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Cfr Appendice iconografica Vol 2, p 284.

2 Da Appunti per un’Orestiade africana, Pier Paolo Pasolini, 1973, min. 48:34.

3 Per un’analisi più approfondita sul cinema di Pier Paolo Pasolini rimando all’edizione de I Meridiani Walter Siti (a cura di), Pasolini Pier Paolo, Pasolini per il cinema, I Meridiani, Mondadori, Milano, 2001.

4 La citazione è tratta direttamente da Appunti per un’Orestiade africana al minuto 1:10”; 5 Gianni Borgna, Pasolini integrale, Castelvecchi Editore, Roma, 2015.

Paolo Pasolini. Il desiderio di Rosaleva è quello di ripercorrere i passi dell’autore e di dedicargli questo lavoro.

L’opera di Rosaleva ha una durata di 26 minuti, come gli altri prodotti realizzati per la televisione. Viaggio in Senegal, tra tutti i suoi lavori analizzati finora, è forse quello che più risponde alla definizione classica del termine documentario. Rispetto agli altri nei quali si sente forte l’intervento della regista, in questo caso prevale il desiderio di mostrarci una realtà senza filtri e senza ingerenze. È quasi naturale allora domandarsi come, a questo punto, Viaggio in Senegal si inserisca nella filmografia di Rosaleva che, fino a questo momento, ha colpito per i suoi tratti personali, lontani dagli standard e molto vicini allo sperimentalismo più ardito.

Con ordine, proviamo a delineare gli elementi più interessanti di questo lavoro, i punti di congiunzione con Pasolini e, in modo particolare, gli aspetti più rosaleviani.

La pellicola si apre con una panoramica tra i banchi di una scuola piena di bambine e bambini. Per circa due minuti assistiamo a una lezione, probabilmente di matematica al principio, che si trasforma poi in musica, in balli e canti che si propagano per tutta la classe. La musica continua sotto i titoli di coda; dopo l’apparizione del titolo, Viaggio in Senegal, seguono altre due didascalie: la prima recita «L’Afrique est rose», la seconda, invece, contiene una citazione di Léopold Sédar Senghor7 «negro è emozione, la ragione è ellena8».

Ecco dunque un aperto riferimento alla negritudine, concetto riportato anche da Pasolini nelle sue poesie dedicate all’Africa9, che è un insieme di valori propri della cultura nera10.

7 L.S. Senghor è stato scrittore e uomo politico, nonché presidente del Senegal da settembre del 1960 al dicembre del 1980; inoltre, è stato uno dei più attivi esponenti della négritude.

8 Lo slogan «L’emozione è negra, la ragione è ellena» è stato coniato da Senghor e racchiude tutte quelle divergenze che lui riscontra tra il negro e il bianco europeo. Distinzioni che riguardano il carattere etnico, la «raison-oeil» del bianco contrapposta alla «raison-étreinte» del negro. Per una spiegazione più approfondita, rimando al discorso tenuto presso l’Università di Lovanio il 17 gennaio del 1969 e contenuto in Senghor Léopold Sédar, Poemi africani, Rizzoli, Milano, 1971 (ed. originale Poèmes, 1964, Èdition du Seuil, Paris).

9 Pasolini scrive una raccolta dal titolo Poesie in forma di rosa.

10 Il termine négritude ha origine alla fine degli anni Trenta a opera dei poeti Damas, Césaire e Senghor. È stato poi ampiamente diffuso da Senghor, ed è stato ripreso da numerosi pensatori e letterati africani che nel corso del tempo hanno apportato i loro contributi all’analisi del concetto. Inoltre, anche Sartre si fa portavoce di questo movimento culturale - è uno dei pochi intellettuali

Seppure indirettamente, cominciano a delinearsi alcune connessioni tra le opere di Pasolini e Rosaleva.

Il documentario è segnato da un inizio caotico, con un ritmo serrato, che ci catapulta immediatamente in una situazione movimentata e allegra. Poi, dopo i titoli di testa, sul finire della musica, si apre su un villaggio all’alba. Da una situazione di musica e caos, arriviamo alla calma piacevole che caratterizza le giornate al loro inizio. Appaiono alcune capanne costruite come palafitte e la macchina da presa ci mostra questo villaggio da diverse angolazioni, prima senza acqua, poi con l’avanzare della marea, e così capiamo la necessità di quel tipo di costruzioni. L’ambiente è silenzioso, vediamo poche figure umane intente a lavorare. Ormai è giorno inoltrato, la marea si è alzata, alcuni uomini camminano nell’acqua trasportando oggetti. Uno di loro viene ripreso a figura intera, guarda in camera, sta fermo e si lascia osservare, poi avanza di pochi passi - probabilmente su indicazione della regista -; questo gesto, per quanto minimo, rientra nel modus operandi di Rosaleva, che persegue sempre il pieno controllo di chi o cosa abita la scena in un dato momento. La regista sembra rimandare direttamente agli Appunti per un’Orestiade: «Laggiù il padre colto dall’indiscrezione della macchina da presa» dichiara Pasolini11, mentre un contadino viene ripreso, in figura intera, intento a star fermo. Per un attimo, vi è una sospensione della realtà che si realizza davanti allo sguardo attento della macchina da presa. Sentiamo solo il suono del vento e il delicato rumore che fa l’acqua quando qualcuno o qualcosa si sposta al suo interno. Sono pescatori e Rosaleva li segue nelle loro operazioni quotidiane. Le donne, invece, raccolgono sale e, mentre lo fanno, intonano canti tradizionali - la sequenza richiama le immagini di Una leggenda sarda quando le giovani, insieme alla nonna, svolgono alcuni lavori domestici, come lavare i panni o setacciare la farina12. Il canto crea una contrapposizione con il silenzio che ha caratterizzato l’attività prettamente

dell’epoca a farlo - e apportando il suo punto di vista ne Orfeo nero, un saggio che fa da prefazione alla Antologia della nuova poesia negra e malgascia di lingua francese, curata da Senghor.

È un termine che racchiude i valori propri dell’essere negro, «strutture e valori che derivano da un certo stato d’animo, da una certa sensibilità» Un’espressione che affonda le sue origini nella rivendicazione, da parte di un popolo, della propria indipendenza post-coloniale e della propria dignità.

11 La citazione è tratta sempre dal film, Appunti per un’Orestiade africana, al minuto 9:16”. 12 Cfr. Scheda d’analisi di Una leggenda sarda, p. 37.

maschile della pesca. La camera scruta da lontano, ma non si lascia sfuggire alcuni primi piani: come quello su una giovane che, accortasi di essere filmata, avanza sorridendo e si ferma. C’è uno scambio costante tra chi filma e chi viene filmato, ma non una vera interazione. I movimenti sono lenti, la camera indugia sui volti, non c’è fretta ed emerge il desiderio di lasciarci il giusto tempo per osservare con agio la situazione e le persone che la abitano.

Rispetto al lavoro di ricerca di Pasolini, Rosaleva ha come unico interesse quello di mostrarci alcuni aspetti del Senegal che lei ritiene meno turistici e più arcaici. Per farlo, a poco più di dieci minuti dall’inizio del film, arriva un suo intervento: la sua voce, in sovrapposizione over, doppia in italiano il parlato di una donna senegalese che parla di sé. «Mio figlio è nato qui, vicino al mare. Io e mio marito vogliamo che cresca, come noi, vicino al mare. Studierà, forse diventerà un poeta, sarebbe bello». La voce della regista è priva di interpretazione, spersonalizzata, come se a parlare fosse una macchina. Al termine di questa breve dichiarazione, i due genitori e il bambino si lasciano osservare per qualche secondo, poi la camera li lascia.

Come Pasolini, anche Rosaleva ci porta ora tra i banchi delle università. Lo spazio sembra una sala studio, le tavolate sono dotate di abat-jour, ragazze e ragazzi affollano i posti e hanno la testa immersa nei libri.

A questo punto giunge una nuova intervista da parte della regista, che domanda a una ragazza cosa vorrebbe fare da grande. Un’altra studentessa viene ripresa, in primo piano, ma non sentiamo la sua voce. Rosaleva ci consegna gli spazi e le persone, con la stessa calma a cui ci ha abituati nei precedenti documentari. Al termine della sequenza universitaria, l’unica ambientata in un luogo chiuso se escludiamo le immagini della scuola dell’incipit, torniamo per le strade del villaggio. Ancora una volta, non compare alcun intervento sonoro, né alcun gioco con la macchina da presa: le inquadrature fisse si alternano ai primi piani sui volti dei bambini e ragazzi che affollano la scena. In voice over, un uomo comincia a recitare un testo:

Il ritorno è verso l’infanzia, il ritmo, l’istinto che crea ragione. Se non fosse per i bambini, Dio sì che moriva nella foresta; se non fosse per i bambini, Dio sì che moriva nella foresta.

Il giovane re è tornato. Ha camminato nudo sulla strada assolata che porta a Ziguinchor. Il giovane re è tornato. Un acuto dolore poi la trasparenza del moto delle cose. L’anima delle cose è d’argento, Dio com’è d’argento l’anima delle cose. L’anima delle cose è d’argento; Dio com’è d’argento… l’anima delle cose.

Il giovane re è tornato. È sparito nella penombra della foresta sacra. Per diventare un uomo bisogna saper vincere ogni ripugnanza. Il dio serpente, il dio erba, il dio seme, il

tornato ai simboli. La gente del villaggio sapeva, il tam tam scuoteva l’erba del suo ritorno. Il re è tornato ai suoi oggetti. Dakar è una grande città, insegna a non dimenticare.

Anche Rosaleva, come Pasolini, si avvale dell’utilizzo di immagini di repertorio: si tratta di un lungo camera car, in bianco e nero, con una grana molto diversa dalle altre immagini del film, che viene interrotta da un’inquadratura fissa, a colori, su una strada. Il camera car ci ha portato fuori dal centro abitato, ora siamo in mezzo al verde, in mezzo alla natura. Pochi esseri umani appaiono in questa sequenza di inquadrature fisse su dettagli naturali e inorganici come alberi, radici, canneti, capanne disabitate; negli oggetti riconosciamo i simboli del giovane re enunciati poco prima dall’uomo. Dal silenzio della natura, sentiamo emergere, forte e incalzante, una musica tribale. Ora uomini e donne si fanno nuovamente spazio sulla scena, suonano, cantano e ballano a ritmo della musica. Anche Pasolini, sul finire del suo film, riprende una danza in cui lui individua la metafora della trasformazione delle Erinni in Euminidi; in Rosaleva invece, questo momento di danza e svago appare come un passaggio dal dovere, dato dallo studio e dal lavoro, al piacere. Mentre la musica piano piano si affievolisce, altri oggetti vengono ripresi e ci vengono mostrati in successione. Infine, sul primo piano malinconico di una donna la musica si interrompe del tutto. È a questo punto che interviene un ulteriore elemento caratteristico di Rosaleva: i protagonisti del film danno vita a una composizione fotografica, a una sorta di ritratto di quella che potrebbe somigliare a una famiglia numerosa. Sono disposti in maniera ordinata sulla scena e, fermi, guardano in camera, proprio come se si trovassero di fronte a un fotografo. Dall’immagine fissa in campo medio, passiamo poi ai primi piani dei bambini in prima fila. Questo tipo di costruzione, richiama in modo particolare, ancora una volta, il cortometraggio Una leggenda sarda13.

Una nuova breve intervista a un ragazzo, questa volta in francese senza traduzione né sottotitoli14, fa da ponte tra la staticità della scena precedente e la dinamicità di quella

13 Cfr. Scheda d’analisi, p. 37.

14 Traduzione tratta da Marta Calamia D. Tuo padre è vivo o morto?

R. Morto.

D. Cosa conservi di tuo padre? R. Gli strumenti di guerra. D. Cosa pensi della morte?

successiva, che riprende la corsa di un gruppo di bambini in un campo. Le parole del ragazzo richiamano la storia sentita in precedenza, ed evidentemente ispirata a quei luoghi ancestrali, alle credenze di chi li abita, ai padri che hanno lasciato la vita terrena per abbandonarsi alla grandezza di Dio che vivifica il bosco sacro. Nessuno dimentica i morti, che continuano a essere presenti nelle menti e nella cultura popolare.

Un uomo suona una campana, i bambini vengono richiamati e disposti in maniera ordinata per rientrare a scuola. L’edificio non è lo stesso dell’inizio del film, questo è fatiscente, ma assicura comunque una sorta di ciclicità al racconto, un ritorno agli inizi e insieme la giusta chiusura. Il passaggio dalla parte più “cittadina” a quella più “selvaggia” sembra essere sottolineato anche dalla diversità degli edifici pubblici.

Al termine della lezione, appare un’ultima intervista, anche questa in francese, senza traduzione15, a un giovane ventenne. Vediamo il suo viso per pochi secondi, poi torniamo

R. Penso che la morte sia la fine della vita. I morti non sono morti e vivono nel bosco sacro. Dio prende il loro corpo ma la loro anima vive nel bosco sacro, perciò i morti non muoiono mai.

D. Qual è il tuo desiderio più profondo? R. Vivere eternamente.

15 La traduzione di questo brano è a cura di Chiara Tognolotti. D. Come ti chiami?

R. Mi chiamo Nicola. D. Quanti anni hai? R. Ho vent’anni. D. Dove hai studiato?

R. Ho studiato nel mio villaggio e poi sono andato nella scuola cattolica a Ziguinchor. D. Cos’hai sentito lontano dal tuo villaggio? Senti qualcosa rispetto al bosco sacro? R. Ho avuto nostalgia del mio villaggio e della foresta sacra.

D. Cosa rappresenta la foresta sacra per te?

R. La foresta sacra rappresenta un simbolo del mio villaggio. D. Simbolo di cosa?

R. Simbolo di cultura.

D. Non hai paura di allontanarti dal bosco sacro?

R. Qualche volta ho paura di allontanarmi troppo dal bosco sacro e per questo, quando vado in città, ogni tanto sento il bisogno di tornare.

D. Di che colore è l’Africa?

sul camera car in bianco e nero che prima ci ha condotti da una parte all’altra del Senegal, e poi di nuovo sul primo piano del ragazzo, solo per sentire la sua ultima risposta alla domanda:

«Di che colore è l’Africa?»

«La Casamance è verde, ma l’Africa è rosa».

Con questa affermazione, il documentario trova la sua conclusione e il suo titolo. Una citazione di Pasolini, lo chiude definitivamente:

E l’Africa?…

i rami rossi contro il fogliame verde campione stilistico rosso sul fondo verde

rosso e verde

senza di cui la mia anima non poteva più vivere?16

Queste righe sono uno stralcio della poesia E l’Africa? apparsa sulle pagine de Il padre selvaggio, film che Pasolini avrebbe voluto realizzare ma che, a causa dei problemi riscontrati con La Ricotta, pellicola accusata di vilipendio alla religione, non è mai riuscito a portare a termine. Siamo al cospetto di un bizzarro gioco di specchi, giacché abbiamo la citazione di un film mai realizzato all’interno di un documentario che rende omaggio a un altro film mai realizzato. Rosaleva mostra di conoscere nel profondo gli autori con cui sceglie di confrontarsi. Questa accuratezza del suo fare cinema abbiamo già potuto osservarla in Sonata a Kreutzer e in Mercoledì delle ceneri, preceduti da un attento lavoro di preparazione dove niente viene lasciato al caso.

16 La poesia intera è inserita nell’appendice de Il padre selvaggio, Einaudi, Torino, 1975. Attraverso queste parole, Pasolini vuole trasmettere il dolore che la mancata realizzazione del film gli ha provocato.