da un testo all’altro mutando oppure consolidando la loro forma. Tuttavia Genova con i suoi

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ricchi Annali, con la cronaca di Iacopo da Varazze di fine Duecento e con gli

Annales di Giorgio Stella scritti tra fine Trecento ed inizio Quattrocento permette

sondaggi numerosissimi. Due secoli di storia cittadina registrata a ridosso del suo svolgimento o poco dopo trovano posto negli Annali di Caffaro e dei suoi continuatori. Lesse questa storia e la utilizzò Iacopo da Varazze, arcivescovo domenicano di Genova. E il notaio Giorgio Stella conobbe sia il testo originale degli

Annali sia la versione di Iacopo. Possiamo così vedere come un fatto fu registrato a

ridosso del suo svolgimento; come fu presentato alla fine del Duecento da un frate che riscrisse la storia di Genova in un quadro di storia universale; e come fu proposto nella sua riscrittura della storia cittadina da un autore in contatto con la cultura dell’Umanesimo.

Il sondaggio nella lunga sezione degli Annalisti ignoti che desidero proporvi riguarda le pagine che sono state dedicate a Guglielmo Boccanegra, Capitano del Popolo dal 1257 al 1262, anni in cui egli diede vita a un governo personale.

È ragionevole ritenere che queste pagine furono scritte in un breve lasso di tempo tra il 1262 ed il 1264. Che siano state composte dopo la caduta del Boccanegra è comunemente riconosciuto, poiché di tutto il suo governo esse danno un giudizio negativo. Possiamo poi affermare che risalgono a prima del 1264 perché da quell’anno gli Annali furono affidati a una commissione di Giurisperiti e laici fide

digni. È poi probabile che a redigerle fosse un unico autore perché la pagina di

queste annate ha un aspetto stilistico omogeno, espressioni simili ritornano anche a distanza di qualche pagina.

Ho appena detto del giudizio negativo riservato al Boccanegra, ma il tono di queste pagine non è semplicemente riconducibile alla condanna e al dissenso. Troppi problemi sollevava all’anonimo cronista raccontare quel quinquennio. Alcune di queste difficoltà sono facili da capire: Guglielmo era ancora vivo (sarebbe morto nel 1273) e continuava ad essere un uomo di potere grazie ai suoi legami con la corona di Francia; inoltre durante il suo quinquennio un ruolo di rilievo era stato svolto dalla famiglia Doria che dopo la caduta del Capitano aveva mantenuto il suo peso in città. La situazione a Genova non era poi stata normalizzata, e la fazione guelfa, che aveva fatto cadere il Boccanegra, non aveva stabile controllo, al punto che già nel 1264 Oberto Spinola (membro di una famiglia ghibellina) aveva tentato di farsi Capitano

con modalità simili a quelle che avevano portato al potere il Boccanegra (l’impresa si era conclusa con un accordo tra le parti guelfa e ghibellina).

Ma altre e forse più complesse difficoltà sono insite nella stessa natura degli

Annali, i cui autori sino a quel momento mai avevano preso posizione contro il

governo della città – anzi gli Annali furono strumento della celebrazione delle autorità cittadine e in particolare del podestà – e non lo avrebbero fatto in seguito. Mentre l’anonimo, che non ha rinuncia alla finzione della registrazione a ridosso dei fatti, doveva prendere posizione proprio contro il principale magistrato cittadino. La soluzione che questo cronista ha scelto è di compromesso: egli rinuncia a dare agli anni del governo del Boccanegra un taglio monografico e preferisce includere alcuni episodi che riguardano il Capitano nel consueto svolgimento annalistico dell’opera. Di conseguenza le notizie relative alla situazione interna – in cui emerge il malgoverno del Capitano col conseguente dissenso – sono inserite in un testo in cui la storia della politica estera ha il maggior risalto. Rilievo giustificato anche dal fatto che di quel periodo sono i duri scontri dei genovesi con veneziani e pisani ad Acri, e che al 1261 risale il trattato del Ninfeo, un successo del Boccanegra che il cronista riesce a raccontare senza menzionare il Capitano, salvo poi collegare la sua caduta alla reazione del papa Urbano IV all’alleanza dei genovesi con Michele Paleologo.

A questo punto bisogna aggiungere che la vicenda del Boccanegra all’interno degli Annali genovesi trova posto in un blocco di testo più ampio del quinquennio in cui egli fu Capitano. La lunga sezione degli Annalisti ignoti e divisa in parti dai tratti omogenei nelle quali compaiono elementi caratterizzanti (come lo stile del narratore, l’inserzione di versi, sintesi o prolissità del racconto ecc.). Una di queste parti copre il lungo periodo che dal 1250 arriva sino al 1264. La si individua facilmente perché nel codice autentico dove sono trascritti gli Annali ogni annata è introdotta da mezza colonna lasciata bianca con il proposito, poi non realizzato, di essere compilata in un secondo momento con i nomi dei magistrati e dei loro notai, secondo lo schema consueto della cronaca. A vergare queste pagine non è stata una sola mano. Le annate del 1250 e del 1251 – scritte tra il 1252 e il 1254 perché ricordano la spedizione in Italia di Carlo IV, ma non sanno della sua morte – hanno un aspetto grafico diverso dalle precedenti e dalle successive, ed anche una cifra stilistica peculiare (di particolare interesse per come racconta della situazione seguente alla morte di Federico II). Nelle annate seguenti l’aspetto grafico delle pagine è sempre

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analogo e a scrivere il testo sino al 1264 fu probabilmente una sola mano, probabilmente quella del notaio di cancelleria cui si deve anche il testo degli Annali.

Il lungo arco cronologico del percorso (dal 1252 al 1264) condiziona la disposizione della materia per cui alcune delle prime annate sono più sintetiche di altre. Inoltre nelle prime parti sono presenti anticipazioni, e lacune di dettagli (per es. date) segno evidente che si stava scrivendo a distanza di qualche tempo. Giunto al 1257, e poi trattando gli altri anni in cui Guglielmo fu Capitano, l’anonimo cronista non ha mutato la struttura dell’opera, quindi ha iniziato ogni annata segnando il nome del podestà e lasciando lo spazio per le magistrature (questo schema sarà abbandonato solo dal 1270 con l’inizio della diarchia di Oberto Spinola e di Oberto Doria: da questo momento l’annata inizia solo con il nome del podestà, senza prevedere l’inserimento o inserire i nomi degli altri magistrati e dei notai del Comune).

Tutti gli elementi derivati da una lettura di queste pagine spingono a riconoscere il momento di stesura degli annali dal 1252 al 1264 nel periodo immediatamente seguente la caduta del Boccanegra. La brusca interruzione di questa sezione a metà 1264 e la successiva nomina della prima commissione dei giurisperiti e laici sembra coincidere con il tentativo fallito di Oberto Spinola di farsi capitano. Con il racconto dettagliato di quell’episodio ha, infatti, inizio la breve parte dovuta a Lanfranco Pignolo, Enrico marchese di Gavi, Guglielmo di Multedo e Marino Usodimare. La sola lettura del testo per gli anni in questione non evidenzia adeguatamente la frattura intervenuta nel 1264 con la nomina della commissione con la stessa efficacia di uno sguardo al codice autentico: una pagina ordinata con iniziali miniate e senza lacuna segue pagine scritte più velocemente e con ampie parti bianche.

Gli studi sulla cancelleria genovese che sta conducendo Antonella Rovere permettono di conoscere meglio il gruppo di notai da cui proveniva il cronista anonimo che scrisse verso il 1264. Qui basti dire che alla caduta del Boccanegra vi fu un ricambio dei principali notai impegnati negli uffici genovesi, una sorta di “spoils system”, perché il capitano nel suo quinquennio aveva trasformato la cancelleria, rompendo con la tradizione degli uffici e inserendo in quella sede uomini fidati che fossero suoi validi collaboratori. A questi notai dall’alto profilo professionale forse si devono le annate 1250 e 1251, oppure forse costoro non si impegnarono proprio nella scrittura degli Annali anche se si dedicarono alla realizzazione di libri iurium (e

le due attività nella cancelleria genovese si svolsero quasi parallele per oltre due secoli). Nemmeno sembra che agli Annali abbiano messo mano i notai che collaborarono nel 1253 con il podestà Enrico Confalonieri, altro promotore di un

liber iurium (iniziativa che per altro negli Annali non si ricorda). Fu quindi uno dei

notai impegnati nella cancelleria durante i brevi anni di Genova guelfa dopo la cacciata del Boccanegra a riprendere la tradizione di scrivere gli annali. Verrebbe da pensare che fosse un vecchio notaio rimasto per qualche tempo in disparte che volle riprendere una tradizionale usanza cittadina. Che fosse, diciamo così, “avanti con gli anni” questo anonimo autore invita a pensare il fatto che uomini d’età avanzata furono anche i membri delle commissioni di giurisperiti e laici degni di fede. Che non godesse di uno speciale mandato mostra il fatto che, quando la situazione divenne scottante, lo si sostituì con una commissione: Antonella Rovere ritiene che fosse proprio una conseguenza della svolta nella vita degli uffici impressa dal Boccanegra a permettere che si potesse pensare a una simile commissione. Ma a me sembra più importante segnalare come nel momento in cui si pensò di valorizzare l’uso politico degli Annali venne meno l’anonimato ormai pluridecennale degli autori. Questo per dire con la massima chiarezza che non credo sensata l’ipotesi che pure è stata avanzata (e non solo per gli Annali genovesi) secondo cui un testo anonimo avrebbe goduto di maggiore autorità perché sarebbe stato ritenuto espressione dell’ufficio pubblico in cui era scritto.

L’anonimo annalista ha chiamato Guglielmo Boccanegra per nome e cognome solo raccontando della sua presa di potere. Poi – quasi volesse procedere a una sorta di damnatio memoriae – si è limitato a chiamarlo solo capitaneus (questa è una caratteristica omogenea del testo che propende a pensare a autore unico). Se il giudizio sul Boccanegra è sempre negativo – il podestà in carica nel 1257 si dimette quando vede il cambio di regime – nelle pagine in cui racconta della sua caduta, l’anonimo annalista non esita a chiamare il capitano tiranno. Senza mezzi termini e con la proprietà di linguaggio che derivava da lunghe lotte della Chiesa contro Federico II e altri capi ghibellini (si pensi alla crociata contro Ezzelino da Romano). La sua nomina era stata in una prima fase illegale, nata sulla scia di un tumulto, e solo in seguito ratificata. Poi, durante gli anni del suo governo, il Capitano aveva mortificato le istituzioni, nominato a suo arbitrio i magistrati, diretto senza consultare nessuno la politica estera. E così – chiude il cronista – si era inimicato così la parte

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migliore della cittadinanza. Ma se durante il tumulto che pose fine al suo governo suo fratello Lanfranco – il nonno del doge Simone Boccanegra – morì, un altro suo fratello, Marino, rimase a Genova dove continuò a ricoprire cariche pubbliche, e lo stesso Guglielmo la scampò con pochi danni.

Iacopo da Varazze che era nato a Genova verso il 1230, avrebbe potuto essere un buon testimone del governo del Boccanegra. Ma forse non era in città in quegli anni (la sua biografia si conosce solo dagli anni Sessanta del Duecento). E comunque non riservò quasi alcuna attenzione al quinquennio del capitano. Il Boccanegra nella cronaca di Genova compare citato una sola volta nella notizia degli scontri con i veneziani ad Acri, dove gli viene indirettamente contestata la responsabilità di avere preparato in maniera inadeguata la flotta genovese (mentre gli Annali probabile fonte del domenicano attribuiscono in generale la scelta ai genovesi).

Ben diverso è il comportamento di Giorgio Stella. Ad inizio Quattrocento – dopo che si era conclusa la stagione di Simone Boccanegra, di cui il padre di questo cronista era stato cancelliere – Giorgio ha riassunto in modo egregio gli Annali, raccogliendo tutte le notizia sparse nelle varie annate della cronaca duecentesca in una sola pagina che ricapitola l’intera parabola del Capitano. Ma in quella pagina, che pure riprende anche qualche citazione degli Annali, il giudizio negativo sul Boccanegra è del tutto cancellato: non solo si tace ogni riferimento alla sua tirannide, ma pure l’origine popolare che negli Annali aveva un connotato negativo, è fatta passare sotto silenzio (così come nobile sarà Simone per Giorgio). Si tratta di un esempio significativo di uso delle fonti cronachistiche per la ricostruzione della storia cittadina. Poco importava allo Stella che l’anonimo annalista fosse avverso al Boccanegra: le informazioni che riportava erano utili. Il giudizio si poteva ignorare.

coordinatori Francesco Senatore e Pinuccia Simbula Discussant Eleni Sakellariou

Relatori: Francesco Senatore, Pinuccia Simbula, Fabrizio Titone

Il panel inaugura una serie di incontri volti a confrontare le società urbane nei regni italiani (Napoli, Sardegna, Sicilia) durante il tardo Medioevo. In questi tre ambiti geo-politici si riscontrano una diversa densità della rete urbana, una varietà e pluralità delle esperienze cittadine, una differente natura del rapporto tra una singola città e la corona. Tuttavia, in tutti e tre i casi le città e le élites che le egemonizzavano operavano all’interno di una cornice istituzionale per certi versi simile, ciò che rende proficua la comparazione.

L’ampliamento, per via di privilegio, delle funzioni pubbliche delegate alle amministrazioni municipali si traduceva nell’arricchimento delle élites e nell’incremento della loro preminenza sociale, ma esse d’altra parte si facevano carico, non senza conflitti e contraddizioni, della solvibilità fiscale della cittadinanza e del sostegno al re nelle emergenze finanziarie e militari. Si è molto insistito, a ragione, sul servizio regio come motore della mobilità sociale, con riferimento ai professionisti della guerra, del diritto, della mercatura. Il servizio al re, però, non era l’ambito esclusivo in cui si costruivano le fortune patrimoniali e politiche delle élites, che avevano caratteri diversi a seconda delle città. Milites, giuristi, notai, mercanti, artigiani operavano in primo luogo nello spazio politico ed economico cittadino, che necessita di una maggiore attenzione. La condivisione di un quadro istituzionale comune all’interno di ciascun regno rende più interessanti le eventuali differenze.

Ci si è concentrati, con riferimento ai tre regni e a studi di caso, sui seguenti punti: - Profilo dei ceti preminenti nelle città (patrimoni, attività economica).

- Forme di preminenza sociale, politica ed economica (controllo delle cariche pubbliche, meccanismi di trasmissione, inserimento nel sistema degli appalti e nel mercato del credito ecc.).

- Modalità con cui l’amministrazione municipale da un lato si confronta e si coordina con la monarchia (negoziazione verticale); dall’altro si occupa dei conflitti interni alla società urbana (negoziazione orizzontale).

FRANCESCO SENATORE

Università degli studi Federico II di Napoli (francesco.senatore@unina.it)

Società urbana e istituzioni municipali nel regno di Napoli (XIV-XV secolo)

1. Premessa

L’intervento, che mantiene il carattere dell’esposizione orale, è dedicato alla preminenza sociale legata alle istituzioni municipali nelle città del Regno di Napoli in età durazzesca e aragonese (1381-1504). Ci si riferisce soprattutto alle città campane e pugliesi, a L’Aquila e a Cosenza, ma senza entrare nel dettaglio.

Per preminenza “legata” alle istituzioni municipali (cioè l’universitas) si intende