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IL CEMENTO COME OPERA D’ARTE L’architettura italiana degli ann

ARCHITETTURA ED ARTE COME MATERIA

1.2.1 IL CEMENTO COME OPERA D’ARTE L’architettura italiana degli ann

Cinquanta e Sessanta è stata caratterizzata da un gusto sempre più diffuso per il calcestruzzo lasciato a vista e segnato dalle impronte delle assi delle casseforme, il Béton brut, inaugurato da Le Corbusier100 ,

ma di cui gli architetti italiani hanno offerto originali variazioni (Rosellini, 2016, p.72)101.

L’innovazione che l’utilizzo del cemento ha portato nell’edilizia, ha avuto immediate ricadute anche nel mondo dell’arte, prima fra tutte la necessità di aggiornare tecniche e materiali

100 Le Corbusier è stato uno dei primi architetti ad essersi posto l’interrogativo sulle possibilità artistiche della materia del

calcestruzzo e ad aver saputo dare, attraverso una costante sperimentazione condotta in tutti i suoi cantieri del secondo dopoguerra, una vasta gamma di soluzioni, ognuna ricca di effetti plastici e luministici, che solo una lunga pratica di pittore e scultore ha reso possibile, Egli ha coniato per il cantiere dell’Unité d’Habitazion a Marsiglia, la definizione di ‘Béton brut’ riferendosi all’operazione tecnica di disarmare il getto senza lavorarlo ulteriormente, a differenza di quanto facevano i costruttori francesi della scuola di Perret, che cercavano la qualità delle superfici dopo il disarmo, attraverso l’opera degli scalpellini, per imitare le superfici lavorate dei conci di pietra. Egli, al contrario, affidava la qualità di quella stessa superficie al montaggio delle casseforme, alle loro commettiture e alla qualità delle loro superfici a contatto con il getto (Cfr. Rosellini, 2013, pp. 161-168).

101 Come documentano, ad esempio, le opere di Giovanni Michelucci, Pier Luigi Nervi, Carlo Scarpa, Mario Ridolfi o Giuseppe

Samonà (Cfr. Rosellini, 2016, p.72).

FIG.1.41: IL PALAZZETTO DELLO SPORT DI ROMA, PROGETTATO DA PIER LUIGI NERVI

della pittura murale.

Esso, all’inizio, ha tardato ad essere utilizzato con un linguaggio autonomo ma, grazie alla versatilità e bassi costi, è stato spesso impiegato quale sostitutivo dei materiali più nobili. Nel corso del Novecento, ad esempio, il cemento è stato impiegato anche da scultori come Costantin Brancusi, Arturo Martini e Lucio Fontana e negli anni Trenta anche da Hans Arp, Max Ernst e Pablo Picasso che lo hanno sperimentato soprattutto nelle opere per esterni102 (Gallo,

2011, p.77). Negli anni del secondo dopoguerra, invece, dove sempre più decisivi sono diventati i materiali, la loro natura ed i processi di lavorazione, il cemento è sembrato il materiale capace di annullare ogni significato dell’opera con l’atto stesso della sua fabbricazione: ridurre un’opera d’arte alla sua costruzione, infatti, ha assunto, inevitabilmente, valori diversi per gli artisti, al punto che il processo del costruire è diventato espressivo non di una tecnica in sé, bensì di una vera e propria visione problematica e critica dell’arte stessa e della civiltà. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, dunque, il cemento è entrato nel mondo dell’arte accompagnando il lavoro e la ricerca di molti artisti che lo hanno usato per mettere in scena racconti diametralmente opposti; per le sue caratteristiche industriali e per la sua estetica essenziale, il cemento è divenuto materiale povero e minimale sia per Giuseppe Uncini che per Mario Staccioli; questi artisti, che lo hanno utilizzato in forme e tecniche variamente declinate, possono, dunque, essere indicati tra i maestri di un’arte del costruire che viene da essi indagata con modalità di volta in volta peculiari in un periodo quasi contemporaneo (Rosellini, 2016, p.70- 105).

102 Costantin Brancusi, ad esempio, ha realizzato un’opera in cemento nel 1917, in cui la superficie risulta lavorata con una patina

scura per ottenere un effetto simile al bronzo. Negli anni 30, invece, Hans Arp ha realizzato alcune sculture utilizzando il cemento come sostitutivo economico della pietra e Max Ernst ha modellato sculture da esterno con un cemento uguale a quello usato nella facciata delle sue case; Lucio Fontana ha realizzato alcune delle sue sculture astratte degli anni 30, in cemento ma colorato e graffito, mentre Pablo Picasso per il padiglione spagnolo dell’esposizione mondiale del 1937 a Parigi, ha fatto tradurre in cemento quattro opere in gesso del 1931 (Cfr. Pugliese, 2012, p. 143).

GIUSEPPE UNCINI ‘Il cemento nel bene nel male è la materia attuale del costruire

quanto la pietra lo era nel medioevo’ 103

Quella di Giuseppe Uncini104 è una storia d’amore con la materia, il cemento armato, che lui

riteneva ‘il simbolo stesso della potenza costruttiva dell’uomo contemporaneo’105 e di cui

intraprende una esplorazione sistematica sulla sua natura materica e simbolica.

Uncini approda all’uso del cemento armato dopo un lungo processo artistico da autodidatta che lo vede dapprima vicino alle tecniche del disegno, dell’incisione e della pittura106; è solo alla

fine degli anni 50 che Uncini inizia ad usare i materiali da costruzione, ovvero cemento volgare e tondini di metallo, a quel tempo impiegati unicamente nell’edilizia107 e divenuti simbolo della

ricostruzione post-bellica, affascinato sia dal processo costruttivo in quanto tale, sia dal risultato (Ferrario, Sansoni, 2016, p.144).

Aprendo la via all’uso di questi materiali nella pratica scultorea, fa dell’estetica del cemento e del ferro il marchio distintivo del suo lavoro, restando fedele a questo materiale fin quasi alla monotonia108.

103 Cfr. Intervista a Giuseppe Uncini in Pugliese, 2012, p.217.

104 Giuseppe Uncini (1929-2008), dopo gli esordi nella sua città natale, Fabriano, nel 1953 si trasferisce a Roma, dove entra in

contatto con alcune figure dell’arte italiana e internazionale residenti nella Capitale. Nel 1956-57 inizia il ciclo di opere chiamato “Terre”, tavole realizzate con tufi, sabbia, cenere e pigmenti colorati. Ma la svolta nell’evoluzione artistica di Uncini si ha con la creazione, tra il 1957 e il 1958, dei primi ‘Cementarmati’, realizzati con ferro, cemento e rete metallica che vengono esposti alla prima importante mostra personale del 1961 alla Galleria l’Attico di Roma. Entrato a far parte del Gruppo Uno con Biggi, Carrino, Frascà, Pace e Santoro, prosegue la sua ricerca con i ‘Ferrocementi’, dove il cemento estremamente levigato ha nel tondino di ferro il vero protagonista che si fa linea e limite dell’opera. Segue nel 1965 il gruppo di lavori ‘Strutture spazio’, presenti alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966 e, successivamente, la serie dei ‘Mattoni’ e delle ‘Ombre’, la cui massiccia presenza architettonica dialoga e si confronta con la propria ombra anch’essa costruita e resa volume. Gli anni ’80 sono segnati dalle ‘Dimore’, superfici che danno l’idea di un paesaggio architettonico, fino a giungere negli anni 2000 alle ‘Architetture’. L'ultima opera realizzata da Giuseppe Uncini e terminata dopo la sua morte è ‘Epistylium’ una scultura in calcestruzzo armato alta oltre sei metri, realizzata per uno spazio all'aperto del Mart di Rovereto (Cfr. http://www.archiviouncini.org/artist (2019/04/02)).

105 Enrico Crispolti ha commentato così la svolta industriale di Uncini che, dopo il ’58, ha abbandonato le terre, protagoniste, invece,

delle opere precedenti (Cfr. https://www.artribune.com/report/2011/09/uncini-cemento-ferro-vita/ (2019/04/2)).

106 Sperimenta nuovi materiali, sabbia, cenere, tufo, polvere di marmo, al posto dei colori, su supporti di vario genere quali

compensato, masonite, cellotex, tutto finalizzato alla ricerca di un peso e una consistenza fisica dell’opera d’arte.

107Per la similitudine della tecnica di Uncini con il ferrocemento divulgato da Nervi, anch’esso formato da reti metalliche e tondini,

su cui è applicato a mano il cemento, viene il sospetto che durante le visite dell’artista ai cantieri degli edifici per le Olimpiadi a Roma, egli si sia interessato alla fabbricazione dei tavelloni in ferro cemento della cupola del Palazzetto dello Sport (Cfr. Rosellini, 2016, p.78).

108 Dal 1958 fino alla morte, cemento e ferro hanno egemonizzato la sua ricerca, all’incrocio fra ‘il rigore geometrico di tipo

progettuale e la poetica evocazione della scabrosità terrestre’. Il cemento diviene, così, il mezzo per realizzare ‘un’idea fissa, costante, il costruire, lo strutturare’ (Gallo, 2011, p.77).

L’opera che inaugura questa fase è Primo Cementarmato del 1958, un lavoro nel quale si concretizza la sintesi tra quadro e supporto, che trasforma l’opera in un processo costruttivo affidato a quel materiale ed in cui avviene la scoperta del calcestruzzo armato quale materiale e procedimento per rifondare il concetto stesso di pittura, per ridurre al minimo, sino ad azzerarle, le tracce della mano dell’artista ed i colori della pittura (Ferrario, Sansoni, 2016, p.144).

Uncini prende i nuovi prodotti non per stenderli su un supporto, bensì per intraprendere un processo che lo porta a ‘costruire’ il quadro. I rituali gesti dell’artista si trasformano nelle manovre giornaliere di un operaio nel cantiere edile e il quadro diventa il prodotto di una vera e propria costruzione109 (Rosellini, 2016, p.72).

La maggior parte delle sue sculture intitolate

Cementarmato, sono realizzate con la

lavorazione tipica dell’edilizia110; all’inizio esse sono appese alla parete, come una sorta di quadri

o bassorilievi, del tutto aniconici, in cui ferri svolgono funzione compositiva, sottolineando le linee di forza delle forme; oppure emergono dal blocco incongruamente spezzati, proprio come accade nei cantieri in costruzione (Gallo, 2011, p.77).

Successivamente verranno appoggiate al suolo decretando la loro definitiva autonomia.

109 Nessun procedimento tecnico-artistico nascosto, dunque: tutto è accessibile ad una semplice analisi visiva per realizzare un

‘oggetto costruito, che non rappresentasse, che significasse solo se stesso’.

110 E’ lo stesso Uncini a descrivere la sua tecnica, che prende alla lettera, fase dopo fase, il modo di costruire dei cantieri edili:

‘[utilizzo] cemento volgare da costruzione, che lascio almeno quarantott’ore nella cassa forma. [..] qui a Roma trovo con più facilità il cemento pozzolanico. Bisogna fare più attenzione nella scelta delle sabbie. [..]ho bisogno di un cemento molto robusto e resistente per evitare che i sottili spessori che adopero si sfondino. Uso rapporto 50:50 tra cemento e sabbia. Utilizzo possibilmente sabbia di fiume, ma la granulometria la scelgo in relazione alla gettata che devo fare: ho vari setacci con cui scelgo la finezza dell’impasto. Qui a Roma si usa la sabbia del Tevere che grigiastra e mi aiuta a scurire il colore del cemento che è un po’ slavato. [..] Utilizzo il tondino di ferro specifico che si adopera per il cemento. Il cemento viene colato nelle casseforme e prende l’impronta del legno’ (Cfr. Pugliese, 2012, pp. 217-218).

L’ultimo Uncini, dal 2004 al 2008, si confronta, poi, con le dimensioni ambientali111, quasi preso

dal desiderio di giungere a una definizione monumentale del proprio lavoro. La sua preferenza incondizionata rimane comunque non verso una materia, ma verso una tecnica, il cemento, che richiede un lungo procedimento di esecuzione: come nell’affresco, la gestazione delle opere di Uncini prevede lunghi tempi organizzativi, che negano l’immediatezza del risultato, ponendo l’accento sul fare, sulla costruttività, piuttosto che sulla libertà del gesto (D’Afflitto, 2000, pp. XI- XIV). L’arte viene ridotta alla perfetta messa in opera dei materiali, è costretta a diventare espressione di un’opera eseguita a ‘regola d’arte’. Nessuno prima di lui, nella ormai decennale storia dell’uso del cemento in arte, aveva mai osato considerare che lo stesso processo di costruzione del calcestruzzo armato potesse diventare espressione artistica: la costruzione del supporto è dunque diventata per Uncini l’opera stessa. Egli può essere considerato un artista che progetta come un architetto: la sua è una tecnica che non lascia spazio all’improvvisazione negando qualsiasi dimensione gestuale; al contrario, tutto parte dal progetto, dal disegno

111 ‘Lo spazio probabilmente è la mia vera materia, cioè non il cemento. Lo spazio è inevitabile, anche se non lo si vuol pensare è lì

che esiste. Ci stiamo dentro, attorno, sopra e sotto, è finito ed infinito‘ (Cfr. Iori, 1998, p.7).

FIG.1.43: GIUSEPPE UNCINI, PRIMO CEMENTARMATO,1959 FIG.1.44: GIUSEPPE UNCINI, EPISTYLIUM,2009, L’ULTIMA OPERA REALIZZATA DALL’ARTISTA PER IL PARCO DELLE SCULTURE DEL MART DI ROVERETO ED INAUGURATA POSTUMA NEL 2009

geometrico che si fa più accurato al crescere delle dimensioni delle opere (Gallo, 2011, p. 77- 78).

Il suo è un ‘lavoro di testa’, cosicché la traduzione dell’idea originaria dell’opera è affidata all’esercizio grafico. Al disegno Uncini annette il valore di progetto, nel quale prende forma il modo di costruire: ‘Il mio costruire parte sempre dal disegno e credo che ciò sia la chiave del nostro pensiero. Nella nostra cultura, nella nostra storia, penso che il disegno sia il nostro linguaggio, il nostro modo di memorizzare le cose, di costruire. Ritengo sia molto difficile pensare senza il disegno’ (D’Afflitto, 2000, pp. XI-XIV).

Uncini, padrone della sua tecnica e con la precisa volontà di mantenere le sue opere senza cambiamenti di sorta e alterazioni dovute al tempo, aveva trovato il modo di conservare i suoi lavori differenziando il tipo di protettivo rispetto alla materia prima dell’opera: sui tondini metallici non annegati nel cemento, è stato notato l’utilizzato di una sostanza acrilica per evitare fenomeni di corrosione, mentre sul cemento in molti casi veniva utilizzato un adesivo vinilico, applicato a spruzzo, individuato dalle colature presenti sulla superficie112 (Ferrario, Sansoni,

2016, p.147).

112 E’ lo stesso Uncini a parlare dei materiali usati per la conservazione: ‘Uso anche dei protettivi sui cementi da interno perché il

cemento è molto assorbente e ho paura che si possa ferire. Adopero, sempre a spruzzo, acqua e Vinavil che penetra e irrobustisce la superficie’ (Cfr. Pugliese, 2012, pp. 217-218).

MAURO STACCIOLI ‘Ho scelto il cemento, sempre pesante, faticoso e concreto,

perché l’ho appreso in casa, da mio padre carpentiere’ 113

Come Giuseppe Uncini, anche Mauro Staccioli114 è uno scultore italiano che ha fatto dell’uso del

cemento la caratterizzazione delle sue opere, almeno nella prima parte della sua carriera artistica; a differenza di Uncini, però, che appare tutto rivolto a ottenere dall’atto costruttivo un organismo plastico autoreferente, l’uso del cemento in Staccioli è stato influenzato, come ammette lo stesso artista, ‘dalle vicende politiche e culturali degli anni 60, dall’urbanizzazione prodotta dalla rivoluzione industriale, infine dalle esperienze personali vissute a contatto con la Milano di quegli anni ‘115.

In tutte le sculture degli anni 60, ciò che si evidenzia è, infatti, l’esistenza di un denominatore plastico comune, costituito dall’impiego del cemento e del ferro in forme solide geometriche e con punte, quasi in risposta a una immersione nei contesti urbani di città come Milano, ove il rapporto tra l’individuo e la realtà urbana di quegli anni per l’artista è contraddistinto da aspetti di tensione, difesa, aggressività.116

Il passo successivo, cioè la scelta di usare l’ambiente urbano o comunque lo spazio esterno a musei e gallerie come palcoscenico di quest’arte impegnata, diventa, così, inevitabile: per Staccioli che ripensa il tradizionale ruolo dell’artista, spostare l’arte nelle piazze significa dialogare davvero con la città e con i cittadini.

113 Cfr. Alibrandi, Santini, 2012, p.7

114 Mauro Staccioli (1937-2018) nasce a Volterra dove si diploma all’Istituto d’Arte nel 1954. Nel 1960 si trasferisce in Sardegna dove

intraprende l’attività di insegnamento nella provincia di Cagliari e fonda, insieme a giovani artisti e intellettuali sardi, il Gruppo di Iniziativa. Nel 1963 si sposta prima a Lodi e successivamente a Milano dove assumerà l’incarico di direttore del Liceo Artistico di Brera nel 1974 e successivamente del Liceo Artistico Statale di Lovere (BG). Gli inizi della sua attività artistica sono saldamente intrecciati all’esperienza didattica e a quella di intellettuale e politico militante. Dopo un primo periodo in cui sperimenta la pittura e l’incisione, dalla fine degli anni Sessanta si dedica quasi esclusivamente alla scultura, concentrandosi sul rapporto tra arte e società e sviluppando l’idea di una scultura che si pone in stretta relazione con il luogo - inteso nella sua concezione sia fisica che sociale - nel quale e per il quale è stata realizzata. Elabora quindi ‘sculture-intervento’ che si pongono in profonda relazione con gli spazi nei quali vengono collocate (Cfr. http://www.maurostaccioli.org/index.php?biografia (2019/04/06)).

115 Nell’intervista rilasciata a Marina Pugliese, infatti, Staccioli afferma di assumere la città come punto di riferimento: ‘il suo rumore

la sua condizione esistenziale diventano il mio nucleo riflessivo, il punto di riferimento di un discorso artistico. Allora assumo anche materiali della città, i materiali urbani, il materiale dell’edilizia [..] Così ho cominciato a fare casseforme, gettate in cemento, a costruire quelle che chiamo “condizione barriera”: blocchi di cemento con inserti appuntiti di ferro. “Condizione” o “situazione barriera” perché eravamo in un momento di grandi tensioni’ (Cfr. Pugliese, 2012, pp. 211-213).

116 L’attività scultorea di Staccioli, dunque, non può prescindere dal contesto sociale, politico e culturale di quegli anni, ma anzi va

concepita come piena partecipazione alla realtà quotidiana: l’originalità del suo lavoro sta proprio nel suo intento sociale, evidente nel momento in cui la scultura non si offre solo per essere guardata, ma apre la strada a scontri, dibattiti e prese di posizione che rivelano un autentico approccio critico (Cfr. Santini, 2012, p.30-32).

Questa svolta avviene con la sua prima mostra personale Sculture in città , realizzata a Volterra nel 1972117 dove si fa evidente l’assunto principale dell’artista: la declinazione del suo lavoro in

senso strettamente ambientale, sia che si tratti di un contesto urbano che di quello naturale. La sua non è un’operazione che trasforma la struttura dello spazio o che esiste solo in quanto legata alla natura, ma, al contrario, egli, con la scultura, evidenza le caratteristiche fisiche, architettoniche, storiche, culturali o estetiche dei luoghi in cui è inserita, riattivandone la percezione; la scultura di Staccioli, pensata per un preciso contesto e realizzata direttamente nel luogo, finisce per abitare lo spazio caricandolo di nuovi significati e riattivando energie inespresse nel contesto urbano118.

Della prima impostazione linguistica e formale degli anni Sessanta, Staccioli mantiene vivo l’interesse per i materiali edilizi scelti come supporto costruttivo, accordando ancora la sua preferenza al cemento come materiale più affine alla sua sensibilità; Il cemento prestandosi a molteplici possibilità, permette, infatti, la realizzazione di ogni forma e di ogni dimensione. Staccioli adotta un vocabolario di forme primarie, essenziali, dove l’elemento geometrico non è mai ricercato per le sue intrinseche qualità formali, quanto piuttosto per la sua capacità di comunicare al meglio il messaggio ed inserirsi perfettamente nei diversi contesti.

Nelle sue creazioni, le forme sembrano caratterizzate da un desiderio costante di semplificazione che le rende immediatamente comunicabili, come negli esempi di Venezia, Pistoia o Prato.

Del 1978 è la realizzazione della sua installazione più radicale, il Muro, creata in occasione della Biennale di Venezia di quell’anno: l’opera, un muro di otto metri costruito in posizione centrale di fronte al viale di accesso al Padiglione Italia, ne ostruisce il passaggio e ne impedisce la visione, imponendo a chi entra una deviazione dal percorso consueto e costringendo a superare un ostacolo per godere della fruizione dell'oggetto di interesse ludico-culturale: la celebrazione dell'evento artistico; allo stesso modo, nel percorso opposto ne impedisce il ritorno. Il lavoro,

117 La mostra, curata da Enrico Crispolti, è stata organizzata a Volterra nel luglio 1972: da quel momento Staccioli definisce il suo

modo di fare scultura, focalizzando l’attenzione sulla vita e l’ambiente urbano. La mostra Sculture in città segna così una svolta per l’artista, aprendo agli spazi urbani quel che fino ad allora era relegato solo negli spazi chiusi di gallerie e musei; Staccioli ricerca e genera una ‘scultura-segno ’ che nasce dall’attenta osservazione di uno spazio e che dialoga con esso sottolineandone le caratteristiche e alterandone la consueta percezione. Dalla mostra del 1972 prenderà poi corpo la successiva manifestazione Volterra ’73, sempre curata da Enrico Crispolti, che apre la strada a questo nuovo modo di intendere la scultura (Cfr. http://www.galleriailponte.com/it/mauro-staccioli-it/ (2019/04/07)).

118 Secondo Santini (2012, p.33), Staccioli sembra portare a compimento le premesse della Land Art americana, che manifesta la

presa di coscienza delle conseguenze dell’azione dell’artista sull’ambiente naturale e viceversa, senza modificare fisicamente l’ambiente ma alterando la percezione che un osservatore di quel luogo può avere. Si tratta insomma della proposta di un modello italiano, addirittura toscano che si sviluppa cronologicamente negli stessi anni in cui la Land Art si sta affermando a livello internazionale.

progettato ed eseguito sul posto, è un intenzionale barriera, un ostacolo critico nel contesto: una provocazione e un'ipotesi per un diverso rapporto fruitivo con l'ambiente. (Gelmini, 2008, pp. 52-53).

Nel 1982 è tra gli scultori chiamati a dare inizio a quello straordinario esperimento di arte ambientale che è la Collezione Gori a Pistoia: nel parco della villa costruisce in cemento un imponente frammento di triangolo, Scultura Celle, che, come una lama, s’incunea in un bosco che delimita il sentiero alterando la prospettiva del paesaggio, quasi fosse un ‘inciampo del tempo’ (Fiz, 2018, p.8). Gran parte del triangolo sembra essere sprofondato nel terreno, mentre

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