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IL CORPO ESPRESSIVO E L'ESSERE-AL-MONDO

2. IL CORPO NARRATO

Nel paragrafo precedente abbiamo accennato all'impossibilità di definire il corpo nella pagina di Gadda, eppure, contemporaneamente abbiamo avanzato l'ipotesi che esista nell'autore una precisa concezione della corporeità, analoga per certi versi a quella merleau-pontina. Si tratta ora di esaminare in modo più particolare questa implicita nozione gaddiana di corpo.

In un articolo del 20021, Riccardo Stracuzzi ha evidenziato che le immagini del

corpo in Gadda si danno o come iperbolica elevazione al sublime, rarefacendosi, o al contrario come esagerata riduzione al concreto, piegandosi in una materialità gretta e laida, divenendo grottesche e inverosimili. Casi paradigmatici sono nel Pasticciaccio i corpi di Liliana (corpo sublime) e di Zamira (corpo grottesco), ne citiamo due brevi ritratti:

La signora Liliana pur con qualche sospiro mal trattenuto (a giorni) sotto le trasvolanti nubi di tristezza, era una desiderabile donna: tutti ne coglievano l'immagine, per via. All'imbrunire, in quel primo abbandono della notte romana ch'è così gremito di sogni, rincasando... ecco dai cantoni de' palazzi e dai marciapiedi le fiorivano incontro omaggi, o

singoli o collettivi, di sguardi: lampi e lucide occhiate giovanili: un sussurro, talora, la sfiorava: come un'appassionata mormorazione della sera. A volte, ad ottobre, da quel trascolorare delle cose e dal tepore dei muri emanava un inseguitore improvvisato[...] Donna quasi velata ai più cupidi, di timbro dolce e profondo: con una pelle stupenda: assorta, a volte, in un suo sogno: con un viluppo di bei capelli castani che le irrompevano dalla fronte; vestiva in modo ammirevole... Aveva occhi ardenti, soccorrevoli, quasi, in una luce (o per un'ombra?) di malinconica fraternità...2

Della Zamira, sì: nota a tutti, tra Marino e Ariccia, per la mancanza degli otto denti davanti... quattro sopra e quattro sotto: di che la bocca, viscida e salivosa, d'un rosso acceso come da febbre, si apriva male e quasi a buco a parlare: peggio, si stirava agli angoli in un sorriso buio e lascivo, non bello, e, certo involontariamente, sguaiato. Per quanto, si mormorava, quel rictus, quel vóto, riuscissero a taluni reali o non reali di torbida illecebra.3

Nel primo brano Liliana è una donna aerea, impalpabile, immagine ideale che si confonde con la «mormorazione della sera», con le ombre fuggitive di un qualche «inseguitore improvvisato», o con la materia stessa del sogno da cui essa è rapita. A questo ritratto armonico, intessuto di una «nobile malinconia», si contrappone quello della Zamira, immagine grottescamente deforme, un vero monumento di degradazione e

1 Riccardo Stracuzzi, Corpo, op.cit. 2 P, p.26.

rozzezza che il narratore associa a quello di una «maga antica in sacerdozio d'abominevoli sortilegi». In entrambi gli esempi, il corpo narrato perde una connotazione realistica e, assieme ad essa, la sua rappresentabilità come «cosa». Il corpo infatti non viene rappresentato mimeticamente, né si mostra come figura-oggetto; Stracuzzi scrive:

In ogni caso, il corpo, quale incarnazione più suggestiva della cosa, è censurato dalla scrittura di Gadda: frammentato e rarefatto nelle immagini del fulgore o dello splendore; frammentato e appesantito dalla minuzia di uno sguardo grottesco e disgustato, esso semplicemente manca. E in questo mancare si segnala come l’oggetto privilegiato, ancorché coinvolutivo, della topica descrittiva gaddiana.1

Mancando il realismo mimetico della descrizione, dunque, manca anche la figura di un corpo-oggetto; Stracuzzi può parlare di «oggetto privilegiato» solamente in ragione della sua assenza. È in virtù della mancanza di una rappresentazione (ciò che Stracuzzi definisce «indescrivibilità»2) che cercheremo di approfondire una concezione di

corporeità in Gadda.

In relazione alla nozione di unità spinoziana, abbiamo già visto nel capitolo precedente che Gadda non considera il corpo alla stregua di un oggetto della fisica o della biologia, ma lo concepisce come una struttura organica di elementi psichici e fisici, culturali e biologici. Si tratta ora di comprendere le implicazioni stilistiche di questa struttura. Se nella pagina gaddiana la duplice e oppositiva tensione tra il sublime e il grottesco rende evidente la mancanza di un corpo-oggetto, essa mette anche in evidenza un'altra immagine di corporeità, quella vissuta dei personaggi – che è complessa, profondamente intrecciata ai fatti narrati e in divenire. Questa immagine si manifesta nel rapporto tra le due polarità, l'ideale e l'iper-materiale, nel loro costante avvicendarsi ed integrarsi l'una con l'atra. Anche Gonzalo Pirobutirro e Francesco Ingravallo, alter-ego letterari di Gadda e portavoce delle sue idee filosofiche all'interno della Cognizione e del Pasticciaccio, veicolano questa raffigurazione. Nei due romanzi

1 Cfr.Riccardo Stracuzzi, Corpo, cit.

2 «Il primo indizio di questa indescrivibilità è l’assoluta mancanza di realismo di tali figure», Ibid. Riccardo Stracuzzi parla di «indescrivibilità», mentre noi preferiamo parlare di «non rappresentabilità»: la rappresentazione, come vedremo nel seguito di questo lavoro, concerne una concezione «cosale» o oggettuale di ciò che viene giudicato come rappresentato (cfr. Leon Battista Alberti, De pictura (1436), cura di Cecil Grayson, Roma -Bari, Laterza, 1980; cfr. anche Mauro Carbone, Sullo schermo dell'estetica : la pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano, Mimesis, 2008). A nostro avviso, infatti, non mancano tanto le descrizioni relative al corpo, quanto la concezione di corpo come oggetto di rappresentazione. Questo argomento, trattandosi di uno dei temi centrali di questa tesi, sarà ripreso e approfondito in modo più puntuale nei successivi paragrafi.

citati, la presentazione di entrambi i personaggi avviene prima di tutto attraverso dettagli fisici e comportamenti, seguendo un impianto narrativo il cui taglio è squisitamente visivo. È la percezione del loro aspetto fisico, della loro immagine visibile e dei loro gesti a rendere altrettanto visibili le loro qualità caratteriali, emotive e psicologiche: pensiamo al «male» di Gonzalo, che è insieme fisico e psichico, una drastica somatizzazione del dolore della cognizione in un caos gastro-intellettuale; pensiamo anche all'assopimento digestivo del commissario Ingravallo che gli permette di raccogliere e mettere a fuoco gli indizi utili dei casi su cui indaga.

Consideriamo innanzitutto il caso della Cognizione. Gonzalo Pirobuturro compare tardi nella struttura narrativa del romanzo e il suo ingresso avviene indirettamente. Dopo che José, il «peone» a servizio nella Villa, annuncia al medico Higueròa «che il figlio della Padrona, con suo comodo, lo avrebbe desiderato per una visita»1, la figura di

Gonzalo prende possesso della scena, investendo il resto del racconto. Inizialmente è quasi esclusivamente attraverso la voce e le riflessioni del medico, nell'avvicendarsi di molteplici immagini, che quel «figlio» si mostra: prima nelle raffigurazioni iperboliche dagli aneddoti di paese, successivamente in quelle piegate nell'ottica e nei racconti della domestica Battistina, infine nella figura percepita direttamente dal medico, nel momento in cui Gonzalo lo raggiunge all'ingresso della villa (entrando così finalmente in scena per la prima volta).

Nel percorrere la strada verso casa Pirobutirro, il dottor Higueròa ci offre la prima presentazione del corpo di Gonzalo attraverso la lente deformante di alcune «barocche fandonie» che circolano in paese. In un lungo e dispersivo rincorrersi di indiretti liberi il medico ripercorre in particolare uno tra i tanti episodi, quello riguardante l'indigestione d'un crostaceo, che alcuni ritengono un riccio, altri un'enorme aragosta;

qualcuno favoleggiava addirittura di un pesce-spada o pesce-spilla; eh già! Piccolo, appena nato; ch'egli avrebbe deglutito intero (bollitolo appena quanto quanto, ma altri dicevano crudo), dalla parte della testa, ossia della spada: o spilla. Che la coda poi gli scodinzolò a lungo fuor dalla bocca, come una seconda lingua che non riuscisse più a ritirare, che quasi quasi lo soffocava. Le persone colte si rifiutarono di prestar fede a simili barocche fandonie: escluso senz'altro sia l'ittide che l'echinoderma, ritennero di dover identificare l'orroroso crostaceo in una aragosta ... La quasi ferale aragosta raggiungeva le dimensioni di un neonato umano: ed egli, con lo schiaccianoci, ed appoggiando forte, più forte!, i due gomiti sulla tavola, ne aveva ferocemente stritolato le branche, color corallo com'erano, e toltone fuora il meglio, con occhi stralucidi dalla concupiscenza, e poi di più in più sempre più strabici dal di dentro, inquantoché puntati sulla preda, a cui accostava, papillando

1 C, pp. 595-96: «Il José (il Giuseppe della Villa Pirobutirro) gli venne a dire che il figlio della Padrona, con suo comodo, lo avrebbe desiderato per una visita».

bramosamente dalle narici, la ventosa oscena di quella bocca!, viscere immondo che aveva anticipatamente estroflesso a properare incontro l'agognata voluttà … E aveva anche avuto cuore, in sin vergüenza, d'intingerli in salsa tartara, uno a uno: cioè quei ghiotti e innocentissimi tréfoli, o lacèrtoli (d'un colore bianco o madreperla rosato come d'aurora marina), ch'era venuto a mano a mano faticosamente eripiendo, e con le unghie, dalla vacuità interna delle due branche, infrante!.... scheggiate!.... E, usatori financo delle mani, e dei diti, se li era condotti alle labbra unte e peccaminose con una avidità straordinaria. Poi satollo, dimesso lo schiaccianoci, aveva trincato.1

Gonzalo è ritratto come uomo «vorace, avido di cibo e di vino», caratteristiche che, enfatizzate dall'aneddoto, ne stravolgono le forme e l'aspetto, accentuando i gesti brutali e deformandone i lineamenti fino a concretizzare la sua fame pantagruelica in un'immagine grottesca e caricaturale. L'eccesso immaginativo di questa «chiacchiera» dilata ed enfatizza i tratti ferini e mostruosi del suo aspetto, come lo strabismo degli occhi lubrichi, o la bocca-ventosa oscena e immonda che estroflette la lingua prima di raggiungere la preda (sia essa pesce spada, riccio o aragosta), o ancora le narici che «papillano bramosamente» in direzione del boccone. Nelle immagini riportate dal medico si disegna così una figura dalle sembianze molto più bestiali che umane; il suo corpo, presentato nell'eccesso e nella dismisura, viene anche definito con gli attributi di «grifo e porcino»2. Anche la descrizione dello spazio che circonda quel «figlio»

grifagno e divoratore contribuisce alla percezione mitica e selvaggia della scena: «uno stambugio tenebrosissimo» il cui suolo è cosparso di «ossi di pollo e resche iscarnite», carcasse gettate a terra dopo ogni «criminale perpetrato spolpamento»3.

I tratti della bestialità e della brutalità di Gonzalo non sono però unicamente mostruosi. La deformazione grottesca del personaggio è accompagnata dalla descrizione sensuale delle pietanze. Il brano riportato infatti è inserito periodo più vasto in cui cibi e portate vengono ritratti come materia seduttiva; l'atto stesso di nutrirsene non si presenta come necessità funzionale, ma come momento estatico di rapimento sensoriale in cui la voluttà dei sapori si fa insieme gustativa e tattile. Vengono infatti messi in rilievo la carnosità dell'aragosta, la succosità dei condimenti e la consistenza di alimenti «farinosi al tatto della lingua» che si «sdilinquiscono» in un «involto carnoso». Ancora, viene dettagliato un «diaccio calice» di vino al cui contatto il labbro, «sottile e molato», percepisce «la vitreità destituita di spessore, la purità frigida ed incorpora» del «netto cristallo»4. Anche il paesaggio lukonese agisce in direzione di una seduzione carnale: il

1 C, p. 601.

2 Cfr. in particolare C, p.602. 3 C, p.602.

medico considera che «forse, l'aspetto della serenità, a lui inconsueto ma nativo a quei colli, in essi così diffuso e dolce, e nelle tremanti stille della campagna, lo invitava a una celebrazione dionisiaca...»1.

Assistiamo così ad una descrizione fortemente connotata sul piano sensoriale: nell'esibizione delle qualità aptiche degli alimenti irrompono riferimenti sonori e «liquidi» (per le allitterazione delle cosiddette consonanti liquide «r» ed «l») di chele infrante e scheggiate, di commensali che «pasturellano e brucano» e di gole che «glugolano»2; oppure la narrazione passa dalla descrizione della sensualità

tattile-gustativa degli alimenti a quello visivo-percettivo, dove il narratore descrive il profilo dolce delle colline o le nuances coralline dell'aragosta. L'aspetto sensoriale e seduttivo del cibo, la metamorfosi del pasto in immagini eccessive e oscene, la fisionomia animalesca e rozza di Gonzalo, sono tutti elementi che concorrono a delineare un quadro in cui predomina inequivocabilmente l'aspetto dell'incontro sensibile col mondo.

Durante il cammino verso la villa, il dottore incontra un altro personaggio a servizio di casa Pirobuttiro, si tratta di Battistina, la domestica della «Signora-madre». Nel serrato dialogo tra i due ci viene offerta una seconda immagine di Gonzalo; questa volta ad essere messo in evidenza è soprattutto il suo comportamento. Nei discorsi diretti al dottore, la domestica racconta scene di maniacale avarizia e scoppi di furore insensato, di minacce alla «povera madre» e un sacrilego oltraggio verso il ritratto del padre, calpestato selvaggiamente. Anche in questo caso la presentazione del figlio affonda la propria ragione descrittiva in una presentazione fisica e visiva. Non si tratta di «rovistare» nella psicologia di Gonzalo ed entrare nel suo stato d'animo; il suo malessere ci viene viene suggerito da dati visibili, leggibili nei suoi gesti e sul suo volto, nelle direzioni del suo sguardo, nel suo girovagare di stanza in stanza come un'apparizione.

Comincia a girar per casa con le mani nelle tasche […] e va da una stanza all'altra… e la guarda… e pare che guardi le bòccole […] anche stamattina vedevo che le guardava i brillanti [...] e seguitava a guardare, a guardare […] E lui non le toglieva gli occhi dai brillanti.... La signora si moveva per casa: e lui le andava dietro... e continuava a fissarle un orecchio.... e poi quell'altro.... e lei andava in sala, e lui dietro in sala... e tornava in cucina...e lui dietro in cucina […] E ogni volta le dice di non perderli e di stare attenta.… e le dice stringendo i denti: ¡anda, anda!.... che i brillanti non ti salveranno! […] E certe 1 C, p.599.

2 Cfr. C. p. 603: «... tutti i rimanenti attavolati che pasturellavano e brucavano con tanto decorosa benignità, e taluno glugolando alcun gotto».

volte tutt'a un botto le urla nella faccia che costano cinquemila pezzi cinquemila pezzi! […] e poi scoppia in un verso che è buono solo lui di farlo […] certe volte, mi creda, il signor don Gonzalo ha una faccia, una faccia! […] Non lo vada a ripeter, ma la signora, nell'aiutarmi ad asciugar i piatti, mi ha raccontato che quest'inverno, giù a Pastrufazio, ha voluto schiacciar sotto i piedi un orologio, come fosse uva.... e poi, subito dopo, ha distaccato il ritratto del suo povero Papà, che è appeso in sala da desinare.... e ci è montato sopra coi piedi.... a pestarlo...»1

Nell'ottica della domestica Battistina, il malessere di Gonzalo non è una condizione interna, ma una situazione manifesta, esibita sul suo corpo, che inquieta e spaventa: si dà nel vagare senza direzione, nel gesto iroso del digrignare i denti, nel calpestare oggetti di famiglia, nello sguardo instancabilmente puntato sugli orecchini della madre.

Il racconto della domestica è ridicolizzato dal medico le cui risposte se ne caratterizzano come un parodistico contrappunto. Già nel riferimento agli aneddoti di paese, l'intervento del dottore svolge una funzione ironica, tesa a ridimensionare l'immagine esagerata Gonzalo e a riportare l'attenzione sul suo corpo debole e inelegante, sulle scarpe ortopediche, sulle calze bianche e sulle ginocchia malfatte, tutti elementi che ne sconfessano la violenza bestiale e l'attitudine combattiva:

Per parte materna il suo cliente veniva di sangue barbaro, germanico e unno, oltreché langobardo; ma l'ungaricità e il germanesimo non gli erano andati a finire nelle calze bianche, suole doppie, e nemmeno nei ginocchi, che ricordavano pochissimo quelli di Sigfrido; e anche nel ruolo di leone magiaro che si risveglia aveva l'aria di valere piuttosto poco.2

In una sola immagine, insomma, Phelipe Higueròa mette in rilievo alcune caratteristiche della figura di Gonzalo che ne contraddicono l'aspetto aggressivo e pericoloso. Nel dialogo con Battisitina, inoltre, il medico contesta con sarcasmo le sue preoccupazioni e minimizza l'inquietudine che la domestica attribuisce alla signora-madre: «....Paura!.... sarà la discordia, la diversità dei caratteri....»; «.... Va, va.... Voi donne vi fate sempre delle idee!.... Che paura volete che abbia!...Ma se è un uomo come gli altri!....»; «Be', povera donna, son cose che si dicono....»; «.... Ma siete matta!....»; «.... Quante storie!.... ma se è un buonissimo diavolo! Voi donne chissà cosa capite.... cosa sognate....»3. Il dialogo con la domestica si illumina così di una vena

sarcastica, che deforma nuovamente l'immagine di Gonzalo, ammantandola di una luce

1 C, pp.611-15. 2 C, p.606. 3 C. pp.610-12.

sordida e insieme comica. Il secondo ritratto del «figlio» è, come il primo, prevalentemente visivo e deformato in senso caricaturale.

Nell'accostamento di queste due prime immagini, nella presentazioni di un corpo sgraziato e immorale, leggiamo una sorta di manifestazione visibile e viscerale del dolore di Gonzalo. Esite poi una terza immagine del personaggio, quella osservata e descritta direttamente dal dottore una volta giunto alla villa. Questa nuova immagine del Figlio stride con quelle presentate in precedenza. Tuttavia, benché riportata «in presa diretta» e connotata da un realismo distaccato e neutrale, ci troviamo di fronte ad una nuova deformazione del personaggio, disegnata questa volta dal punto di vista del medico. Vale la pena riportare il brano:

Era alto, un po' curvo, di torace rotondo, maturo d'epa, colorito nel viso come un Celta: ma la pelle alquanto rilasciata e stanco all'aspetto, benché fosse una meravigliosa mattina. Vestito appena decentemente, con delle scarpe accollate di pelle di capretto, nerissime, a stringhe nere: e però poco atte, in campagna, a cattivargli la considerazione dei giocatori di tennis, o la simpatia delle giocatrici. Fu estremamente cortese. La sua persona non era adorna di pull-over, né altro indumento di nome. Un lieve prognatismo facciale, quasi il desiderio di un bimbo che si fosse poi tramutato nel muso di una malinconica bestia, veniva conferendo al suo dire, ma non sempre, quel tono sgradevole di perplessità e d'incertezza: e pareva dar ragione di certo distacco dai vivi. Distacco, opinò il dottore, più forse patito che voluto. In qualche momento, qualche tratto del volto riusciva addirittura bamboccesco, e la domanda predestinata ad ogni maniera di ripulse.1

La prospettiva deformante del medico si mostra nel linguaggio obiettivo e piatto in cui è completamente svanito l'accento caustico e beffardo che fino a questo momento lo ha contraddistinto. La descrizione, piegata nell'ottica dell'uomo di scienza, è impersonale. Il dottore adotta un canone descrittivo naturalista, in forte contrasto, se non addirittura in opposizione, all'esuberanza barocca dei ritratti precedenti.

Il ruolo del personaggio Higueròa cambia a partire da questa terza immagine, che si rivela tanto artificiosa e parziale quanto quella delle «barocche fandonie» che tenta di smentire. La prospettiva scientifica che in essa si manifesta, infatti, verrà via via screditata dal confronto con il paziente. Approfondiamo brevemente questo mutamento poiché ci aiuterà a comprendere e contestualizzare questa terza presentazione del corpo di Gonzalo.

Nelle pagine precedenti e nei tratti finora riportati, il medico aveva rintracciato nel dolore di Gonzalo un aspetto cognitivo ed emotivo, riscoprendo in lui un «male invisibile». Nella finzione del romanzo, Higueròa adduce l'espressione ai Mirabilia

Maragdagali, scritti da Padre Saverio Lopez (il testo è evidentemente un'invenzione dell'autore, ma nei Mirabilia Maragdagali possiamo intrevedere Le meraviglie d'Italia dello stesso Gadda1); l'aneddoto espressivo è raccontato in una nota a piè di pagina, in

cui il narratore, con lo zelo di una spiegazione extradiegetica, precisa che padre Lopez, descrivendo «il macchinismo interiore della vita di ognuno», è stato in grado di discostarsi tanto dall'argomento etico della predestinazione quanto da quello del libero arbitrio2. La nota è di interesse non marginale, anzitutto perché si pone oltre la querelle

che vede opporsi relativismo ed assolutismo dei valori; secondariamente perché, se nelle Mirabilia Maragdagali intravediamo la raccolta Le meraviglie d'Italia, nella posizione di padre Lopez possiamo leggere la posizione dello stesso Gadda; infine perché, posta al di fuori del testo, la nota si sottrae al pensiero del dottore e anticipa una certa distanza dalla sua ottica deterministica. Infatti, se da un lato Higueròa lega il dolore fisico del proprio paziente ad un male «interno», rivelando una larghezza di vedute significativa per i suoi tempi (la Cognizione si svolge tra il 1925 e il 1933 nel Maradagàl, che nella finzione del romanzo si tratta di un paese modesto, di non molte risorse, dell'America Latina), dall'altro lato ne riduce le cause ad un unico motivo, la solitudine, e fornisce sommariamente, e funzionalisticamente, una mediocre soluzione: una moglie - che egli spera di trovargli tra le sue quattro figlie nubili. Il dottore rivela così le modeste prospettive, il miope determinismo e l'inadeguatezza delle proprie soluzioni.