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Cfr Appendice iconografica Vol 2, p 302.

4.16 S TORIA DI UN UFFICIALE DI CARRIERA

1 Cfr Appendice iconografica Vol 2, p 302.

2 Dal discorso di Grazia Deledda tenuto durante il ritiro del premio Nobel.

3 Per quanto riguarda il lungo processo creativo e la produzione di questo film, nel quale sono stata coinvolta in prima persona, mi riservo di riflettere in modo più approfondito in altre sedi. 4 Cfr. Filmografia, p. 249.

5 Per maggiori informazioni sulla gestazione del film, mi sia consentito di rimandare nuovamente al mio a Imperfezioni da Nobel, cit.

Nel 2017, nell’ambito del Laboratorio di Produzioni Audiovisive offi_CINE del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, è stato possibile realizzare il film Viaggio a Stoccolma. Il corto racconta i tre giorni di viaggio affrontati da Grazia Deledda, in compagnia del marito Palmiro Madesani, per raggiungere Stoccolma e ritirare il Premio Nobel. Si rivela un viaggio faticoso e turbolento per l’animo della scrittrice che si trova a dover fare i conti con il proprio passato e con i personaggi dei suoi romanzi, in un’atmosfera in cui il limite tra il reale e l’onirico è programmaticamente labile.

L’opera, scritta e diretta da Gabriella Rosaleva, ha potuto contare su un caparbio gruppo di donne, coordinato dalla professoressa Lucia Cardone, e composto da importanti figure del panorama artistico, letterario e giornalistico sardo e non solo. Si è trattato di un lavoro pionieristico sotto diversi punti di vista, in quanto, per la prima volta, un’istituzione come l’Università, è stata calata nel ruolo di casa di produzione; ed anche, in molti sensi, di un lavoro sperimentale, dal momento che la regista si è destreggiata su un set insolito, in compagnia di una troupe composta da studenti e non da professionisti del settore. Per queste ragioni, il riconoscimento ottenuto al Festival Internazionale di Firenze “Cinema e Donne” - il premio Gilda per la regia - è stato un risultato significativo e di grande valore per tutte e tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del cortometraggio.

Viaggio a Stoccolma, dopo i titoli di testa, si apre su una scrivania posizionata davanti ad una porta finestra aperta su un giardino curato; sul piano del tavolo è ben visibile una lampada accesa e una foto incorniciata di Grazia Deledda. Una musica classica accompagna l’incipit del film.

Dopo qualche secondo, una didascalia colloca la vicenda nel tempo e nello spazio: «Roma 1936, Casa Deledda». Una voce fuori campo maschile, comincia a raccontare il viaggio verso Stoccolma. La didascalia viene sostituita da un’inquadratura fissa su un cespuglio di rose; successivamente, ripreso dal basso, vediamo un uomo camminare nel giardino e dirigersi verso le rose. Ne coglie alcune poi, come se avesse sentito un rumore provenire da dietro la macchina da presa, si solleva con un’espressione incuriosita e ed esce di scena con in mano il cesto pieno di boccioli. Una didascalia annuncia il titolo del film.

La voce, che fino ad ora abbiamo sentito narrare fuori campo, trova finalmente un volto: è lo stesso uomo che, poco prima, abbiamo visto cogliere le rose in giardino: Palmiro Madesani, il marito di Grazia Deledda, che racconta i dettagli del viaggio. Un’ultima didascalia segnala la regia di Gabriella Rosaleva.

Dalla musica iniziale, si passa al silenzio, che si manterrà durante tutto il racconto. A questo punto, terminati completamente i titoli di testa, il rumore del treno che corre sui binari fa da raccordo sonoro e ci conduce finalmente dentro il vagone dove, Grazia Deledda, affacciata al finestrino, ammira il panorama innevato. «Sembrava come stregata dalla neve» sottolinea Madesani, la stessa neve che apre al ricordo dell’infanzia di Deledda: quest’ultima, infatti, poggia una mano sul finestrino e con una dissolvenza incrociata la vediamo bambina, dietro una finestra, affascinata dal danzare dei fiocchi6. La voce perentoria di una donna, la madre di Grazia, interrompe la magia: «Scendi!» le intima severamente. Lei si volta di scatto, intimorita: la macchina da presa riprende e la scena da dietro un vetro, come se stesse spiando dentro una casa. Poco dopo, quando la bambina finalmente scende dallo sgabello utilizzato per arrivare alla finestra, la camera si sposta all’interno. La bimba, accovacciata, chiede di poter vedere la nonna: «Nonna, come sei bella», dice in voice over, mentre sulla scena, leggermente decentrata, appare una donna dall’espressione dolce e rassicurante, vestita di un antico costume sardo. Un’altra dissolvenza incrociata ci riporta da Grazia Deledda che con la mano sul finestrino sembra accarezzare il ricordo del volto della nonna, che piano piano scivola via.

Una luna piena, attraversata dalle nuvole, fa da esterno ponte; in sottofondo sentiamo il rumore del treno: siamo dentro lo scompartimento di Grazia. La scrittrice è in compagnia del marito, che decide di leggerle una poesia di García Lorca. Rosaleva sceglie lo scrittore spagnolo perché sente che tra lui e Deledda c’è una sorta di affinità tematica e, oltretutto, dallo studio preparatorio sulla scrittrice, ritiene possibile che lei conoscesse il poeta spagnolo, suo contemporaneo. La poesia scelta è Venere; qui riporto la versione che viene letta nel film:

Nella conchiglia del letto, nuda di fiore e di brezza sorgeva alla luce perenne.

Restava il mondo, giglio di cotone e d’ombra,

affacciato ai vetri a guardare il transito infinito.

La giovane morta,

6 Come abbiamo già constatato in altre occasioni, anche qui la neve funge da collante con un vissuto lontano, luogo di vicende e ricordi che evidentemente influenzano il presente. Ricordiamo soprattutto la neve in Storia di un ufficiale di carriera, cfr. Scheda d’analisi, p. 166.

solcata d’amore Tra la spuma delle lenzuola si perdeva la sua capigliatura7

Durante la lettura, il rumore di una pioggia fitta comincia a udirsi sempre più chiaro; il suono fa da raccordo con l’inquadratura successiva, che si apre su un lungo corridoio. Vediamo Grazia Deledda di spalle, in campo lungo, correre lungo tutto il corridoio ed entrare in una delle ultime porte. Quando è sulla soglia, un dettaglio sui suoi piedi, ci restituisce una leggera esitazione, come se all’interno della stanza avesse visto qualcosa di inaspettato e terribile. E di fatto lo conferma l’inquadratura successiva, che mostra una giovane pallidissima, vestita di bianco, sdraiata su un grande letto; accanto a lei, vediamo due giovani vestite di nero, le sorelle di Grazia, e la madre, la stessa che aveva sgridato la bambina affascinata dalla neve. Il rumore della pioggia prosegue; un tuono accompagna il primo piano sulla madre che solleva lo sguardo e osserva oltre la macchina da presa. Grazia è dentro la stanza e guarda la scena. Una panoramica sul corpo della giovane, che è una delle sorelle della scrittrice, Enza, stesa sul letto, ci fa capire che è priva di vita; una grande macchia di sangue lascia intuire che la giovane è morta a causa di una emorragia abortiva. La pioggia ci riporta dentro lo scompartimento del treno.

7 La poesia presente nel film è leggermente diversa rispetto all’originale. Si tratta di Venere e il testo competo è il seguente:

Così ti vidi

La giovane morta

nella conchiglia del letto, nuda di fiore e di brezza sorgeva alla luce perenne. Restava il mondo,

giglio di cotone e d’ombra, affacciato ai vetri

a guardare il transito infinito. La giovane morta,

solcava l’amore al di dentro. Tra la spuma delle lenzuola si perdeva la sua chioma.

Prima di proseguire nella descrizione, è necessario sottolineare alcuni nodi stilistici importanti di questa breve sequenza, a partire dalla corsa della protagonista lungo il corridoio. Come abbiamo evidenziato anche in altre analisi, la corsa è un movimento che spesso si presenta nelle opere di Rosaleva. Qui in particolare, però, sembra richiamare la corsa di Una leggenda sarda, giacché entrambe si situano ad un livello narrativo altro rispetto a quello principale. In Una leggenda, infatti, la corsa avviene nel luogo dell’onirico, mentre in Viaggio accade nel luogo del ricordo.

Il secondo fattore notevole è legato alla breve panoramica sul corpo della giovane morente: si tratta di un movimento di macchina piuttosto infrequente nello stile di Rosaleva, che di solito predilige inquadrature statiche. Anche in questo caso, si segnala il rimando, ancora una volta, a Una leggenda sarda, dove la macchina da presa compie lo stesso movimento sul corpo addormentato della protagonista8.

Di questa sequenza è necessario segnalare un ultimo elemento legato al primo piano sul volto della madre. Nella prima stesura della sceneggiatura, Rosaleva intendeva inserire, come accaduto in altre occasioni, il primo piano di una cerva. Un dettaglio, tipico di quel montaggio delle attrazioni del quale lei molto spesso si è servita, che avrebbe aggiunto non solo un forte richiamo al suo “bestiario” ma anche una discreta carica di drammaticità ad una scena di per sé molto densa. La cerva, infatti, sarebbe dovuta apparire in primo piano, possibilmente con lo sguardo rivolto in camera, ma soprattutto andava inserita l’immagine di un «muso di cerva a cui hanno ucciso il piccolo»9.

Al rientro nello scompartimento, Grazia è scossa dal ricordo della morte della sorella; il marito le parla, ma lei ha un’espressione assente e, alle parole di lui che l’avvisa dell’imminente arrivo a Stoccolma, risponde: «Il passato è una bestia ferita che giace in fondo alle viscere, a tratti si sveglia e quando si sveglia urla, forte di dolore. Questo viaggio lo sento, ha svegliato la mia bestia». Una affermazione emblematica che getta una nuova luce su quanto abbiamo visto fino a questo momento. Grazia Deledda sta affrontando non solo un viaggio che la condurrà in terra straniera a ritirare uno dei premi letterari più ambiti, ma anche un percorso introspettivo che evidentemente sta cominciando a mettere a dura prova le sue emozioni e il suo corpo.

Il rumore del treno, che caratterizza le scene dentro il vagone, si interrompe improvvisamente. Una nuova sequenza si apre: è totalmente muta, è assente anche il

8 Per i due aspetti evidenziati, rimando alla scheda d’analisi di Una leggenda sarda, p. 32. 9 Cfr. Appendice sceneggiature, Vol. 2, p. 861.

rumore d’ambiente. Grazia è di spalle, indossa un abito bianco, ha con sé un ombrello e sta camminando verso una porticina. Gran parte dell’inquadratura è fuori fuoco, solo le spalle di Grazia sono a fuoco. La camminata, inoltre, è sottolineata da un leggero ralenti. Quanto giunge nei pressi della porta, sentiamo un forte vociare, come se dentro quel luogo sconosciuto ci fossero molte persone. Grazia bussa forte e chiede a gran voce di poter entrare; la macchina da presa ora è alle sue spalle, la porta finalmente si apre e lei può varcare la soglia. A questo punto, la scena comincia con una panoramica su un campo dove spiccano pietre, fiori secchi e altre erbacce; il movimento sulla vegetazione viene interrotto da un fermo immagine che mostra due piccoli sgabelli poggiati sotto una grande quercia. Al termine della panoramica, Grazia sta camminando e giunge anche lei sotto le querce: sedute sugli sgabelli mostrati in precedenza, vediamo ora la nonna di Grazia e, accanto a lei, Grazia bambina che tiene in mano una tazzina da caffè.

Grazia adulta, quando vede le due sedute, pronuncia le stesse parole che, nella sequenza della neve, aveva pronunciato alla vista della nonna: «Come sei bella»; nell’inquadratura la piccola Grazia in primo piano, muove il capo al ralenti, poi lascia la scena e la nonna può raggiungere Grazia adulta10.

Le due cominciano a parlare: la nonna ha un tono affettuoso e rassicurante, mentre Grazia, invece, è triste e malinconica. Tra le varie cose, la nonna le dice di non stare in pensiero per la sorella morta: l’albero ora «la culla tra le sue fronde». Grazia è amareggiata perché la sorella indossava l’abito da sposa, un abito che ora sta riposto dentro un baule, lo stesso che contiene anche le lettere di coloro che hanno amato e

10 La scena con la nonna e la tazzina di caffè fa particolare riferimento ad un momento specifico del romanzo autobiografico già ricordato, nel quale Cosima/Grazia manifesta un forte rimorso nei confronti della nonna: «Verso la nonnina Cosima aveva un rimorso. L'ultima volta che era venuta a far visita in casa, ella non le aveva dato il caffè, non l'aveva quasi neppure salutata: adesso, nel sogno, si affaccendava a preparare la bevanda prediletta dalla cara vecchina, ma l'acqua bollente rigurgitava dal cuccuma e spegneva il fuoco. “Lascia, bambina”, diceva la nonna, con le manine intrecciate sul grembo, i grandi occhi color nocciola e la piccola bocca circondati da raggiere di rughe; “oramai non ho più bisogno di nulla”. E d'un tratto, voltandosi, Cosima vide che la nonnina era vestita da sposa con un costume di orbace, scarlatto e broccato: il grembiale era ricamato a vivi colori, sulle punte davanti del corsetto verdeggiavano due foglie di palma. La benda che avvolgeva la piccola testa, bianca e un po' inamidata, pareva di antico bisso. “Come sei bella, nonnina; adesso, sì, sembri davvero una fata”». Grazia Deledda, Cosima [1937], Romanzi e

disprezzato Deledda scrittrice. Il loro dialogo viene interrotto improvvisamente da qualcosa: è la mamma di Grazia che, spaventata, cammina proprio intorno al sacco delle lettere, «come se fosse una bestia feroce».

La madre infatti vedeva con timore il successo della figlia, una paura che invece Deledda non ha mai provato ma, al contrario, con coraggio e sfrontatezza, ha sempre perseguito la via della scrittura. «E se tutto fosse vano? Perché hai tanto scritto?» le domanda la nonna, e lei sicura risponde: «Per l’irresistibile miraggio che ho del mondo». La scrittura per Deledda non è solo un vezzo artistico, ma un’esigenza profonda.

Una seconda panoramica sulla vegetazione chiude la sequenza e ci porta in un altro luogo dove sta per avvenire il secondo incontro di questo viaggio nel viaggio.

Un gruppo di donne, con indosso una tunica, camminano lungo un bosco di querce11; in

sottofondo sentiamo un canto che somiglia a un lamento. La musica sfuma e vediamo le donne, raggruppate e sedute in maniera ordinata sopra una grande roccia; poco sotto, una figura vestita di nero, ugualmente seduta, guarda fissa davanti a sé: è Marianna Sirca, personaggio importante della produzione letteraria di Deledda.

Grazia e Marianna cominciano a discutere, e il loro dialogo è basato sul romanzo che vede Sirca protagonista. La donna ha uno sguardo orgoglioso ma sofferente, si percepisce che tra le due c’è qualcosa in sospeso. Marianna è amareggiata, non è riuscita a sopportare il peso del destino che l’autrice le ha riservato nel romanzo12. La vediamo in primo piano mentre, con fermezza, protesta rivolta a Grazia:

Quella notte, nella quiete della tanca, l’aria vibrava di sussurri e ogni piccolo rumore aveva un’eco profonda. Lui si è avvicinato a me, come un cane malato. Non sapevo se

11 Inizialmente la scena sarebbe dovuta avvenire all’interno di una grotta. L’idea di Rosaleva si ispirava, infatti, ad un’opera di Goya e in particolare agli affreschi della Cappella de la Florida di Madrid. Le donne che stanno vicine a Marianna Sirca sarebbero dovute apparire tutte in cerchio e possibilmente riprese dal basso.

12 Marianna e Simone, nel corso del romanzo, si innamorano e decidono di sposarsi. Simone, però, giovane bandito, fugge nel momento in cui Marianna gli chiede di consegnarsi alla giustizia e scontare la sua pena. La donna, delusa, non riesce a superare questo gesto e lo accusa di viltà. Simone, offeso, torna da Marianna per chiederle di ritirare l’offesa, ma quel che trova è solo un muro di silenzio e, infine, trova la morte per mano di un cugino della donna amata. Vittorio Spinazzola (a cura di), Romanzi Sardi, Grazia Deledda, Marianna Sirca [1915], Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1981, p. 767.

a chiamarmi fosse lui o la voce della tanca che mi diceva «abbandonati». Tutto mi corrispondeva: i baci piccoli, le mani, i nostri visi in fondo al pozzo. Lui era disarmato, disarmato!

Al termine di queste parole, il canto-lamento ricomincia e l’inquadratura è ora più larga: le donne in gruppo sono ancora sedute sulla roccia; Marianna, invece, è in piedi, e sotto di lei, coperto dal suo mantello, c’è il corpo senza vita di Simone Sole, l’uomo di cui ancora è innamorata. L’abito imponente di Marianna Sirca, col suo ampio mantello, in questo momento, si sarebbe dovuto aprire mostrando a Grazia e al pubblico la presenza del cadavere di Simone; in fase di montaggio, invece, si è scelto di mostrare il mantello già aperto e poi, con un movimento reverse, chiuderlo come se Marianna stesse custodendo per sempre il corpo dell’uomo amato per proteggerlo dal mondo esterno13.

Il rumore del treno ci riporta nello scompartimento dove la scrittrice è addormentata, e il marito la scuote per destarla dal torpore e ricondurla alla realtà dopo quel lungo sogno. «Stavo sognando» sono le prime parole che pronuncia, «ero vestita di bianco». Il marito la osserva con un’espressione perplessa e stupita; Deledda, ora in primo piano, prosegue: «lo voglio raccontare subito. Perché i sogni, come le nuvole, quando svaniscono non sembrano più veri. Vanno raccontati subito e bene».

Due didascalie (Grazia Deledda, Nuoro 1871 - Roma 1936 e Premio Nobel per la Letteratura, 1926) chiudono la sequenza. La musica classica che abbiamo sentito nel corso dell’incipit, ci riporta alla scrivania della prima inquadratura. Accanto alla foto che ritrae Deledda, c’è ora un vaso con un mazzo di rose; Madesani cammina verso il giardino, l’immagine è al ralenti. La sua voce fuori campo, rivolta a un interlocutore sconosciuto dice: «Ora mi scusi, sono rimasto troppo tempo seduto, devo sgranchirmi le gambe». La musica prosegue e accompagna i titoli di coda.

Di questo finale colpisce principalmente l’ultima frase di Palmiro Madesani che sembra confermarci di aver interagito, per tutto il tempo, con un interlocutore rimasto però fuori quadro. La regista, fin dalla prima stesura del soggetto, parlava della possibilità che Madesani fosse in compagnia di un giornalista al quale raccontare la storia del lungo

13 Anche in questo caso è presente un rimando a Goya e a Piero della Francesca: l’abito nero e imponente di Marianna Sirca è costruito richiamando la Madonna della Misericordia (per il suo accogliere i fedeli e tenerli al sicuro nel suo manto); mentre il riferimento a La Duchessa de Alba si ravvisa nella ampia fascia rossa che Marianna porta stretta in vita. Cfr. Appendice iconografica Vol. 2, p. 304.

viaggio affrontato per il ricevimento del Nobel. La figura del giornalista però non viene mai menzionata e alla sua presenza si allude soltanto nel finale e nell’incipit, quando Madesani alza il capo di fronte al cespuglio di rose, forse per accogliere il misterioso visitatore.

Seppure il giornalista sia destinato alla invisibilità, è ben chiaro che, dopo anni di assenza dal set, Rosaleva continui a riconoscere il tema della intervista come spazio di indagine sul personaggio e sul suo mondo interiore.

Un ultimo tratto stilistico da evidenziare concerne la scelta cromatica: l’universo del ricordo, infatti, è sottolineato dall’utilizzo del bianco e nero così da creare una distinzione netta con gli altri livelli del racconto. In questo film, in modo particolare, vi è una forte distinzione fotografica tra i vari livelli narrativi. Basti pensare al fuori fuoco, su un’immagine dal colore brillante, che apre il livello dell’onirico; e a come il sogno, per quanto appannato fosse nel suo farsi iniziale, sia in realtà caratterizzato da una luce molto intensa, che permette una chiara visione di ciò che accade. Si tratta di una opzione particolare e ambigua se consideriamo che i sogni, di solito, vengono convenzionalmente rappresentati anche luministicamente confusi e incerti. Questa scelta evidenzia quanto, per Rosaleva, il sogno sia una regione su cui fare affidamento e a cui riferirsi per potersi confrontare con i