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STRUTTURE, MONADI, MOLTEPLICITÀ

2 Cfr Sandro Mancini, Ivi, p.49.

dato-gioia si sfalda e si ricompone in un caleidoscopio di rifrazioni che portano ogni pietra o gemma al centro di una vasta rete di relazioni, differenziandole e deformandole in ambiti sempre diversi e in sempre diverse architetture descrittive. In questo contesto, anche la parola perde un potere di designazione, che tradizionalmente le si crede proprio, divenendo un sistema di rapporti lessicali da cui il senso emerge come rilievo diacritico.

Gian Carlo Roscioni apre le prime pagine della Disarmonia prestabilita proprio su questo problema, marcando il legame tra il «discorso letterario» gaddiano e le sue «premesse teoretiche ed euristiche»1. Il critico e letterato mostra sul piano espressivo, e

in particolare proprio a proposito dell'episodio dei gioielli appena menzionato, l'assenza di forme verbali definitive e autonome. Scrive Roscioni:

Piuttosto che nominare gli oggetti e le cose, Gadda li sorprende nel loro farsi e testimonia della loro provvisoria esistenza. Si direbbe che un'invincibile diffidenza verso «la lingua dell'uso», di qualsiasi «uso», sia alla radice dell'esasperato metaforismo delle sue pagine.2

La radice di questa «diffidenza» verso «la lingua dell'uso» è esposta nelle pagine della Meditazione milanese. Espresso il teorema della «removibilità dei limiti della conoscenza», secondo il quale lo scrittore asserisce che «il sistema di relazioni espresso dalla ragione umana ha dei limiti provvisori o removibili […] e riscatta o redime gradualmente i suoi termini decomponendoli»3, Gadda ritiene evidente e necessario che

anche l'espressione linguistica sia caratterizzata della medesima labilità e precarietà. Definendo una «enorme ingenuità umana» l'opinione diffusa di credere «che il verbo o il ritrovato dell'oggi sia il definitivo»4, lo scrittore asserisce:

La parola di oggi non è l'ultima, è una pausa o grado della conoscenza: una «situazione» così come nella società non esiste una situazione definitiva di bilancio, cristallizzata in aeternum, ma semplicemente la 'situazione del giorno'.5

Tanto quanto la forma del dato anche il valore della parola è provvisorio, e il campo di senso che essa tenta di circoscrivere è «evanescente»6 come il limite di ogni sistema.

1 Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita: studio su Gadda, op.cit., p.3. 2 Ibid.

3 MM, p.667.

4 MM, p.701, in c.vo nel testo: «L'enorme ingenuità umana, quella che spesso anima le polemiche scientifiche e politiche e comunque delle scienze interpretative e della speculazione in genere, consiste nel credere che il verbo o il ritrovato di oggi sia il definitivo. E a questo ci si attacca come naufraghi ad una tavola».

5 MM, p.702. 6 Cfr. MM, p.699.

Per questo come suggerisce Roscioni nella pagina gaddiana piuttosto che il riferimento diretto agli oggetti, troviamo la narrazione del meccanismo con cui sorgono nella nostra percezione: invece che indicare le cose, entità sempre incompiute e sempre «da farsi», Gadda mostra il lento germinare del loro significato da una serie di aggettivazioni digressive o dalle continue divagazioni nelle descrizioni d'immagini che esse implicano (o che potrebbero implicare). Il linguaggio torna continuamente su se stesso, si modifica nel dialetto, decompone i propri termini in etimologie, assonanze e analogie, e mostra «come in una radiografia il disegno che [li] informa»1. L'oggetto si

presenta allora nel riflesso e nello scarto tra tutte queste componenti descrittive, sintattiche e lessicali che lo aprono continuamente verso nuove relazioni.

Nei capitoli precedenti abbiamo messo in luce che il dato per Gadda è frutto di una deformazione e che è costituito già dalla sua origine percettiva di un senso espressivo. Questa una posizione costituisce un primo tratto in comune con Merleau-Ponty. La prima parte delle nostre ricerche è stata dedicata proprio a mettere in rilievo nei due autori l'analoga concezione antidicotomica tra mondo e pensiero del mondo. Il senso delle cose non è in noi né fuori di noi, ma si sviluppa nella reciproca implicazione tra noi e le cose, come deformazione, come modulazione di un gesto e come espressione2.

La nozione gaddiana di deformazione connota tanto una condizione conoscitiva quanto ogni potenzialità espressiva.

Fedele al senso espresso nel nostro rapporto con le cose, allora, anche la lingua letteraria di Gadda non è strumento di designazione di un significato certo, ma espressione di una relazione: come il dato conosciuto è struttura di relazioni indefinibili, anche il linguaggio è una trama di rapporti lessicali in cui gli le situazioni e gli oggetti

1 Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, op. cit., p. 10.

2 Precisiamo ancora una volta che la deformazione per Gadda non indica un rapporto di prevaricazione di un conoscente sul conosciuto, ma piuttosto un atto a due direzioni, un intervento organizzatore del conoscente sugli aggruppamenti del reale, e contemporaneamente il riconoscimento di un senso in queste stesse organizzazioni che non è lui ad attribuire, ma a cui sembra piuttosto rispondere. (la deformazione implica tanto la struttura del dato, quanto la struttura del conoscente). «a mano a mano che il processo conoscitivo si attua [vengono] deformandosi sia le parvenze psicologiche e storiche sia l’oscuro e indistinto sistema esterno. E dicendo del deformarsi non alludo più tosto a un cangiare storico del dato o delle parvenze che a un suo logico ed attuale derogarsi a significati nuovi» MM, p.861. Il rapporto tra conoscente e cosa conosciuta implica un reciproco condizionamento:«L'io giudicante non preesiste in un'attesa logica, o in una incubazione partenogenetica, alla cosa giudicata, narrata. L’io ha veste di modo, di strumento potenziale del giudizio: e nel giudizio soltanto si manifesta, come termine polare della tensione fra lui e la cosa, che è l’altro termine. La cosa giudicata (rappresentata) è istanza, è sollecitazione apparentemente occasionale: in realtà inserita in una consecuzione, in una totalità di eventi che infinitamente si articola: ottiene dall’io critico, dall’io rappresentatore, una risposta immancabile» (VM, p.430).

prendono forma a partire da un gioco di rimandi linguistici e dialettali, di aggiustamenti successivi, quasi tentennamenti, senza che vengano definiti con un solo nome o una sola formula.

Nel I capitolo di questo lavoro ci siamo soffermati sul significato di un titolo come quello della Cognizione del dolore, mostrando come in esso siano riuniti lo sforzo conoscitivo con quello letterario: scrivere per Gadda non è solo descrivere la realtà, ma un tentativo di comprenderla e comprendersi. L'autobiografismo, presente in modo particolare (e particolarmente esplicito) in questo testo, ne è un sintomo evidente. È interessante considerare allora che nella prosa gaddiana, non solo la materia narrata, ma anche (e forse sopratutto) il linguaggio diventa veicolo di conoscenza e sintomo della deformazione.

Se conoscere è deformare cioè «inserire alcunché nel reale»1, anche scrivere è

inserire relazioni nuove nel tessuto della «lingua d'uso» e deformarlo: Gli interventi di idiomi stranieri (come lo spagnolo della Cognizione) o dei dialetti; le nevrosi, le tensioni libidiche e i lapsus che operano nella parlata dei personaggi (spesso ripresi con sarcasmo dal narratore), le inserzioni di un registro sublime (inteso come «sublime alto» e «sublime basso»2), l'inclusione di proverbi; l'adozione di registri provenienti da ambiti

espressivi diversi da quello letterario: sono tutti aspetti che contraddicono la concezione referenziale del linguaggio e ne mostrano al contrario tutta l'ambiguità e la complessità espressive.

I nomi propri delle cose, dunque, laddove compaiono, devono fare i conti con questo universo polimorfo e polisemantico; non sono vettori di un senso unico, ma assumono piuttosto il valore di «elementi del sistema» (nell'accezione gaddiana per cui ogni elemento è già, esso stesso, sistema); sono portatori di relazioni nuove in relazioni preesistenti e, piuttosto che organizzare e riassumere l'universo molteplice in cui si collocano, ne moltiplicano i rapporti, trasformandolo e trasformandosi a loro volta. Come un sasso gettato nello stagno, la parola gaddiana provoca «increspature» sulla superficie della lingua sviluppando una serie di pieghe e ondulazioni in una traiettoria di apparenti divagazioni: come le circonferenze provocate dal sasso sull'acqua, che si diradano in anelli sempre più ampi e sempre meno definiti, anche la parola gaddiana

1 MM, p.863.

2 Cfr. Giorgio Patrizi Dal movimento delle parole al movimento delle strutture, in La critica e Gadda, Bologna, Cappelli, 1975, pp.9-26.

trasforma la lingua di deformazione in deformazione, ponendosi così al centro di una serie di relazioni via via più estesa e delineando un senso sempre più vago e impreciso. Le modificazioni del sistema-parola sul sistema-lingua si attuano a due livelli, complementari e compresenti nella pagina gaddiana: sia su un piano che potremmo definire «di contenuto» del discorso, e riguarda la proliferazione dei riferimenti associati ad un nome (l'autore esplora e descrive una moltitudine di immagini e di situazioni che convergono in un vocabolo e che ne determinano un certo spessore di senso); sia su un piano strettamente sintattico e lessicale (è ad esempio il caso degli elenchi, dei dialetti, del trattino che unisce due parole, dell'uso originale della punteggiatura.. sono soluzioni che decompongono la linearità del discorso, e l'agibilità della lettura, in continue puntualizzazioni e precisazioni, o che frantumano i vocaboli in lemmi sempre più piccoli, moltiplicando di divisione in divisione i rapporti tra le unità semantiche della frase). In questo doppio movimento di accumulazione e scomposizione, la parola è esperita dal lettore come un aggregarsi e disgregarsi di relazioni, come come eccedenza rispetto ai segni e scarto.

* * *

La descrizione dei gioielli nel Pasticciaccio è un caso emblematico della grammatica e dello stile combinatorio di Gadda. L'assenza di un confine netto tra la pietra attuale e le sue «variazioni» mette in evidenza l'inattuabilità di un linguaggio referenziale e l'impossibilità di assicurare ad ogni ente un nome unico. Questa poetica gaddiana del nome come «pluralità» o «aggregazione», se così la possiamo chiamare, accompagna tutta la produzione dell'autore e mette in evidenza il legame tra il piano espressivo e quello teoretico-euristico, come anche Roscioni ha messo in evidenza con questo esempio.

Adottiamo ancora un esempio dal Pasticciaccio in merito al termine e alla nozione di «nipote». Il vocabolo è significativo nello sviluppo della trama poiché in esso si avvolgono una serie di fatti e di problemi che attraversano l'intrigo e svelano i caratteri e i comportamenti dei personaggi. «Sì, sì. Dietro quel nome ''nipote'', ci doveva star nascosto tutto un groviglio... di fili, un ragnatelo di sentimenti, dei più rari,... delicati»1, commenta Ingravallo-Gadda. Il nome «nipote» mostra allora un convergere di

variabili e situazioni che, a loro volta, ne trasformano peso e valore all'interno del racconto. Esaminiamo alcune variazioni del senso e spessore del vocabolo.

Il nome «nipote», usato anzitutto per esprime la posizione di parentela tra Liliana e le ragazze ospiti della coppia Balducci, non indica semplicemente un grado di consanguineità, ma identifica enigmaticamente l'ossessione di una donna che, non riuscendo ad avere figli, devia il propri appetito di maternità sulle nipoti; accogliendole una dopo l'altra nella sua casa, in funzione sostitutiva della «prole sperata»1:

una nipote in quelle condizioni non era una nipote ordinaria: una Luciana o un’Adriana che oggi viene in città dagli zii, poi se ne va, poi torna, poi telegrafa, poi parte, poi arriva a casa sua, poi manda una cartolina con tanti bacioni, poi riarriva da Viterbo o da Zagarolo perché deve riandare dal dentista: e così di seguito. «Ccà ce sta una nepote cchiù 'mbrogliata» rimuginò tra sé e sé [Ingravallo]. Lei [Liliana] [...] ha pescato 'a nepote, dopo anni: pene, lacrime, la notte, e di giorno candele a sant'Antonio pe tutte le chiese de Roma: e speranze, e cure di Salsomaggiore, sia in loco che a domicilio, e visite del professor Beltramelli e del professor Macchioro. A ogni nuova candela una speranza. A ogni nuova speranza un nuovo professore.2

Al personaggio di Don Lorenzo Corpi, confessore di Liliana, dobbiamo un elenco completo delle nipoti succedute presso i Balducci. Durante l'interrogatorio del 21 marzo, quattro giorni dopo l'omicidio, Don Lorenzo passa in rassegna i nominativi di «quel po' po' de regazze... una mejo de quell'altra». «Quattro [Liliana] se n'era già tirate in casa in tre anni, una dopo l'artra [...]Quattro! in tre anni!»3. Tanto che quelle «adozioni provvisorie» erano diventate una «teoria, ormai, un’infilata di perle»4. Vi era «la Gina di Zagarolo», l’ultima, «la nepote in carica» ricordata nel

testamento, più tre giovani «pupille»: «La prima, la Milena», bugiarda e ladra; la seconda, «la Ines», convolata a nozze con uno studente all’ottavo anno di legge, infine «la terza, la Virginia!», procace e strafottente, la più capricciosa e pericolosa delle nipoti che sembra avesse «stregato» o «ipnotizzato» entrambi i coniugi, avendo, come suggeriscono le sue amiche «er diavolo da la parte sua...»5.

1 «La signora Liliana, non potendo scodellare del proprio... Così ogni anno : il cambio della nipote doveva di certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del mancato scodellamento[…] D'anno in anno... una nuova nipote: quasi a simboleg giare, nel cuore, i successivi natali della prole» (P, p.24).

2 P, p. 23. 3 P, p.130. 4 P, p.130. 5 P, p.136.

Sono queste le tormentose adozioni1 di Liliana che innestano un primo strato di

relazioni complesse e ambigue nel nome «nipote» collocandolo in una trama complessa di elementi biologici, psicologici e morali; e, come pensa Ingravallo, a «tutto un groviglio... di fili, un ragnatelo di sentimenti, dei più rari,... delicati».

Il ruolo della nipoti si interseca inoltre ad un'altra presenza femminile di casa Balducci, quella delle ragazze prese «a servizio». Durante un pranzo domenicale da Remo e Liliana, Ingravallo nota una somiglianza tra Virginia, la nipote bella e prepotente incontrata mesi prima ed ora assente, e la domestica Assunta, presente invece quella domenica: «la domestica era una faccia nuova, per quanto somigliasse, vagamente, alla nipote di prima»2. La sovrapposizione Assunta-Virginia è nuovamente

suggerita nel momento in cui il commissario riconosce nell’attrazione per Assunta «lo strano fascino della sfolgorante nipote dell’altra volta»3. È interessante notare, inoltre,

come Ingravallo instauri una continuità logica tra il pensiero delle nipoti di Liliana che si susseguono una dietro l'altra, e il succedersi delle domestiche.4

Assunta e Virginia in particolare, ma con esse il ruolo più generale di nipote e donna di servizio, vengono così ad accavallarsi e a confondersi nella mente del lettore5. Al

termine «nipote» si aggiunge anche questa ambigua connotazione di domestica; esso, 1 Cfr. P, p.130: «E intanto, còme per ingannà la disperazione, adottava. Adottava “provvisoriamente”, adottava pe' modo de dì. A parole, adottava: benché, però, aveva sostituito un testamento con l'artro. Tre vorte aveva rivoluta indietro la busta gialla, co li cinque sigilli de ceralacca. Tre volte j'aveva spiccicato i sigilli, poi ne aveva ricreata la figura. “Testamento olografo di Liliana Balducci.” Adottava, a parole, se pure in una effusione vera dell'animo, con tutta la sincerità d'una speranza: risorgente a ogni nuovo incontro: a ogni nuovo abbandono delusa».

2 P, p.18.

3 «Non pensò, non crede opportuno di pensare di chiede r nulla: né della nuova nipote né della nuova serva. Cercò di reprimere l'ammirazione che l'Assunta destava in lui: un po' come lo strano fascino della sfolgorante nipote dell'altra volta: un fascino, un imperio tutto latino e sabellico, per cui gli andavano insieme i nomi antichi, d'antiche vergini guerriere e latine o di mogli non reluttanti già tolte a forza ne la sagra lupercale con l'idea dei colli e delle vigne e degli scabri palazzi, e con le sagre e col Papa in carrozza, e coi bei moccoloni di Sant'Agnese in Agone e di Santa Maria in Porta Paradisi a la Candelora, a la benedizione dei ceri: un senso d'aria dei giorni sereni e lontani tra frascatano e tiburtino, soffiata a le ragazze del Pinelli tra le rovine del Piranesi, vigendo le efemeridi e i calendari della Chiesa, e, nella vivida lor porpora, tutti gli alti suoi Principi. Come stupende aragoste. I Principi di Santa Romana Chiesa Apostolica. E al centro quegli occhi dell'Assunta: quell'alterigia: come fosse una sua degnazione servirli a tavola. Al centro... di tutto il sistema... tolemaico: già, tolemaico. Al centro, parlanno co rispetto, quer po' po' de signorino. Gli bisognò reprimere, reprimere.» (P, p.20).

4 «La Virginia! (l'immagine fu un lampo di gloria, un repentino fulgore nella tenebra): e prima della Virginia, chell'ata 'e Monteleone: comme se chiamava? E le serve! Sta bene che frullan via come passere al primo stormire d'un capriccio: ma i Balducci, via! ne cambiavano, si può dire, una al mese» (P, pp.23-24).

5 Cfr. Giorgio Pinotti, Liliana Balducci e il suo boja?, in «Nuova rivista di letteratura italiana», n. 6,

2003, pp.349-65. Ora anche in EJGS, URL:

più che determinare una differenza rispetto alle altre figure di serve-governanti di casa Balducci, ne acquisisce le qualità: la nipote allora è insieme una domestica, pronta ad servire il doloroso desiderio della zia, e viceversa la sostituzione di mese in mese delle donne di servizio mima la processione delle nipoti, facendo da cassa di risonanza al tormentato desiderio di Liliana e contrassegnandolo sempre più come un tratto capriccioso e maniacale del suo carattere1. Ulteriore riprova è l'interrogatorio a cui

abbiamo appena accennato a don Lorenzo Corpi, in cui il prete, imbrogliandosi, conferisce a Liliana la parte di una «padrona» nei confronti della nipote Virginia anziché quello di «madrina» o «zia»:

...Certo è che lei [Virginia] abbracciava e baciava la padrona. « Padrona? » interruppe il dottor Fumi aggrottando i cigli.

« Padrona, madrina : fa lo stesso.» La baciava come pò bacià una pantera...

Dietro al nome «nipote» troviamo ancora un'ulteriore trama di significati. Nella complessa connotazione del termine e nella pluralità di relazioni e situazioni a cui esso porta, viene suggerita una possibile pista da seguire per rintracciare il colpevole dell'omicidio di Liliana. Nel canovaccio Il palazzo degli ori2, Virgina è indubbiamente l'assassina, mentre è fortemente indiziata nella quarta puntata nella versione apparsa in Letteratura (1946). Nonostante lo spazio a questa terza nipote sia ridotto drasticamente nell'edizione del romanzo in volume nel 1957, la sua figura, o piuttosto il binomio Virginia-Assunta, rimane il sospetto più convincente per la soluzione del delitto.

In un articolo comparso sull'«Edimbourg Journal of Gadda Studies», Robert De Lucca mette in rilievo la confusione presente anche nelle diverse voci critiche tra la domestica Assunta (secondo Aldo Pecoraro la principale indiziata nella versione del 1957) e la nipote Virginia (che resta nell'ottica di Federica Pedriali la colpevole del delitto). Scrive De Lucca:

è altrettanto chiaro (per quanto chiare non ne siano le ragioni) che fra la versione di Letteratura e il romanzo in volume (per non parlare della sceneggiatura) avviene uno slittamento dal personaggio di Virginia a quello di Assunta. Anzi, e riprendendo un concetto che Gadda applica ai due crimini e alle rispettive indagini, attraverso un «processo di degeminazione, di sdoppiamento amebico», Assunta (la serva) e Virginia (la nipote) finiscono per risultare gemelle, per condividere i tratti diabolici, gli occhi conturbanti, ecc.3

1 Don Lorenzo Corpi ricorda quella gentilezza materna di Liliana che «accarezzava le domestiche, e je perdonava sempre, si rompeveno un piatto: Le confortava a sperare nel Signore» (P, p.131).

2 Ricordiamo che con questo titolo è uscita postuma la sceneggiatura del romanzo scritta da Gadda per il cinema, pubblicata nel 1983 ma databile probabilmente al 1947-48.

La questione deve essere guardata con attenzione1. Durante l'interrogatorio del dottor

Fumi ad Ines Cionini compare per la prima volta nel romanzo quello che sembra essere, scrive Federica Pedriali, «un vero identikit dell’assassina»2: si tratta della descrizione di

«un'amica di un'amica» dell'interrogata, ovvero di un'amica di Camilla Mattonari, sua collega alla bottega di Zamira (è in casa di Camilla che verranno ritrovati, sul finale del libro, i gioielli del furto Menegazzi). Ines rivela che questa amica di Camilla lavorava «a Roma a servizio, ma non proprio a servì tutto er giorno»3 e «stava da certi signori che

j’aveveno fatto la dote»4. Ammette inoltre di averla anche incontrata, ma una sola volta,

e la sola cosa che riesce a descrivere del suo volto sono gli occhi da strega, o da zingara .

E l'aveva incontrata lei pure, una sera... du occhi! «Che occhi !» : e Fumi si seccò, fece spallucce.

«Mbè, sì, du occhi, » ribattè la Ines: « ma diversi. Diversi da come ce l'avemo tutte. Come fussi una strega, una zingara. Du stelle nere de l'inferno. All'Ave Maria, quanno che annotta, pareva ch'er diavolo se fussi vestito da donna. Quell'occhi te metteveno paura. Ciaveveno come un'idea, dentro, de volesse vendica de quarcuno.»5

Ricordiamo che «l’inferno e il diavolo», come scrive Giorgio Pinotti, «sono il senhal