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LAND ART Dopo Fontana, dunque, la ricerca ambientale si fa più immateriale ed acquista la particolare

ARCHITETTURA ED ARTE COME AMBIENTE

1.3.2 LAND ART Dopo Fontana, dunque, la ricerca ambientale si fa più immateriale ed acquista la particolare

attitudine a comprendere il fenomeno spaziale; il concetto stesso di arte, a questo punto, subisce un profondo ed ennesimo mutamento.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, gli artisti prendono in considerazione spazi vastissimi, all’interno dei quali lasciare il proprio segno artistico; l’esplorazione del deserto, o di aree comunque poco accessibili, è divenuta occasione di indagine e di riappropriazione di spazi fisici e concettuali, che molti artisti scelgono tra i luoghi del ‘non costruito’ (Pettena, 2006, p.46), che permettevano loro di creare, con gesti poetici, nuove strategie di progetto e di linguaggio, iniziando un nuovo rapporto con l’ambiente.

Nei tardi anni Sessanta nacque, infatti, la corrente variamente denominata Earth Art o Land Art176 per definire quelle operazioni artistiche che andavano oltre le aree urbane e gli spazi

espositivi dell’arte, intervenendo direttamente nei territori naturali. Lo sviluppo maggiore e più spettacolare di questa tendenza ha luogo negli Stati Uniti, dove gli artisti erano affascinati soprattutto dagli immensi spazi incontaminati come deserti, laghi salati o praterie, una dimensione naturale assoluta che si opponeva dialetticamente all’artificialità e geometrica monumentalità delle metropoli, rappresentando l’altra faccia dell’identità geografica americana. L’operazione non è stata ovviamente quella di collocare delle sculture nella natura, ma di utilizzare lo spazio ed i materiali direttamente come mezzi fisici dell’opera, attraverso interventi in grande scala.

Va notato che la quasi inaccessibilità dei luoghi ed il progressivo degrado degli interventi per i quali non era prevista alcuna pratica conservativa, tendevano a rendere queste opere praticamente invisibili ed immateriali; quello che ancora oggi rimane da vedere, come progetti, foto o filmati, sono reperibili solo nelle gallerie e nei musei, proprio quegli spazi separati da cui volevano sfuggire agli artisti.

Spesso, infatti, gli interventi potevano essere percepiti solo mediante riprese fotografiche e cinematografiche realizzate da aerei, il che poneva il non facile problema della fruibilità da parte del pubblico verso realizzazioni di questo tipo. Del resto, questi artisti anteponevano al risultato finale delle loro creazioni, l’atto del pensare e la fatica anche organizzativa di realizzarli: l’incisività di ogni operazione di questo genere, infatti, stava soprattutto nel gesto o meglio nell’intenzione progettuale (Crispolti, 2004, p.31), con il quale l’uomo, utilizzando le forme della natura, modificava la natura stessa, anche se in modo spesso effimero.

176 Il termine Earth Art deriva da ‘Earthworks’, il titolo di una mostra che si è tenuta a New York, alla Dwan Art Gallery, nel 1968,

mentre Land Art è il titolo del film di Gerry Schum del 1969 che, come la mostra, documentava il lavori di Walter De Maria, Robert Smithson, Michael Heizer, Dennis Oppenheim, Richard Long ed altri (Cfr. Poli, 2015, p.185).

Dal punto di vista delle configurazioni formali, questi interventi avevano spesso un carattere minimalista, anche se entravano in gioco valenze molto diverse legate alla specifica natura dei materiali utilizzati, ma anche alle specifiche ricerche processuali.

La Land Art ha operato, infatti, sull’ambiente con modalità differenti a seconda delle poetiche di ciascun autore: si va da interventi mirati a provocare una minima alterazione del paesaggio come la semplice azione del camminare, o la realizzazione di sculture temporanee utilizzando materiali trovati sul posto, ad interventi massicci che hanno raggiunto la stessa maestosa grandiosità di un evento atmosferico o di un cataclisma naturale, con sbancamenti di terra nel deserto, trasporto di massi o scavo all’interno di vulcani, tutti sempre accomunati dal legame con il sito in cui l’intervento viene condotto, in quanto è il luogo stesso a farsi opera d’arte. Il caso più eclatante di questa tipologia è la Spiral Jetty (1970) che Robert Smithson177 ha fatto

costruire sulla costa del Great Salt Lake nello Utah: si tratta di un’impressionante passerella a forma di spirale, costruita con materiale prelevato dalla collina vicino, cristalli di sale e basalto, messo in opera con l’ausilio di imponenti mezzi meccanici per il movimento della terra178. Le

sue dimensioni sono notevoli: il diametro è di 460 m, l’estensione 1450 m. L’effetto che ne deriva, continuamente mutevole a seconda delle maree e delle condizioni di luce, allude a un gigantesco gorgo d’acqua. Come riporta Rosalind Krauss (2000, p.283), la forma della spirale si riferiva a una leggenda del luogo che, spiegando la salinità dell’acqua, riteneva che il lago fosse collegato all’oceano e che le sue correnti provocassero gorghi enormi.

In questo senso, la grande spirale si proponeva come un omaggio alla natura che alla natura ritornava (Dorfles, Vettese, 2015, p.402): dopo la sua conclusione, infatti, è cominciata l’opera, in parte imprevedibile, dell’acqua salata che l’ha sommersa parzialmente per un innalzamento del livello del lago, ricoprendola di microrganismi; il sale, inoltre, più concentrato verso il centro della spirale, ha reso l’acqua in quel punto rosso-violacea. L’opera è riemersa successivamente in un periodo di siccità.

177 Robert Smithson (1938-1973) ha esordito come pittore espressionista astratto per avvicinarsi poi la scultura minimalista. Il suo

ingresso nell’ambito della Land Art è scandito dalla serie di lavori denominati ‘site’ e ‘non site’ (luogo e non luogo), basati sull’operazione di portare la natura all’interno della galleria, mettendo in comunicazione esterno e interno. Nel 1967 concepì le prime sculture fatte di roccia, cristallo, sale e specchi, create in relazione al luogo che veniva sintetizzato nei materiali dell’opera che da esso erano stati trasportati. Smithson ha perso la vita in aereo mentre perlustrava un luogo adatto alla costruzione di un’opera nel Texas (Cfr. Cricco, 2012, p.2117).

178 La costruzione dell’opera è documentata da un video girato da un cameraman dell’Ace Gallery di Los Angeles, ma anche dallo

stesso Smithson i cui diari sono stati pubblicati in Flam J. (a cura di), 2015, Robert Smithson: The Collected Writings, Berkeley, University of California Press, come citato in Perelli, 2006, pp.82-83.

FIG.1.82:ROBERT SMITHSON, SPIRAL JETTY,GREAT SALT LAKE,UTAH,1970

Agendo con metodi simili a quelli di Smithson, Michael Heizer179 ha disegnato sul deserto del

Nevada, come fosse un foglio di carta, Double Negative180 (1969-70), un’opera formata da due

enormi scavi di forma regolare, realizzati spostando, con l’aiuto di ruspe, ben 240.000 tonnellate di pietra arenaria e riolite; gli scavi erano profondi 15 metri e larghi 10 ed erano posti uno di fronte all’altro come a formare due canyon artificiali, in asse tra loro e solcati nel mezzo dal declivio naturale del terreno. A differenza dell’intervento di Smithson, però, questa installazione più invasiva, ha richiesto molto lavoro meccanico e studi preliminari181.

179 Michael Heizer (1940), figlio di un archeologo, si è recato, fin da bambino, nei siti preistorici. Dal 1967, poi, ha iniziato a realizzare

enormi scavi nel deserto impiegando mezzi pesanti come bulldozer e scavatrici, con cui ha tracciato vasti disegni simili a cicatrici. Cfr. Borromeo, 2011, p.196

180 Double Negative è stata acquisita nella collezione permanente del MOCA, il Museo di Arte Contemporanea di Los Angeles nel

1985 (Cfr. https://www.moca.org/visit/double-negative (2019/05/28))

181 Come ricorda Celant (1970, p.16), il lavoro, avvenuto su due opposti versanti, è durato circa 8 mesi ed ha visto l’impiego di

scavatrici e camion che sono stati affittati da Heizer, come in ogni suo lavoro ambientale, permettendogli di eseguire l’opera.

Lo stesso può dirsi per l’intervento più celebre di Walter De Maria182, il Lightning Field (1971-77),

che l’artista ha realizzato piantando quattrocento pali di acciaio inossidabile nel deserto del New Messico; le sbarre emergevano più o meno dal terreno, seguendone le ondulazioni, in modo da creare con le loro punte, idealmente, una superficie piana. Esse, inoltre, agivano da parafulmine per i frequenti temporali della zona ed era possibile, in particolari condizioni, vedere i lampi scaricarsi a terra durante le visite, che, per volere dell’artista, richiedevano una permanenza sul luogo di almeno un giorno, così da partecipare a tutte le incidenze naturali183.

De Maria, dunque, ha cercato la complicità della natura per mettere in scena un evento straordinario: l’opera, che viveva in una strana simbiosi tra la tecnologia dell’acciaio e l’energia primordiale del lampo, sembrava concepita per l’attesa di un istantaneo bagliore che ne definisse compiutamente l’immagine (Bordini, 2011, p.133), rievocando il senso di sublime insito nella natura che pervade quest’opera ed in generale tutti gli interventi di Land Art.

Anche James Turrell184 si rivolge al cielo come fonte di luce: da oltre trent’anni l’artista lavora al

Roden Crater, un'opera creata all'interno di un cratere vulcanico nel deserto dell'Arizona, che l’artista vorrebbe trasformare in un contenitore di luce ed osservatorio della volta celeste185.

Esso, colossale metafora del rapporto tra naturale ed artificiale, può essere considerato un vero e proprio ‘monumento alla percezione’186, un'opera visionaria in cui architettura, ingegneria,

astronomia, e geologia, si fondono a formare un luogo di luce, spazio e tempo. Minimamente invasivo per il paesaggio naturale esterno, all’interno la costruzione è, invece, uno spazio

182 Walter De Maria (1935-2013) ha iniziato il suo percorso come pittore, per poi avvicinarsi alla scultura e all’arte minimalista, nel

clima di fermento culturale che animava gli happening di San Francisco e New York nei primi anni ’60. E’ una figura di riferimento dell’arte americana e fra i primi artisti a lavorare sulla relazione tra arte e ambiente naturale, con opere che hanno orientato gli sviluppi della Land Art (Cfr. http://www.walterdemaria.org/ (2019/04/27)).

183Commissionata dalla Dia Art Foundation, un’organizzazione che sostiene progetti di arte contemporanea di New York, l’opera

si offre alla fruizione mediante fotografie e video oppure direttamente a coloro che desiderano assistere di persona all'evento. L'installazione, infatti, è visitabile da maggio a ottobre, ma il flusso turistico è regolato da norme molto rigide: dopo un viaggio di circa due ore, i pochi visitatori ammessi di volta in volta vengono sistemati in un ambiente di tre stanze a quaranta minuti dall'opera (Cfr. https://www.diaart.org/visit/visit/walter-de-maria-the-lightning-field (2019/04/25)).

184 James Turrell (1943) è un artista statunitense, i cui lavori vertono principalmente sulla percezione della luce e dello spazio. Egli

si è dedicato in particolar modo alle modalità della percezione umana in ambienti controllati, o in condizioni di alterazione percettiva, assieme al collega Robert Irwin e allo psicologo della percezione Edward Wortz. Nel 1974, grazie al finanziamento del conte Panza di Biumo, collezionista italiano, ha realizzato i primi disegni per quella che sarebbe rimasta la sua opera più celebre, il Roden Crater che voleva trasformare in un ‘monumento alla percezione’ (Cfr. http://jamesturrell.com/ (2019/04/25)).

185 Il cratere è stato infatti acquistato nel 1977 e la sua complessa costruzione non è ancora terminata; hanno partecipato alla

progettazione noti astronomi tra cui il direttore del Griffith Observatory di Los Angeles, e un astronomo dell'Osservatorio Navale degli Stati Uniti, per calcolare lo scavo e allineamento delle gallerie e delle aperture del cratere.

sofisticatissimo di aree destinate alla sperimentazione e contemplazione della sfera celeste in tutte le sue forme, che comprende una serie di corridoi, tunnel e sale scavate sottoterra 187.

Se la monumentalità, la spettacolarità e la posizione, che richiede un viaggio apposito per la visita, avvicinano quest’opera alla Land Art, la complessità e l’ampiezza dell’impresa la possono catalogare, invece, in un’opera di architettura dalla prospettiva contemplativa, meditativa e lirica (D’angelo, 2001, p.185).

187 La prima fase importante della costruzione comprendeva il movimento di oltre 1,3 milioni di metri cubi di terra per modellare la

ciotola del cratere e la costruzione del tunnel est. Come riporta il sito web dell’opera, sono stati completati sei spazi, tra cui due dei più difficili, la modellatura del cratere e il tunnel alfa ad est. Una volta completato, il progetto conterrà 21 spazi di visualizzazione e sei gallerie (Cfr http://rodencrater.com/ (2019/04/25)).

Una personalità a parte, comunque fortemente legata alle tematiche della Land Art americana è quella di Christo188: egli lavora sia su scala urbana, sia territoriale, realizzando opere dalle

dimensioni quasi sempre colossali, con la differenza fondamentale legata alla transitorietà delle realizzazioni che sono effimere e non danno luogo a manufatti durevoli.

L’operazione fondamentale che caratterizza la poetica di Christo e della moglie Jean-Claude è quella dell’impacchettamento, condotta su scala sempre maggiore: partendo da singoli oggetti quotidiani, come bottiglie, libri, arredi, automobili, nel corso degli anni i due artisti sono arrivati ad impacchettare, con ettari di teli e chilometri di corde, musei, coste, vallate e monumenti come ad esempio le Mura Aureliane a Roma (1974)189 o l’intero Reichstag (1995), il palazzo del

parlamento a Berlino190, celando forme architettonicamente note all’interno di informi e anonimi

fagotti. L’operazione, intellettualmente coltissima, ottiene un risultato paradossale: nascondendo una cosa, in realtà ce lo rivela con maggior forza.

Altre volte ha realizzato interventi ugualmente spettacolari: dalle contemporanee Valley Curtain (1972) e Running Fence (1972), muraglie di tessuto che si addentravano rispettivamente presso una montagna nel Colorado e nell’entroterra agricolo californiano, a Surrounded Islands (1983) dove 11 isole artificiali presso Miami in Florida, sono state circondate da una larga cortina di tessuto in polipropilene di colore rosa. L’operazione condotta in questo caso non è stata quella solita dell’impacchettamento, bensì di incorniciatura di elementi naturali con strumenti artificiali, sancendo una inedita unione tra i due aspetti (Cricco, 2012, p.2119).

Tutti gli interventi di Christo e Jean-Claude, tuttavia, sono concepiti per durare un tempo limitato, che è inversamente proporzionale alla loro monumentalità; così queste opere, come nel caso della Land Art, restano, comunque, documentate da moltissime fotografie, film, e dal materiale preparatorio come disegni, modellini e collage, predisposto dall’artista stesso per l’autofinanziamento191.

188 Christo Vladimirov Javacheff (1935), scultore di origine bulgara formatosi tra Sofia, Praga, Vienna e Parigi dal 1961 ha iniziato a

collaborare con Jean-Claude Denat de Guillebon (1935-2009), sua compagna di vita e di arte. Egli non ha fatto propriamente parte del movimento, anche se lo troviamo insieme a molti artisti della Land Art nella mostra Earth, fire, water. Elements of Art allestita nel 1971 al Boston Museum of fine Arts (Cfr. D’Angelo, 2001, p.185).

189 Nel febbraio e marzo 1974, per un periodo di 40 giorni, una sezione lunga 820 piedi delle Mura Aureliane fu avvolta in

polipropilene e corda, coprendo entrambi i lati, la parte superiore e gli archi del muro. Quaranta operai edili hanno lavorato completando l'opera in quattro giorni (Cfr. https://christojeanneclaude.net/projects/the-wall---wrapped-roman-wall (2019/04/27)).

190 The Wrapped Reichstag rappresenta 24 anni di sforzi nella vita degli artisti: la confezione del Reichstag fu, poi, completata il 24

giugno 1995 da una forza lavoro di 90 scalatori professionisti e 120 operai. Per realizzare l’opera sono stati utilizzati 100.000 metri quadrati di tessuto di polipropilene e 15,6 chilometri di corda di polipropilene blu. Il Reichstag è rimasto avvolto per 14 giorni (Cfr. https://christojeanneclaude.net/projects/wrapped-reichstag (2019/04/27)).

191 A differenza di molti artisti, finanziati dalle gallerie, Christo si fa un punto d’onore a non ricorrere a finanziamenti privati, perché

vede in questo mecenatismo, un vincolo ed un paradosso per un’arte che aveva esordito anche come forma di protesta nei confronti del circuito dell’arte tradizionale (Cfr. D’angelo, 2001, p.186).

Anche nell’opera di Christo possiamo trovare una grande importanza assegnata alla progettualità, che presuppone un rapporto assai mediato tra l’opera e l’artista: proprio la necessità di ricorrere ad ardite soluzioni tecniche, materiali sofisticati, all’aiuto di intere squadre di maestranze, strumenti meccanici e numerose professionalità come tecnici ed ingegneri, allontana l’artista da un contatto reale con la natura, configurandolo più come una sorta di direttore dei lavori che coordina il progetto.

(IN SENSO ORARIO) FIG.1.86: CHRISTO E JEAN-CLAUDE, WRAPPED REICHSTAG, BERLINO,1971-95; FIG.1.87: THE WALL - WRAPPED ROMAN WALL, ROMA,1973-74; FIG.1.88: SURROUNDED ISLANDS, FLORIDA, 1980-83; FIG.1.89: RUNNING FENCE, CALIFORNIA,1972-76.

Lo stesso si può dire dell’unica opera di Land Art presente in Italia, il Grande Cretto di Gibellina, dove l’artista Alberto Burri192 qui è solo il progettista dell’opera, che è stata realizzata, invece,

dagli operai con la supervisione di un direttore dei lavori193.

Quest’opera, considerata da Bruno Corà ‘la più importante del XX secolo insieme a Guernica’194,

costituisce un unicum nel percorso artistico di Burri, che, famoso per le sue sperimentazioni che hanno dato origine, tra le altre, alla serie dei sacchi, delle combustioni, dei ferri, dei legni e dei cretti195, ha realizzato a Gibellina uno dei luoghi più inconsueti ed evocativi del paesaggio

italiano, dove la natura, la storia, e la sua visione di artista hanno prodotto una diversa geografia. Dopo il terribile terremoto che colpì il Belice nel 1968, quando molti artisti ed architetti sono stati invitati a contribuire al progetto di ricostruzione della una nuova città196, Alberto Burri

decise di lasciare il proprio contributo nella vecchia Gibellina, ricoprendone le macerie con una colata di cemento bianco (Recalcati, 2018, p.9).

La volontà era quella di realizzare un cretto a scala territoriale, cioè un grande quadrato bianco di 300 x 400 metri circa, che facesse assumere nuova vita e significati alle macerie dell’antico

192 Alberto Burri (1915-1995) è uno tra gli artisti italiani che hanno dato il maggior contributo al panorama artistico internazionale

del secondo dopoguerra. La sua ricerca ha spaziato dalla pittura alla scultura, avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia, spesso già logora e consumata, sulla quale interviene con strappi e bruciature accostati a piatte campiture di colore, andando ad occupare un posto di primo piano nella corrente artistica definita ‘Informale’, movimento nato a Parigi nel secondo dopoguerra. Nella sua poetica è sempre presente, il concetto di ‘consunzione’ che raggiunge il suo maggior successo con la serie dei ‘cretti’ che inizia dagli anni Settanta in poi e che costituisce l’ultima fase della sua opera.

193 Sembra, anzi, che Burri si sia recato sul cantiere una sola volta il 23 maggio 1987, ma che abbia espresso chiaramente le sue

intenzioni sull’esecuzione dell’opera, che doveva avere tutte le caratteristiche dei suoi lavori dal punto di vista formale (Cfr. https://vimeo.com/156048627?ref=fb-share&1 (2019/04/08)).

194 Intervento di Bruno Corà al convegno ‘Linee d’energia, oltre il museo’ tenutosi a Torino il 12-13 aprile 2018 (Cfr:

http://www.igiic.org/?p=3978). Tra le due opere, secondo il critico, c’è un’attinenza di intenti: come Guernica di Picasso raffigura il terribile bombardamento nazifascista sulla città basca, anche il Cretto di Burri, realizzato in seguito al terremoto del Belice del 1968, è un’opera d'arte che, oltre a commemorare la tragedia, continua ad evocarla.

195 Burri si applica ai Cretti a partire dai primi anni Settanta e sino al 1976. Sono superfici che ricordano le fessurazioni delle terre

argillose, quando la siccità raggiunge il suo apice. Su superfici di cellotex, quadrate o rettangolari, distende un impiastro di bianco, di zinco e colle viniliche, aggiungendo terre colorate nel caso l’opera dovesse presentare sfumature o colori diversi. Il resto lo affida al processo di essiccamento. Con l’aumentare delle dimensioni dei Cretti, gli impasti si arricchiscono anche di caolino, oltre che di bianco, di zinco e terre. A garantire la stabilità delle superfici Burri interviene, dopo l’essiccatura, con più mani di vinavil. Giunge a realizzare opere decisamente monumentali come i Cretti di 5 metri di altezza e 15 metri di base per i musei di Capodimonte e di Los Angeles. (Cfr. https://www.fondazioneburri.org/news/iniziative-centenario-nascita-alberto-burri.html (2019/04/08))

196 La città vecchia di Gibellina, infatti, venne distrutta nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 da un violento sisma che colpì una

vasta area della Sicilia occidentale a cui seguì la fase di ricostruzione del paese che fu realizzato ex novo circa 20 chilometri più a valle. Architetti e artisti di tutto il mondo offrirono i loro contributi alla ricostruzione, invitati dal sindaco, Ludovico Corrao, il quale riteneva che per restituire l’identità della città distrutta dal terremoto occorressero l’arte e l’architettura: tra questi Ludovico Quaroni, Francesco Venezia, Franco Purini, Pietro Consagra, Carla Accardi, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino. Nel 1984 fu invitato anche Burri(Cfr. Zorzi, 1995, p.59).

insediamento, mantenendone in parte l’impianto urbano. Ne doveva nascere un labirinto realmente percorribile, con le singole ‘isole’ alte 160 cm per permettere una visione globale dell’opera in cui i cretti dovevano rappresentare nuovi percorsi di profondo coinvolgimento emotivo197.

Questo intervento, dunque, più che un’opera d’arte in senso stretto, può essere concepito come un intervento

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