2 Jean-Louis Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Donzelli Editore, Roma, 2006, p. 14.
3 Cfr. Filmografia, p. 249. 4 Cfr. Scheda d’analisi, p. 55.
ricondurre l’antica civiltà a una provenienza extraterrestre. Un’idea, quest’ultima, avvalorata dalle inquadrature, dai giochi di luce, dai suoni e, in generale, dall’atmosfera metafisica e aliena che la regista sceglie di allestire. La prima spiegazione, che prosegue dopo l’introduzione appena esposta, avviene in una sala, davanti a una teca. La guida è sulla sinistra dell’inquadratura, e quando si ferma per iniziare a parlare, vediamo il suo riflesso sulla teca; questo dettaglio rende più ambigua la sequenza e si accorda al contenuto misterioso di ciò che va dicendo. Al termine del discorso, un fermo-immagine ci consegna il primo piano della guida e apre il suo vagare dentro gli spazi del museo. Non si tratta di un unico fermo-immagine, ma di una sequenza di fermo-immagine, quattro nel complesso. La camminata, tra il terzo e l’ultimo fermo-immagine, viene interrotta dal primo piano di due delle statue presenti nel museo. Stiamo finalmente cominciando ad addentrarci nei meandri della storia egizia esposta.
Il tour prosegue con panoramiche e primi piani che si alternano e ci mostrano le opere presenti. La guida, in egual modo, si muove nello spazio avvicinandosi alle opere e interagendo con fare delicato e poco invadente. Le immagini si susseguono, mentre in sottofondo si ode una musica minimale d’ambiente con inserti di violini; la luce che illumina la scena non è mai eccessiva né piena, ma lascia spazi d’ombra. La camera è quasi sempre fissa sui reperti: sembra muoversi con cautela; Rosaleva ci guida con lentezza, ci lascia il tempo di scrutare ogni dettaglio dell’inquadratura. I movimenti, se presenti, sono minimi e lievi: carrellate laterali sui sarcofagi, zoom in avanti per sottolineare i dettagli o zoom all’indietro per mostrarci la maestosità delle opere.
La guida è comunque sempre presente: si sposta insieme alla macchina da presa (e insieme a noi) negli ambienti del museo egizio che appaiono lontani dall’idea canonica di spazio espositivo. La prima parte della sequenza ha un accompagnamento musicale discreto che dopo circa due minuti si interrompe. Per qualche secondo proseguiamo quasi in silenzio, sentiamo solo qualche rumore d’ambiente. Con il cambio dell’inquadratura, anche la musica cambia. Mentre vediamo una teca che contiene due statue - di cui però possiamo ammirare solo la testa - cominciano le note elettroniche e dissonanti di Nebulous Dawn, interpretatadalla band tedesca Tangerine Dream. L’atmosfera è inquieta, con una luce intermittente a illuminare le due teste; successivamente vediamo una teca impolverata, parzialmente rischiarata da una luce blu, all’interno della quale è possibile scorgere un altro sarcofago. La polvere è così spessa da non permettere una visione chiara del reperto archeologico, e sembra quasi riportare l’oggetto all’antichità da cui proviene. Rivediamo poi le due teste, ma la teca che le contiene ora è bene illuminata;
sulla parte bassa dell’inquadratura è possibile scorgere quello che appare come un riflesso dell’inquadratura stessa: l’effetto creato è un vortice infinito dell’immagine attraverso il suo riflesso.
La guida è ancora con noi: dopo una dissolvenza dal nero, appare davanti alla ricostruzione in miniatura di due piramidi, ha lo sguardo fisso in camera. Appena la luce diviene totale, ricomincia a parlare. Illustra la costruzione delle piramidi ed esordisce così: «Le piramidi sono astronavi puntate verso il cielo. Hanno due aperture: una verso Alpha Draconis che indica il nord e una verso la Cintura di Orione che indica il sud». Ecco che la sua descrizione si mostra come un’ulteriore conferma di una idea che già si era insinuata al principio: quella egizia sarebbe una civiltà extraterrestre, proveniente dal futuro piuttosto che dal passato e arrivata sulla terra attraverso strane astronavi che continuano, tutt’oggi, a comunicare con il cielo, con il mondo altro dal quale, probabilmente, sono giunte. Una dissolvenza in nero chiude la scena.
Ricominciamo ora ad osservare gli oggetti presenti nel museo, li contempliamo in compagnia della nostra guida che si sofferma ad osservare tutto da vicino. Il suo vagare è lento, cauto e rispettoso ma, al tempo stesso, è estremamente attento e curioso. Dalla spiegazione delle piramidi in poi, alcune delle inquadrature sono fortemente desaturate, raggiungendo quasi il bianco e nero. Si passa ad un’altra stanza del museo, con una panoramica sull’ambiente che si conclude su una statua raffigurante un uomo rannicchiato. L’immagine è ancora desaturata: la mano della guida, ora interamente ricoperta da brillantini dorati, scende dall’alto verso il basso e la scena diviene improvvisamente più luminosa, come se il movimento avesse acceso delle luci precedentemente assenti. Poi, in totale contrasto con quanto abbiamo appena visto, un piano medio della guida appare in bianco e nero. Dal piano medio passiamo a un primo piano, la musica in sottofondo si alza e lui guarda dritto in camera. La statua dell’uomo rannicchiato ci viene mostrata una terza volta: ora è più luminosa che mai e possiamo notare una serie di dettagli che prima, invece, non erano visibili data la poca luce presente nella sala. Una dissolvenza in nero chiude la scena. Una nuova statua e il piano americano della guida vengono nuovamente alternate. La sua voce racconta qualcosa, ma la musica ad un volume molto elevato non ci permette di comprendere del tutto le parole. Dal dettaglio su una statua, passiamo ora a un campo medio su un corridoio che ci viene poi mostrato meglio con un panoramica. È uno spazio che vediamo solo in parte perché anche in questo momento le luci non illuminano a sufficienza. Come a rispondere a questa difficoltà, arrivano puntuali una serie di primi piani sulle statue che affollano il
corridoio. Giochi di luci e giochi con le proporzioni si alternano nel montaggio. Il corridoio appare ora solo in parte e in bianco e nero; le luci e i colori sono venuti improvvisamente meno. Il gruppo di bambine e bambini, che abbiamo visto in apertura, avanza ora dal fondo dell’inquadratura. Quando arrivano davanti alla macchina da presa, li cogliamo in primo piano; il movimento sui loro volti non è fluido, ma alcuni fermo-immagine interrompono la breve carrellata che li ritrae. La camera li mostra tutti, uno per uno; poi sulla scena rimane soltanto una bambina. I fermo-immagine continuano ad essere alternati nella sequenza, creando un effetto non fluido, singhiozzante.
La bimba viene ripresa dal basso, la scena diviene ora a colori. Il suo sguardo è fisso davanti a sé, anche quando viene inquadrata in primissimo piano, sempre dal basso. Avanza leggermente verso la macchina da presa, dopodiché viene ritratta frontalmente: ora anche lei, con la mano ricoperta da brillantini dorati, guarda in camera e indica qualcosa o qualcuno posto oltre l’obiettivo. L’inquadratura successiva ci mostra la testa di un toro. La bambina continua ad indicare, e ora vediamo la guida illuminata sul volto da una luce rossa: dopo questo scambio di sguardi, la guida abbandona la sala.
A circa quattro minuti dalla chiusura, comincia la sequenza finale del documentario. La prima scena si apre in uno spazio nuovo: siamo probabilmente fuori dall’area museale o comunque in un ingresso, un luogo in bilico tra l’interno e l’esterno. In quadro è presente una donna, in piedi davanti a una scalinata; è inquadrata in piano medio, ha le braccia conserte, lo sguardo fisso oltre la macchina da presa e ha gli occhi truccati alla egiziana. La nostra guida arriva sulla scena, osserva la donna e poi sale lungo i gradini; una volta giunto in cima, alcuni giochi di luce vengono proiettati sulle scale e pochi secondi dopo, con un jump cut, la donna sulla scena cambia. Vediamo un’altra donna, non più quella di prima, che rimane immobile nella stessa esatta posizione di colei che l’ha preceduta. Resta ferma, anche mentre la guida scende ancora le scale, la osserva e poi risale nuovamente; quando arriva alla sommità, i giochi di luce sulle scale si ripetono: se prima hanno anticipato un cambio della figura, ora anticipano la sparizione della donna. La sua assenza ci permette quindi di vedere solo la scalinata. La guida scende, in slow motion, osserva il punto in cui si sono avvicendate le due donne e poi sale per l’ultima volta, lasciandoci infine davanti alla scalinata. Su quest’immagine, cominciano a scorrere i titoli di coda.
Il passato, il presente e il futuro sono in continua comunicazione all’interno di questo lavoro. Il museo è di per sé un luogo atto a tramandare ai posteri le bellezze e le storie del
passato, non solo per suscitare ammirazione estetica, ma anche per trasmettere la conoscenza di ciò è stato. Il lavoro che svolge Rosaleva va oltre l’idea di mostrare questo luogo e raccontare semplicemente le caratteristiche del museo; il suo intento, infatti, è quello di allestire sulla scena la sua visione della storia.
Per quanto oggettivo possa essere un documentario6 - inteso come testo audiovisivo atto a documentare una data realtà - è pur sempre un lavoro determinato da scelte estremamente personali. Ciò che vediamo, quindi, ha un contenuto oggettivo ma deriva da un pensiero soggettivo. Il lavoro che svolge Rosaleva è principalmente quello di accompagnare il pubblico all’interno di uno spazio mostrandone il contenuto oggettivo - che possiamo ritrovare se in prima persona ci rechiamo al museo egizio di Torino - ma raccontando al contempo una storia che è frutto della sua soggettività e immaginazione. La sua idea è che gli egizi abbiano realizzato una civiltà magnifica, talmente avanzata rispetto ai tempi da aver costruito un impero vasto e duraturo, caratterizzato da edifici imponenti; una civiltà nella quale religione e scienza si fondono, dedita al culto di numerose divinità e in comunicazione con il cielo e le stelle. Tutto ciò, secondo la regista, rende gli egizi creature aliene, abitanti di altri pianeti, di altre galassie, che sono giunti sulla terra per fondare la loro comunità. Questa è la narrazione che l’autrice ordisce, plasmando la realtà a misura del suo sguardo. Le inquadrature che sceglie, le parole che affida alla guida, i giochi di luce e le musiche creano un’atmosfera metafisica, incerta, in bilico tra passato e futuro. Rosaleva apprende le potenzialità offerte dal lavoro in video e, spesso esasperandole, le sfrutta per raggiungere il suo peculiare disegno: sembra quasi giocare col linguaggio, portandolo persino all’eccesso, come testimonia l’assidua, e a tratti disturbante, presenza dei fermo-immagine. Lo stesso si può osservare a proposito delle scelte luministiche, dell’intermittente discontinuità del montaggio: insomma la cineasta adopera tutte le risorse che ha sua disposizione per creare una narrazione sospesa, fortemente ambivalente. A ben vedere, dunque, la guida che ci ha accompagnato non è
6 Sulla questione oggettività e soggettività nel documentario, argomento ampiamente dibattuto in sede storico-critica, si vedano almeno: Marco Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria. Altri
sguardi dal cinema italiano, Lindau, Torino, 2003; J.L. Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, cit.; Bill Nichols, Introduzione al documentario, Il castoro,
altro che un ambasciatore, o meglio una figura vicaria7, poiché il nostro vero Virgilio è Gabriella Rosaleva, che utilizzando il più raffinato degli strumenti - l’immagine elettronica - ha costruito un percorso da lei arditamente prestabilito, all’interno del quale il passato e il futuro, l’archeologia e la fantascienza si intrecciano inestricabilmente.
7 Sulle figure vicarie si vedano: Christian Metz, L’énunciation impersonelle, ou le site du film, Méridiens Klincksieck, Paris (traduzione italiana a cura di A. Sainati, L’enunciazione impersonale o
il luogo del film, ESI, Napoli, 1995); e Francesco Casetti, Federico di Chio, Analisi del film,
4.7I
LUOGHI DEL RITO:
TRE CHIESE AT
ORINO1Smash the radio No outside voices here Smash the watch Cannot tear the day to shreds Smash the camera Cannot steal away spirits2.
I luoghi del rito: tre chiese a Torino3 è il quarto lavoro ispirato alla città eponima.
Realizzato nel 1984, è anch’esso prodotto dalla sede regionale RAI per il Piemonte. La durata è la stessa degli altri due titoli: poco meno di 30 minuti.
Il tipo di risultato che Rosaleva ottiene svolgendo questo tema è molto distante da ciò che ci si potrebbe aspettare. La strada che intraprende, infatti, è quella di documentare, o meglio di raccontare a modo suo tre chiese della città di Torino. Lo sguardo che mette in scena però non è canonico, non ha come scopo quello di illustrare un resoconto oggettivo sui monumenti; lo sguardo è quello personale di Rosaleva che preferisce trovare un punto di vista soggettivo, capace di descrivere accuratamente lo spazio fisico dell’edificio ma soprattutto di orchestrare una narrazione da lei imbastita. I personaggi reali divengono i suoi attori; smette di essere chiaro il confine tra ciò che è reale e ciò che finzione.
I luoghi del rito, come già accennato, è interamente dedicato a tre importanti chiese della città e punta su una narrazione incentrata sulla visione, con pochi commenti esterni. Per le tematiche trattate, di religione, magia e misticismo, si posiziona a chiusura di un ideale cerchio cominciato con La vocazione nel 1983 e proseguito con Egizi del 1984, come I luoghi del rito. Anche questo lavoro offre l’ennesima prova della sensibilità scientifico-religiosa dell’autrice, che indaga sia nell’animo umano sia nello spazio concreto dove la spiritualità prende forma come rito.
Le tre chiese indagate per il documentario sono San Filippo Neri, il Santuario della Consolata e il Duomo. La scelta non è stata casuale ma è avvenuta in base alle caratteristiche di questi luoghi di culto - e di sicuro c’è stata un’attenta analisi preliminare dal momento che la città di Torino accoglie più di 50 tra chiese e santuari.