• Non ci sono risultati.

Cenni storici: l’evoluzione dell’ordine pubblico nello Stato liberale e nell’Italia fascista

Sembra opportuno a questo punto fare dei brevi cenni storici che tratteggino, seppur approssimativamente, l’evoluzione di questo concetto e delle sue applicazioni, individuando alcune tappe fondamentali nell’evoluzione della materia1.

La prima tappa coincide con la promulgazione delle leggi di unificazione (legge 13 novembre 1859; legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865, n.2248, allegato B) e con il codice civile del 18652, disposizioni che, pur se relative a campi diversi del diritto, riportavano tutte l’espressione “ordine pubblico”, rendendo così evidente la diversità dei modi e degli ambiti di applicazione di tale concetto e la necessità, dunque, di formularne diverse nozioni a seconda dell’ambito di intervento (civile, internazionale privato, costituzionale, amministrativo, penale), comunque riducibili ad una partizione di fondo: diritto civile e diritto internazionale da un lato, diritto costituzionale e diritto penale dall’altro.

In questi testi si cominciava a distinguere, all’interno del novero dei reati contro l’ordine pubblico, quelli contro la giustizia e l’amministrazione da quelli lesivi della sicurezza e della tranquillità pubblica – lesivi quindi dell’ordine generale, essendo qui declinata la tranquillità non come obiettivo finale, ma come oggetto specifico della fattispecie criminosa – e venivano altresì definiti questi ultimi due concetti, interpretando la sicurezza come effettiva garanzia dei beni essenziali dello stato civile e la tranquillità pubblica come piena consapevolezza di tale garanzia3.

Se con la legge di pubblica sicurezza del 1865 l’ordine pubblico veniva definito come uno degli interessi pubblici legittimanti gli interventi dell’autorità di pubblica sicurezza (espulsione degli stranieri; cessazione o sospensione degli spettacoli, scioglimento delle riunioni) volti a limitare l’esercizio di un’attività materiale costituente manifestazione di libertà, con le leggi di unificazione furono definiti per la prima volta i compiti della pubblica sicurezza: controllare l’osservanza delle leggi, assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico e prevenire i reati, ponendo così le basi delle misure di prevenzione4. Queste ultime, essendo affidate alla piena discrezionalità dell’esecutivo,

1 Seguendo la ricostruzione effettuata in materia da P.BARILE, La pubblica sicurezza, Vicenza, Neri Pozza, 1967, p. 12 ss. 2 Cfr. La nascita dello Stato unitario. Libri, periodici e stampe della Biblioteca della Camera dei deputati, Centro riproduzioni e

stampa della Camera dei deputati, Roma, 2011.

3 Cfr. G.FILANGIERI, La scienza della legislazione, Milano, 1855, p. 727.

4 Amato sottolinea come l’amministrativizzazione delle misure preventive avesse comportato la sopravvivenza di queste alla

scomparsa del regime assoluto e come questo espediente avesse fatto sì che esse introducessero anche nello stato liberale la “pena del sospetto”: cfr.P.BARILE, La pubblica sicurezza, cit., p. 22.

costituirono pesantissimi limiti alle libertà della persona, di domicilio, di soggiorno, di circolazione: limiti che allargarono ulteriormente il loro ambito di applicazione con l’emanazione del T.U. del 1889, in seguito al quale le misure vennero dirette dichiaratamente contro le “classi pericolose alla società”, formula assolutamente generica che comportò un aumento dei rischi derivanti dall’eccesso di discrezionalità.

Con la nuova disciplina si introdusse per la prima volta nel codice penale un titolo dedicato ai delitti contro l’ordine pubblico5, venne sostituita la locuzione “tranquillità pubblica” con “ordine pubblico” e si anticipò la soglia della punibilità dei reati contro quest’ultimo, includendo reati di pericolo e arrivando così a far coincidere il momento preventivo con quello repressivo.

Si andava delineando, dunque, un ordine pubblico di polizia che, non esaurendosi nella sicurezza e nel buon costume, garantiva all’autorità di pubblica sicurezza la facoltà di adottare provvedimenti anche al di fuori di questi ambiti: la tendenza (destinata ad influenzare anche la disciplina successiva) era quella di avvicinare la legislazione penale e quella di polizia6.

Tuttavia, nel complesso, la situazione generale nel campo della pubblica sicurezza appariva sostanzialmente statica e, soprattutto, ancorata legislativamente e giudizialmente ai canoni della riserva di legge e della riserva di giurisdizione7. Ed è proprio questo che ha fatto ritenere a parte della dottrina che la legge crispina fosse “la più liberale fra le leggi di polizia italiane”8, dal momento che

con essa si tentò di eliminare i riferimenti generici all’ordine pubblico per sostituirli con indicazioni puntuali di situazioni e attività con esso contrastanti.

Si può avere conferma di questo orientamento guardando ai lavori preparatori al codice penale del 1899, in cui avvenne il passaggio dalla concezione c.d. ideale o lata dell’ordine pubblico (che comprende la tutela di valori come la religione, la proprietà) ad una concezione materiale di questo: l’ordine pubblico come sicurezza della società. E si può dire che, pur non essendo esente da ambiguità, fosse questa l’accezione di ordine pubblico che emergeva dalla legislazione penale, dalla legislazione di polizia e dall’interpretazione dottrinale che eradominante nello Stato liberale.

In merito al dibattito dottrinale in materia, si può affermare che nello Stato liberale furono sostanzialmente due le interpretazioni che alimentarono le discussioni relative alle possibili articolazioni dell’ordine pubblico ed al conseguente rapporto con le libertà che da questo potevano

5 Come riferisce G. Corso, tale denominazione inizialmente era stata bocciata dalla commissione ministeriale che doveva

predisporre il progetto, perché ritenuta « “troppo generica in quanto offendono l’ordine pubblico non soltanto i reati preveduti in questo titolo, ma anche parecchi altri collocati altrove” (…) tutti i delitti ledono l’ordine pubblico, per cui sarebbe illogico isolarne alcuni come specificamente rivolti contro di esso: “a prescindere da ogni discussione dottrinale, il progetto considera come reato contro l’ordine pubblico ogni fatto che, per la varietà delle offese e per la diffusione di cui è suscettivo, attacca il buon aspetto e perturba il regolare andamento del vivere civile, ancorché non sia stata recata una lesione immediata a verun diritto privato o pubblico”», cfr. G. CORSO, Ordine pubblico, b) Diritto pubblico, in Enc. Dir., XXX, Giuffrè, 1980, pp. 1058-1059.

6 Cfr. C.FIORE, Ordine pubblico (diritto penale), in Enc. Dir., XXX, Milano, 1980, p. 1088. 7 P.BARILE, La pubblica sicurezza, cit., p. 25.

essere limitate. La prima partiva da una concezione dell’ordine pubblico comprensiva di tutti i valori tutelati dalla legge penale e questo, se da un lato comportava che la potestà di polizia fosse ancorata al rispetto della legge penale, per altro verso causava anche una dilatazione a dismisura dell’area di intervento riservata alla pubblica sicurezza, non essendo necessarie singole disposizioni che le conferissero specifici poteri9.

Oreste Ranelletti, principale esponente di questa parte della dottrina, sosteneva che, essendo l’ordine pubblico, la sicurezza, il buon costume tutte declinazioni di un ordine pubblico generale, “dovunque è il delitto o la minaccia di questo la polizia deve intervenire [...] indipendentemente da una legge che le accordi espressamente tale facoltà […] perché la facoltà di intervenire deriva dalla stessa ragione di esistenza della polizia di stato”10. In altre parole, nell’ottica di rendere certo e determinato il limite costituito dall’ordine pubblico per le situazioni giuridiche e per i diritti di libertà, si considerava quest’ultimo equivalente al generale ordine giuridico11.

Si recuperava un criterio finalistico, tipico degli ordinamenti assoluti, facendo sì che le potestà di polizia si espandessero nuovamente riconquistando la loro pienezza e che il principio di legalità venisse rispettato solo per un verso, e cioè con riguardo alle leggi che individuavanofigure di reato, e risultasse violato con riguardo alle leggi che attribuivano poteri di polizia e ne disciplinavano presupposti e modi di intervento12.

Fra i principali e più autorevoli esponenti della seconda linea interpretativa, troviamo Santi Romano, il quale attribuiva al cittadino, non una pluralità di diritti di libertà, ma un unico, fondamentale diritto di libertà: la pretesa di astensione da parte dello Stato da comportamenti illegali. Non riconoscendo l’ordinamento statutario una sfera intangibile di libertà al cittadino, la legge non trovava limiti nelle libertà di quest’ultimo, ma definiva l’ambito di queste libertà e segnava, quindi, il confine oltre il quale il potere amministrativo non poteva andare se non agendo come un semplice privato e facendo perciò emergere il diritto di resistenza dell’altro privato.

Per Ranelletti la teoria dell’ordine pubblico si traduceva in una plusvalenza dell’amministrazione sulla legge, mentre per Romano il principio di legalità, in cui si risolvono i diritti di libertà, veniva ad assumere il carattere di pilastro dello Stato di diritto.

Questi due indirizzi, fino agli inizi del Novecento, caratterizzarono e influenzarono variamente le linee perseguite dai vari legislatori, così che a volte risultò accentuata la tendenza a giustificare

9 Cfr. G.CORSO, L’ordine pubblico, cit., pp. 123 ss.

10 Così O.RANELLETTI, La polizia di sicurezza, in V.E.ORLANDO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, IV, parte I, Milano,

1904, p. 296.

11 Cfr. A.PACE, Il concetto di ordine pubblico nella Costituzione italiana, in Archivio Giuridico F. Serafini, vol. CLXV, 1965, p.

112.

qualsiasi intervento di polizia attraverso richiami al bene principe dell’ordine pubblico e a volte fu preponderante la tendenza ad interpretare strettamente il principio di legalità.

La tendenza liberale (confermata dal tenore delle disposizioni del codice penale del 1889) verso una progressiva espansione del concetto di ordine pubblico penalistico ed amministrativo preparò la strada alle «degenerazioni del periodo fascista, quando l’ordine pubblico diverrà valore ideale ed autonomo»13, «vita pacifica ed indisturbata degli ordinamenti politici, economici e sociali che costituiscono essenza del regime»14.

La legislazione fascista, in effetti, si pose su una linea di continuità rispetto a quella tracciata dallo Stato liberale, almeno per quanto riguarda un assunto fondamentale: quello per cui non ci sono libertà o diritti individuali preesistenti allo Stato. Con la conseguenza che si ebbe una sostanziale identificazione di quest’ultimo con il suo “braccio”, l’Amministrazione, che quindi assunse il compito di riassumere ed esprimere la volontà dello Stato15.

Partendo da questo presupposto, che parte della cultura giuridica liberale aveva già fatto proprio16, il fascismo si differenziò per le modalità di attuazione e le ricadute pratiche di questa impostazione teorica, che furono certamente più incisive e sfociarono nella trasformazione delle libertà individuali in «gentili concessioni dell’esecutivo»17. Questa radicalizzazione che si può riassumere nell’assoluta priorità dello Stato sull’individuo, della Nazione sul popolo, comportò, infatti, che le libertà individuali potessero essere sacrificate non più solo sulla base del criterio della stretta necessità, ma anche in base al semplice criterio della preminente tutela dell’interesse pubblico.

L’ordine pubblico diveniva «fondamento di poteri impliciti, ai limiti o al di fuori del principio di legalità»18: ne derivò un considerevole aumento dei poteri discrezionali esercitati dagli organi amministrativi, che disponevano dei diritti e delle libertà così come voleva il governo.

Significativo in tal senso è il ricorrere alla clausola dell’ordine pubblico per giustificare e legittimare gli interventi più disparati: si fa riferimento a quest’ultima nella legge sulle associazioni (l. n. 2029 del 1925), in quella sulla cittadinanza (l. n. 108 del 1926), in quella sulla difesa dello Stato (l. n. 2008 del 1926) e nei due Testi Unici di pubblica sicurezza del 192619 (r.d. 6 novembre 1926, n. 1848) e del 1931 (r.d. 18 giugno 1931, n. 773).

13 A.CERRI, L’ Ordine pubblico. II) Diritto costituzionale, in Enc. Giur., XXII, Roma, 1990, p. 1.

14 Così recitava la circolare del capo della polizia Bocchini nel fornire l’interpretazione dell’art. 2 del T.U. del 1926, come riportato

da G.CORSO, Ordine pubblico, b) Diritto pubblico, cit., p. 1060.

15 Cfr. G.AMATO, Individuo e Autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, Giuffrè, 1976, pp.261-262.

16 In particolare, mi riferisco alle teorie di Vittorio Emanuele Orlando sulle libertà, per le quali cfr. per tutti, M.FIORAVANTI,

Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello Stato, in A.SCHIAVONE (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità

alla Repubblica, Roma-Bari 1990, pp. 3 ss.

17 G.AMATO, Individuo e Autorità nella disciplina della libertà personale, cit., p. 262. 18 Così G.CORSO, Ordine pubblico, b) Diritto pubblico, cit., p. 1060.

19 Il cui articolo 2 introdusse nel nostro ordinamento la locuzione “ordine e sicurezza pubblica”: «Il Prefetto, in caso d’urgenza o

Tutto questo perché, sebbene ci fossero degli elementi di continuità con la Stato liberale, fu la concezione di ordine pubblico a cambiare: non più identificato con la sicurezza, l’incolumità, la tranquillità, l’ordine pubblico si estendeva fino a comprendere principi politici, morali, sociali. Prevalse qui la concezione ideale dell’ordine pubblico, che veniva così a coincidere con gli ordinamenti economico-politici costituiti: ogni azione che fosse rivolta anche latamente alla modifica di questi, era considerata una lesione, un attentato all’ordine pubblico20. Allo scopo di perseguire tale disegno conservativo e repressivo, da un lato, vennero potenziati indirizzi preesistenti: per esempio, vennero ereditati dallo Stato liberale gli istituti dell’ammonizione e del domicilio coatto (che diventerà “confino di polizia”); anche la disciplina dell’arresto in flagranza si pose su una linea di continuità con la precedente legislazione, pur aumentando i margini di apprezzamento degli organi di polizia; venne ripreso l’elenco dei soggetti passibili di diffamazione e di ammonizione, allargandolo anche alle persone pericolose “socialmente o per gli ordinamenti politici dello Stato”. Come ulteriore strumento di difesa del regime politico, furono rafforzate le misure di polizia, estendendo i presupposti per la loro applicazione21: la polizia poteva ora disporre della libertà personale e della libertà di circolazione dei cittadini ogni qualvolta ravvisasse in determinati fatti o comportamenti un pericolo per l’ordine pubblico, la sicurezza e la moralità. Questa nuova valenza data al sospetto che assurgeva a motivo valido per adottare alcune misure di polizia comportò il venir meno della caratteristica della tipicità, necessaria nell’applicazione di misure afflittive.

Dall’altro lato, furono introdotti istituti non ereditati dallo Stato liberale, delle novità tipicamente “di regime”, caratterizzate da un sensibile e significativo aumento dei compiti della polizia di sicurezza (allargati anche alla tutela della proprietà): per esempio, l’istituto dei rilievi segnaletici, a cui dovevano sottoporsi “le persone pericolose o sospette” e coloro che “non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità”; il fermo di indiziati, che si tradusse in un’anticipata custodia preventiva senza limiti stabiliti; venne abolita la scarcerazione automatica, considerata lesiva di quell’interesse pubblico che era assurto a bene principale dell’intera normativa.

Con il codice penale del 1930 si apportarono poi alcune significative modifiche: anzitutto, nel titolo dedicato ai delitti contro la personalità dello Stato, vennero annoverati numerosi delitti contro l’ordine pubblico che riassorbivano anche le ipotesi di reati politici previste dalla legislazione speciale e che facevano riferimento, quanto al bene oggetto di tutela, all’ordinamento costituito politico, economico, sociale dello Stato. In secondo luogo, vennero introdotte nel nostro ordinamento le misure di sicurezza, strumenti di attuazione della difesa sociale. Proprio per questa loro finalità, tali misure

20 Cfr. G.AMATO, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, cit., p. 270 ss.

21 A proposito di strumenti che sono emanazione diretta dell’autoritarismo e volti esclusivamente alla difesa del regime, bisogna

sottolineare l’esistenza del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato: istituito nel 1926, divenne la sede ordinaria di condanna per tutti i reati aventi riflessi politici, in un processo il cui rischio era totalmente a carico dell’imputato.

furono accolte dalla dottrina come provvedimenti amministrativi, con il conseguente carattere autoritario che questo comportò22. Ciò che appare particolarmente significativo è che questo potenziamento di compiti avvenne «sulla base della tutela di un bene, che fino ad allora aveva fatto solo qualche sporadica apparizione nella legge crispina, l’ordine pubblico, spesso affiancato dal sostanziale sinonimo-rafforzativo della sicurezza pubblica e dagli annessi della pubblica moralità e del buon costume»23.

Di particolare importanza risulta poi l’introduzione, ad opera del T.U. del 1931, di una peculiare formulazione del concetto di necessità, che rilevava come fonte prevista dall’ordinamento, delimitata nella forma e non nel contenuto e che poteva derogare a norme di pari grado o superiori, nella piena discrezionalità dell’esecutivo. Basti pensare all’art. 2 del T.U. del 1931, in base al quale il prefetto “in caso di urgenza o per grave necessità pubblica” aveva il potere di “adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica” 24; ed agli artt. 214-219 T.U. 1931 in base ai quali nel caso di pericolo e di disordini il Ministro dell’interno o i prefetti potevano dichiarare lo “stato di pericolo pubblico”, durante il quale i prefetti potevano “ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritengano necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico”. Questo comportò che l’esecutivo, non dovendo sottostare alla forma della riserva di legge, assunse il ruolo di arbitro incontrollato dei rapporti fra stato e cittadino.

Dunque, il principio di legalità, principio cardine dello Stato di diritto ed ereditato poi dal fascismo, palesò così la sua insufficienza, non essendo riuscito a fare da argine alla compressione delle libertà civili e politiche che queste norme comportarono25.