2 Peter Gabriel, The rhythm of the heat, in «Peter Gabriel», 1982. 3 Cfr. Filmografia, p. 249.
La chiesa di San Filippo Neri è la più grande della città. «È una chiesa enorme ma vuota. Abitata da altre presenze, non più umane. C’è un calo di tensione4», afferma Rosaleva. Il Santuario della Consolata è invece lo spazio più dedito alla preghiera, la chiesa della devozione per così dire. È la più importante della città ed è la più frequentata da parte dei credenti.
Il Duomo, infine, è il luogo della «visitazione da parte dei turisti», sostiene la regista, quello forse più conosciuto anche grazie alla presenza della Sacra Sindone che richiama visitatori e curiosi da tutto il mondo.
Il film si apre all’interno di un luogo buio, illuminato solo da alcuni riflessi di luce non fissi, generando uno spazio indeterminato, non semplice da riconoscere. Potrebbe trattarsi di una stanza; ma dato l’argomento centrale del lavoro, non è da escludere che si tratti dell’interno di un confessionale: la luce fioca entra attraverso le trame della finestrella da cui prete e confessante sono soliti comunicare. Su questa immagine appaiono i titoli di testa.
La prima chiesa esplorata è San Filippo Neri, che viene introdotta attraverso tre inquadrature fisse di tre differenti punti dell’edifico: il cancello principale, le due imponenti colonne poste all’ingresso e il colonnato della facciata ripreso di sbieco. In sottofondo sentiamo i rumori tipici di una città durante il giorno. Una volta giunti all’interno, il silenzio cala sulle immagini. Attraverso una serie di piani statici, Rosaleva ci mostra gli spazi della Chiesa. Dalla fissità delle prime inquadrature, passiamo a due panoramiche: una sui banchi vuoti della navata centrale e una su parte del soffitto.
Dopo questa introduzione spaziale nella quale l’elemento antropico è totalmente assente, vediamo ora un uomo uscire dalla sagrestia e dirigersi con sicurezza verso l’interno della chiesa.
La sequenza successiva ha una durata di 6.10” e ha diversi elementi degni di nota.
L’uomo, protagonista della scena, si muove con agio negli spazi della chiesa. Il rumore dei passi che sentiamo è un suono aggiunto in post produzione, come testimonia l’assenza di sincronismo con i movimenti. Dopo aver percorso un lungo corridoio, risale la navata centrale, camminando tra i banchi vuoti. La macchina da presa lo attende, da una posizione leggermente rialzata; quando arriva, l’uomo si ferma davanti alla macchina da
4 Si tratta di una osservazione scaturita nel corso delle interviste alla regista; Cfr. Introduzione, p. 3.
presa e rimane immobile, con lo sguardo fisso verso qualcosa che sta oltre la camera. Quando ci viene mostrato il controcampo, notiamo che l’uomo sta osservando un quadro: il rumore del vento ora riempie il silenzio, e lui si guarda intorno: alcuni dettagli di dipinti raffiguranti angeli riempiono la scena. Al termine di questa contemplazione, l’uomo si allontana lungo la navata centrale, e solo inizialmente ne sentiamo i passi, che poi vengono inghiottiti dal silenzio. Arriva fino in fondo, quasi all’ingresso, ma con un jump cut ecco che è di nuovo in cammino verso la macchina da presa; ora però ha in mano un mazzo di fiori bianchi, il suono dei passi finalmente è in presa diretta. Si guarda intorno, come se stesse aspettando una persona a cui donare quei fiori. Non trovando nessuno, vaga tra i banchi della chiesa, quasi smarrito, poi si siede. Una serie di inquadrature fisse di dettagli della chiesa si alternano in sequenza: il confessionale, una tenda ripresa fuori asse, un dipinto inquadrato dal basso. L’uomo è sempre seduto, ha le braccia conserte e il mazzo di fiori è poggiato di fianco a lui. A questo punto, Rosaleva lo intervista; sentiamo solo la sua voce che sembra interrogarlo. «Quanto tempo passa in questa chiesa?» è la prima domanda che pone la regista. Prosegue con «Questa chiesa non sembra popolata di gente» e con «Lei sa che dentro questa chiesa c’è un pipistrello?»; questa seconda domanda apre a un dialogo sui pipistrelli che sembra improvvisato. L’ultimo quesito «E lei la notte sogna la sua chiesa?» fa definitivamente chiarezza sul ruolo ricoperto dall’uomo: è il custode dell’edificio. L’intervista viene interrotta per due volte dall’avanzare di due bambine attraverso la navata centrale; ambedue tengono in mano un mazzo di fiori uguale a quello che prima aveva il custode. Al termine dell’intervista le bimbe sono ferme, in piedi, e una folata di vento muove i loro vestiti e i fiori. Si guardano intorno e in questo momento la luce sui loro volti sembra cambiare colore; questo mutamento luministico è difficile da leggere in quanto non è possibile chiarire se si tratti di un effetto costruito in post produzione o di un segno di usura dovuto al riversamento del lavoro su nastro magnetico. Dopo le due bambine, appare nuovamente il custode che, fermo davanti alla statua di un angelo che suona un’arpa, si volta, guarda in camera e dice: «L’angelo». Con quest’ultimo primo piano, la sequenza del custode giunge al termine.
Sulle note di Wagner e il suo Preludio di Tristano e Isotta, fanno nuovamente capolino le due bimbe: sono ora sedute, guardano dritte davanti a loro, poi sollevano lo sguardo verso gli affreschi della chiesa; nello specifico, osservano un angelo. Nella scena successiva, una panoramica ci mostra quattro drappi colorati riversati sui banchi e sul pavimento: uno azzurro, uno bianco, uno dorato e uno rosso. I colori non sono casuali ma ricalcano le sfumature dei dipinti e degli affreschi che ci sono stati mostrati fino a questo momento; è
come se i personaggi delle varie rappresentazioni e gli angeli evocati e omaggiati fossero improvvisamente scesi sulla terra, lasciando una traccia cromatica del loro passaggio. Siamo ora fuori dalla prima chiesa, anche il custode esce insieme a noi. Il rombo di un tuono accompagna la sua uscita; dopo essersi guardato intorno per provare a leggere il cielo, rientra in chiesa chiudendo la porta alla sue spalle. Termina così la visita alla prima delle tre chiese di Torino.
Interessante sottolineare che questa prima parte occupa 12 minuti sui 28 della durata totale; ciò significa che quasi metà del film è stata dedicata ad una sola chiesa mentre la restante metà dovrà ospitare due visite ad altrettante chiese.
Il temporale, che fa da raccordo tra una chiesa e l’altra, assume un significato importante: il custode di San Filippo Neri, nell’udire il boato dei tuoni, chiude la porta lasciando fuori, simbolicamente, quel caos che invece ritroveremo nel Santuario della Consolata, dove il rombo del temporale rimarrà costante.
La macrosequenza sulla seconda chiesa ha una durata totale di 6.45”. Nel complesso, è molto diversa da quella precedente. Non vi è alcun intervento diretto da parte della regista e nessuna interazione con le persone presenti in scena.
La sequenza si apre come la prima, con alcune riprese della facciata principale da diverse angolazioni. Se però l’altra chiesa, poco frequentata dai torinesi, era avvolta dal silenzio, questa, invece, ha tutta un’altra atmosfera. Il tappeto sonoro è composto dalla voce di un prete che prega in latino, e l’assemblea che risponde, e dal rumore dei tuoni. Primi piani e piani medi dei frequentatori della chiesa si alternano nel montaggio. Per la prima volta, l’occhio di Rosaleva sembra spiare quello che accade, senza che appaiano segni della sua presenza. Le persone si susseguono: chi si inginocchia con le mani giunte, chi rimane seduto, chi si fa il segno della croce, chi si fa avvolgere dalla forza dello Spirito Santo durante la preghiera. Nessuno di loro risponde a delle particolari esigenze cinematografiche, ma è presente la casualità della realtà nel suo farsi. Dopo circa due minuti di immagini dedicate a credenti assorti, la macchina da presa cambia inquadratura: ora riprende dall’alto l’altare centrale. Mentre le preghiere e i tuoni proseguono, un uomo - probabilmente il parroco, o il custode - sistema l’area intorno, cambia la tovaglia bianca, posiziona dei libri. Poi l’inquadratura cambia nuovamente, ora vediamo il soffitto, i tuoni rimbombano ancora. Dopo una breve panoramica, torniamo sui banchi: visi e mani vengono ripresi nel dettaglio, le note wagneriane di Tristano e Isotta riprendono a suonare. A questo punto, interviene l’unico elemento palesemente “costruito” dell’intera sequenza: un bambino è seduto su un banco, si gira verso la macchina da presa e guarda in camera,
poi distoglie lo sguardo. Dopo di lui, il primo piano di una signora in slow motion chiude la sequenza.
Se la prima chiesa l’abbiamo vissuta in maniera più intima attraverso lo scambio con il suo custode - unico abitante e spesso unico frequentatore di quegli enormi spazi - e abbiamo goduto dei suoi silenzi, la Consolata si è mostrata più abitata e più caotica, attestandosi come luogo di viva devozione.
Siamo ora giunti alla terza ed ultima chiesa: il Duomo. Come le precedenti, anche questo edificio ci viene mostrato per la prima volta attraverso due inquadrature fisse della facciata e del campanile. La macrosequenza ha una durata di poco più di 9 minuti. Dopo la schermata nera in cui appare il nome della chiesa, una panoramica ci introduce nella navata centrale e ci mostra le due navate laterali nascoste dietro due fitte file colonne. Il movimento è breve, infatti la camera è ora ferma, al centro, tra i banchi. Immagini fisse di persone di passaggio si alternano a dettagli della chiesa; in sottofondo si odono rumori difficili da identificare, ricordano fischi confusi e voci di donna.
Le inquadrature che vediamo sono dei fermo-immagine, sorta di istantanee di un luogo in cui atmosfere magiche e religiose sembrano essersi mescolate dando vita a qualcosa di curioso. Tale bizzarria traspare dai volti delle persone che visitano il Duomo. La camera le riprende dal basso e tutte osservano il soffitto, come se fossero alla ricerca dell’origine di questi strani suoni provenienti da angoli imprecisati. Anche tutti i dettagli dell’edificio sono ripresi dal basso e ne sottolineano la maestosità. Giovani donne, giovani uomini, anziane signore, persone sole o in compagnia si alternano a scorci del soffitto, delle canne dell’organo, delle vetrate e dei baldacchini. Dopo quasi tre minuti dal primo fermo- immagine, compare un bambino al centro della scena - tutte le persone sono riprese a figura intera, lui compreso - e la musica cambia. Su un viso stupito come indica la bocca aperta, le note di Tristano e Isotta si ripetono anche in questa ultima visita. Il bambino è l’unico a cui è concesso il movimento: muove un po’ le mani e solleva sempre più meravigliato il viso verso l’alto; il piccolo è la sola presenza “pura” in uno spazio eccessivamente “consumato”, il solo che riesce a conservare lo stupore necessario per cogliere la bellezza di quel luogo. La macchina da presa ci concede ora un’ultima ripresa al soffitto, prima di portarci fuori, sulle scalinate dell’ingresso principale. Il portone è aperto, una coppia di giovani sposi esce fuori dal Duomo; al rombo del passaggio di un aereo, sollevano lo sguardo verso il cielo. Mentre fissano la volta celeste, uno zoom all’indietro allarga l’inquadratura e possiamo vedere gran parte della facciata e le scalinate dell’ingresso. The rhythm of the heat di Peter Gabriel in versione live comincia a suonare -
una scelta musicale che Rosaleva definisce «dissacrante» -, il fermo-immagine sugli sposi rimane fisso fino alla conclusione del film.
Sul finale del documentario mi preme riferire un’osservazione della regista. Rosaleva, durante l’intervista, mentre rivediamo insieme Tre chiese, accenna alla presenza di un pullman pieno di turisti che si sarebbe fermato sul piazzale della chiesa; questo suo ricordo è presente anche nell’analisi del film condotta da Marta Calamia5. Nella versione del documentario giunta fino a me, invece, questo elemento non è presente. Probabilmente, il lavoro in mio possesso è in una forma ridotta, una sorta di cut imposto dal canale televisivo.
Nello specifico, questo lavoro sulle chiese della città di Torino unisce atmosfere magiche con argomenti religiosi, mostrando ancora una volta l’ambivalenza e le “contraddizioni” caratteristiche della regista. La sua preparazione scientifica, la sua sensibilità umanistica e il suo ascendente religioso si condensano ed emergono con forza. Di ogni chiesa viene descritto un aspetto particolare, e solo al termine del film ci rendiamo conto di non aver conosciuto affatto gli edifici nel loro complesso, ma possiamo affermare di aver colto e compreso la natura più profonda che li attraversa. Della prima chiesa, come abbiamo visto, è emerso il suo lato più solitario e silenzioso; è forse per questa ragione che l’unico intervento diretto dell’autrice all’interno del film è riscontrabile in questa sequenza. L’intervista al custode assume, per certi tratti, il solo modo disponibile per carpire informazioni su un luogo che altrimenti non avrebbe avuto modo di esprimersi se non, appunto, con il suo - religioso - silenzio.
La seconda chiesa, invece, mostra da subito il suo lato abitato e confusionario. I tuoni costanti, le preghiere fitte e il via vai di gente di ogni tipo sottolineano la pregnanza della devozione - tema già emerso ne La vocazione6 - e la conseguente connessione con Dio. Non c’è spazio per commenti ulteriori, l’autrice non ritiene necessario intervenire in maniera diretta. Ogni elemento esterno potrebbe interrompere quella connessione, quindi lascia che a parlare sia soltanto il ritmo cadenzato delle preghiere sulle note dissonanti dei tuoni.
La terza chiesa, il Duomo, mostra invece il suo lato più turistico e trafficato. I suoni creano un’atmosfera magica, mistica, mentre persone di ogni tipo si alternano sulla scena. Volti
5 M. Calamia, Il cinema di Gabriella Rosaleva, cit., p. 382. 6 Cfr. Scheda d’analisi, p. 55.
molto diversi tra loro, bambini, giovani adolescenti, signore e signori di una certa età; tutti si affollano davanti all’altare principale, nella navata centrale, tra le due file dei banchi. Rimangono in piedi a contemplare qualcosa che non ci è dato vedere; ammirano le meraviglie dell’edificio, rimangono affascinati e stupiti dallo splendore che un luogo creato dall’uomo, ma dedicato a Dio, può emanare. Un luogo, il Duomo, in cui le persone non si concedono alla preghiera, non comunicano con il cielo, ma sono solo di passaggio. Eternità e transitorietà trovano riscontro nella scena finale nella quale una coppia di novelli sposi, che hanno appena pronunciato le loro promesse davanti a Dio, sollevano lo sguardo al passaggio di un aereo.
La descrizione qui proposta dimostra, mi pare, quanto anticipato all’inizio riguardo la natura dell’indagine documentaria proposta da Rosaleva. I luoghi del rito, come abbiamo visto, chiude un cerchio aperto un anno prima con La vocazione (dove ugualmente la strada narrativa è ben lontana dalla naturalezza che un documentario basato sulle interviste dovrebbe garantire), ma non è certamente l’ultimo lavoro nel quale lo sguardo sperimentale ed eccentrico della regista trova spazio per esprimersi.
4.8V
IAGGIO INS
ENEGAL-L’A
FRIQUE EST ROSE1Oreste se ne va, lungo le strade del mondo, perseguitato, atterrito, eppure deciso a raggiungere la sua purificazione2.
Come è noto, Pier Paolo Pasolini, tra il 1968 e il 1969, si reca in Africa per effettuare un sopralluogo tra la Tanzania e l’Uganda: ha in mente di realizzare un film basato sull’Orestiade di Eschilo. Le immagini raccolte in Appunti per un’Orestiade africana sono dunque la summa dei suoi appunti, un diario di bordo in pellicola che realizza in due tempi. La sua idea è quella di calare il mito greco nella realtà africana, ricercando personaggi ed elementi chiave senza modificare l’ambiente 3 . Il filmato - che nasce senza necessariamente voler essere un documentario o un film4 - ci mostra la ricerca da parte di Pasolini sia dei volti e dei luoghi più adatti per il suo progetto, sia della reale possibilità di accomunare l’Africa degli anni Sessanta al mito greco, soprattutto nella sua idea di passaggio da un mondo arcaico e selvaggio a una realtà civile e democratica5. Il film non vedrà mai la luce, ma gli Appunti vengono presentati, nella loro forma completa, a Venezia nel 1973. L’uscita nelle sale, però, risale solo al 1975, dopo la morte dell’autore. Infatti, nonostante fosse stato prodotto dalla RAI, Appunti per un’Orestiade africana era ritenuto scomodo e non adatto alla diffusione6.
Da qui la similitudine con Viaggio in Senegal di Gabriella Rosaleva, girato nel 1986 per conto della Italturist. Dal suo viaggio in Africa nasceranno due documentari: uno realizzato tenendo conto delle richieste da parte dell’agenzia di viaggio, quindi mettendo in scena il lato più canonico e folcloristico dei luoghi visitati; l’altro, invece, ispirato al lavoro di Pier