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IL PROCEDERE CONOSCITIVO DA «MEDITAZIONE MILANESE» A «LA COGNIZIONE DEL DOLORE».

Quando discese, con un libro in mano, la zuppa sembrò attenderlo in tavola, al suo posto, nel cerchio della lucernetta a petrolio: dal di cui tenue dominio il fumo della scodella vaporava a disperdersi nell’oscurità, fra i costoloni del soffitto, buia plancia. Le intravature spagnolesche si drappeggiavano di ragnateli, come di vele in riserva, appese, andando per il Mare delle Tenebre. 1

La descrizione è tratta dalla Cognizione del dolore. Questo brano è significativo per l'innesto di due immagini frequenti nell'opera gaddiana, la prima riguarda il binomio buio/luce, la seconda quella del rimbaldiano bateau ivre. Si tratta due assi metaforici ricorrenti attraverso cui l'autore descrive il processo conoscitivo. In questo passo in particolare, Gonzalo Pirobutirro, sceso dalla sua stanza per desinare, osserva il piatto

che lo attende in una stanza della propria casa, quest'ultima percepita come la plancia di una nave piratesca che solca un immaginario, ma significativo «Mare delle Tenebre». Per comprendere l'importanza di questo doppio asse metaforico, occorre procedere con ordine a partire dalla prima immagine del «cerchio della lucernetta» che illumina la zuppa.

Gadda disegna come in un quadro il disperdesi della luce di una lampada a petrolio: l'oggetto del narrare non è la cena preparata e sintetizzata nel dato «scodella di zuppa», ma lo svanire della luce nell'ombra, reso ancora più palpabile dalle onde di vapore che sfumano nel buio. La luce, più che segnalare un oggetto e una presenza, ne rende vivo il contrasto con il campo d'oscurità in cui è immerso. Il procedimento descrittivo non è nuovo in Gadda, già Roscioni aveva segnalato che l'autore non focalizza mai l'attenzione su un unico oggetto, ma lo descrive sempre nella relazione con ciò che lo circonda. Per l'autore, infatti, ogni dato non è un sistema circoscritto, ma una sintesi di relazioni di una rete vasta. Per questo un sistema non si da mai nella sua inseità, ma nel rapporto con una molteplicità indefinita di relazioni.

La deformazione del reale, già ve lo dissi, coinvolge od annichila. […] Questo processo di dissoluzione-ricostituzione non deve essere visto nei modi gretti di una intuizione che immagina le cose «ab interiore» cioè come tanti piccoli io saputelli. […] Infinite relazioni apparentemente esteriori a un sistema pertengono a questo sistema che deve essere pensato nella sua vastità ed onneità, e non soltanto nel suo io saputello di pacco postale chiuso e inceralaccato.1

Secondo Gadda ciascun dato non è che una «porzione di realtà»2. In quanto

annichilimento o coinvoluzione di una molteplicità di relazioni, il dato può essere definito solo in rapporto al campo più vasto da cui è sorto e che perciò, sebbene apparentemente esterno (è Gadda stesso a sottolineare quell'«apparentemente»), gli è costitutivo.

Tale condizione del dato è presente anche nella Phénoménologie de la perception, in quella che comunemente è conosciuta come la «struttura oggetto-orizzonte» della percezione. Sviluppando la propria concezione sulla base degli studi della Gestalttheorie, Merleau-Ponty non considera mai un elemento percettivo isolato: ogni dato sorge sempre da un campo di forze che si attraggono e si respingono creando tensioni, increspature, pieghe e fessure. Questo campo non è una sommatoria o un

1 MM, pp.812. 2 MM, p.822.

aggregato di visioni locali e atomiche, ma lo sfondo di innumerevoli relazioni che si innestano l'uno sull'altra. Solo quando si presenta una certa disomogeneità su un certo orizzonte, si producono dei processi e delle figure; è solo nel disomogeneo, nel molteplice, nell’ambiguità che qualcosa accade. Nell’omogeneo non avviene nulla, in un sistema omogeneo è tutto fermo, è l’entropia. La peculiarità del percepito, pertanto, è «l’ambiguità, il “mosso”, il lasciarsi modellare dal suo contesto».1 Il singolo ente,

quindi, assume rilievo e diventa visibile solo in quanto è connesso ad una configurazione ed è inscritto in una corrente di relazioni. Percepito sempre a partire da uno sfondo, l'oggetto si costituisce come «vibrazione» di un orizzonte. Ciò che l’uomo percepisce non è dunque un oggetto semplice, ma una struttura definibile nei termini di «oggetto-orizzonte» o «figura-sfondo».

Soit une tache blanche sur un fond homogène. Tous les points de la tache ont en commun une certaine « fonction »:. qui fait d'eux une « figure ». La couleur de la figure est plus dense et comme plus résistante que celle du fond; les bords de la tache blanche lui « appartiennent » et ne sont pas solidaires du fond pourtant contigu; la tache parait posée sur le fond et ne l'interrompt pas. Chaque partie annonce plus qu'elle ne contient et cette perception élémentaire est donc déjà chargée d'un sens. Mais si la figure et le fond, comme ensemble, ne sont pas sentis, il faut bien, dira-t-on, qu'ils le soient en chacun de leurs points. Ce serait oublier que chaque point à son tour ne peut être perçu que comme une figure sur un fond. Quand la Gestalttheorie nous dit qu'une figure sur un fond est la donnée sensible la plus simple que nous puissions obtenir, ce n'est pas là un caractère contingent de la perception de fait, qui nous laisserait libres, dans une analyse idéale, d'introduire la notion d'impression. C'est la définition même du phénomène perceptif, ce sans quoi un phénomène ne peut être dit perception. Le « quelque chose » perceptif est toujours au milieu d'autre chose, il fait toujours partie d'un « champ ». Une plage vraiment homogène, n'offrant rien à percevoir ne peut être donnée à aucune perception. La structure de la perception effective peut seule nous enseigner ce que c est que percevoir. La pure impression n'est donc pas seulement introuvable, mais imperceptible et donc impensable comme moment de la perception […] Un champ visuel n'est pas fait de visions locales.2

Guardare un oggetto significa immergersi in un campo visivo più complesso, non avere «a distanza» un «mosaico» di sensazioni puntuali, ma trovarsi in un orizzonte di relazioni e prendere parte ad un sistema di configurazioni. Le analisi dello scienziato e del filosofo, che «estraggono» il dato dal suo contesto ed lo esaminano come segmento indipendente, non devono essere mai considerate come un atteggiamento «naturale», si tratta invece di procedimenti astraenti e «tardivi» - cioè non immediati o originari. Al contrario, la percezione intesa come esperienza primitiva mi porta «nell'oggetto», guardandolo io «vengo ad abitarlo» e scorgo in esso le molteplici prospettive del campo 1 «Le propre du perçu est d'admettre l'ambiguïté, le ''bougé", de se laisser modeler par son contexte »

(PP, p.684; tr.it. p.43). 2 PP, p.675-76; tr.it. pp.36-37.

in cui è immerso. Secondo Merleau-Ponty, infatti, il dato è, come la monade leibniziana, «specchio di tutti gli altri oggetti»1: penetrato da tutti i lati da un’infinità di sguardi che

s’incontrano in profondità, esso è «translucido»; innestandosi sullo sfondo e sorgendo dalla coinvoluzione di prospettive di un orizzonte molteplice, l'oggetto racchiude in sé il proprio sfondo come sintesi di tutti gli sguardi su di esso possibili. Per questo Merleau-Ponty scrive che «l’orizzonte interno di un oggetto non può divenire oggetto senza che gli oggetti circostanti divengano orizzonte»2: nel momento in cui esso si

mostra, gli altri oggetti provvisoriamente diventano orizzonte. La visione, pertanto, si costituisce di due momenti, o movimenti, simultanei e, come scrive l’autore, «è un atto a due facce»3: da un lato un oggetto può essere colto solo in quanto convergenza di

molteplici prospettive, secondo la faccia che gli altri oggetti gli rivolgono; dall’altro lato nell’attimo stesso in cui è percepito, questi stessi oggetti svaniscono, le relazioni convergenti nel dato si dissolvono in un declinarsi periferico e divengono sfondo:

dans la vision, j'appuie mon regard sur un fragment du paysage, il s'anime et se déploie, les autres objets reculent en marge et entrent en sommeil, mais ils ne cessent pas d'être là. Or, avec eux, j'ai à ma disposition leurs horizons, dans lesquels est impliqué, vu en vision marginale, l'objet que je fixe actuellement. L'horizon est donc ce qui assure l'identité de l'objet au cours de l'exploration, il est le corrélatif de la puissance prochaine que garde mon regard sur les objets qu'il vient de parcourir et qu'il a déjà sur les nouveaux détails qu'il va découvrir. [...] La structure objet-horizon, c'est-à-dire la perspective, ne me gêne donc pas quand je veux voir l'objet: si elle est le moyen qu'ont les objets de se dissimuler, elle est aussi le moyen qu'ils ont de se dévoiler. Voir, c'est entrer dans un univers d'êtres qui se montrent, et ils ne se montreraient pas s'ils ne pouvaient être cachés les uns derrière les autres ou derrière moi. 4

Ogni oggetto non è mai un'inseità chiusa e preliminarmente dotata di senso, ma il senso è svelato dalla percezione nel rapporto tra il percepito e il contesto in cui la percezione si realizza. Questa descrizione merleau-pontiana dell'oggetto percepito (il richiamo alla monade leibniziana, l'idea di un «enuclearsi» di relazioni animate dalla percezione che pone tutte le altre sullo sfondo, la concezione di una configurazione da cui il percepito proviene e su cui si innesta) è profondamente analoga alla sintesi del dato descritta da Gadda. Nella Meditazione, in un paragrafo efficacemente intitolato «Impossibile chiusura di un sistema» Gadda sottolinea il fatto che un sistema non può mai essere considerato un'unità circoscritta e definita una volta per tutte:

1 «Chaque objet est le miroir de tous les autres» (PP, 746 ; tr.it. p.115).

2 «L'horizon intérieur d'un objet ne peut devenir objet sans que les objets environnants deviennent horizon et la vision est un acte à deux faces » (PP ,p.746; tr.it. p.114).

3 Cfr. nota precedente. 4 PP, p.746; tr.it. p.114

Se noi contempliamo un oggetto finito, anche dei più chiusi e circostanziati in sé, di quelli che dentro i loro limiti spaziali temporali organici causali finalistici hanno la più generosa dovizie di giustificazioni e di motivazioni, noi vediamo che esso, così considerato, contiene un errore. Esso è così erroneamente concepito.1

Nel corso del suo trattato, Gadda considera il dato come la convergenza di relazioni che, come tali, proseguono verso direzioni periferiche, su cui il dato è necessariamente innestato. Riportiamo di seguito un noto passaggio in cui Gadda afferma non poter ammettere un dato come «nucleo di relazioni definitivo in sé ed avulso dal mondo; come uno gnocco, come un pacco postale», e se gnocco deve essere considerato non è per la sua oggettualità conchiusa, ma per la sua caratteristica di «agglutinato filamentoso»:

Ho già affermato che tutti gli gnocchi sono unti agglutinati filamentosi per il formaggio e la salsa, e non detersi e politi. Sono impastati gli uni con gli altri, e ognuno dei cento altri mille e ognuno dei mille un milione, e così in infinito.2

Questa concezione si accompagna alla considerazione sulla precarietà del conosciuto: essendo infatti inseparabile dal contesto o rete di relazioni in cui esso si determina, il dato non è può essere mai definito una volta per tutte; il suo significato al contrario è sempre passibile di nuove deformazioni. Essendo una «pausa euristica» di una configurazione che rimanda costantemente ad un sistema più vasto, il dato non ha che limiti attuali, continuamente violabili:

una relazione introdotta in un sistema, lo deforma. Il sistema della deformazione conoscitiva, qualora venga pensato fuori del tempo, ci si presenta necessariamente come un mostruoso logogrifo offrente infinite soluzioni ermeneutiche. Esso è come un sistema mostruoso [orografico in nota, n.d.r] che secondo i punti di osservazione si deforma all'occhio dell'esploratore.3

Successivamente, l'autore identifica la «molteplicità dei significati» del reale con il variare delle «posizioni attuali» (cioè delle posizioni contingenti) delle relazioni di un sistema, indicando in tal modo che ogni significato è sempre relativo a una configurazione spazio-temporale determinata. La struttura in cui si sintetizza il dato è dunque simile a quella della «figura su uno sfondo» di cui scrive Merleau-Ponty: il dato non è mai isolato, ma, come il fascio luminoso indirizzato ad un oggetto, è polo di

1 MM, pp.742-43. 2 MM, p.655. 3 MM, p.748.

un'attenzione attrattiva che coinvolge certe relazioni per mettere altre nell'ambiguità dello sfondo (sempre presenti tuttavia come «punti d'osservazione»).

L'analogia con Merleau-Ponty in merito alla concezione del dato, e al suo senso, è ancora più evidente se si considera che entrambi gli autori si interessano all’aspetto di una genesi percettiva, in base alla quale le cose, non ancora cose e non ancora dotate di senso, emergono da una coinvoluzione di prospettive e, prima di solidificarsi nel dato, si danno come organismi nascenti.

Nella concezione strutturale gaddiana, in cui il senso del percepito si dà come coinvoluzione di relazioni nella vastità di un sistema di connessioni, si può collocare una certa predilezione per una descrizione «geometrica» del campo percettivo. Prendiamo ad esempio una famosa pagina della Meditazione in cui l'autore descrive il sorgere delle cose al nostro sguardo, rappresentandole come «forme e cubi».

svegliandoci di soprassalto da un sonno greve, quando l’angoscia e la stanchezza mentale ci privano di una rapida ripresa di una nostra totale e integratrice ragione, noi viviamo di «frammenti di ragione» per alcuni attimi, stropicciandoci faticosamente li occhi. Ecco allora le forme e i cubi della vita, veduti da queste nostre ragioni frammentarie […] ecco apparirci come strani sistemi, di cui non ci spieghiamo il perché lì per lì. […] Ma con il michelangiolesco sforzo dello stanco che si risolleva, questi frantumi di ragione cercano di coagularsi e consolidarsi in una più lucida veglia. E allora quelli oggetti o cubi che intravedemmo al primo aprire delli occhi, vengono giustificandosi […] E quel cubo è un sasso, e l’altra forma è un fucile, e il fucile è perché siamo soldati, e il sasso è perché siamo sulla terra del Carso e tutto si ricompone e si cementa nel sistema e viene apoditticamente giustificato (in quell’attimo) dal sistema.1.

Nel testo La disarmonia prestabilita, Gian Carlo Roscioni ha mostrato la predilezione di Gadda per un tipo di scrittura che non è indirizzata a definire oggetti e cose, ma a descrivere quell'attimo del processo conoscitivo in cui, prima di accedere alla loro pienezza, farci «una ragione» d’esse e accordare loro la funzione che gli crediamo propria, le cose si mostrano «come in una radiografia» e rivelano «il disegno che le informa»2. La descrizione della Meditazione che abbiamo appena citato ricorre anche

nei romanzi e nei racconti; non riguarda solo la genesi dell'oggetto nella percezione, ma anche il momento in cui esso svanisce dal nostro orizzonte percettivo. Un esempio lo ritroviamo nell'inizio del racconto La morte di Puk, in cui Gadda descrive il dissolversi degli oggetti in figure geometriche, scarne ed essenziali:

1 MM, pp.838-39; c.vo nostro.

Quel suo occhio diceva: «Kant ha ragione». Diedri e prismi, luci ed ombre e colori vanivano: le cosiddette mosche avevano lasciato ogni paura […] Adesso moriva: ossia capiva che la rabbia, i prismi, i rumori sospetti e la luce stessa e tutto non erano se non un catalogo vano..1

Questa tendenza a mostrare lo «scheletro» delle cose, stilizzandone geometricamente le forme, si collega alla metafora di chiarore-oscurità, o luce-ombra, vista a proposito della Cognizione: la presentazione degli oggetti come strutture essenziali, infatti, corrisponde sia alla descrizione del loro svanire e dissolversi nell'ombra, come nel caso appena citato, sia alla descrizione del loro comparire nella luce, in quell'istante del processo percettivo in cui ancora non attribuiamo loro un senso e una funzionalità. Questo «geometrismo» (come è stato anche definito2) non è dunque sinonimo di forma e

di staticità, ma paradossalmente, indica una struttura amorfa e in divenire. Nella pagina gaddiana ricorre l'immagine di cubi neri che vengono sottratti al buio o che svaniscono nell’ombra. Roscioni mostra alcuni esempi che vale la pena riportare. Il primo è in una poesia giovanile, La Sala di basalte, dove Gadda indica l'atto di cognizione come l'opera di uno «scalpello luminoso» che, da una sorta di ossimorico «parallelepipedismo informe» della realtà, ricava le cose:

Così dai neri cubi dell’ombra / Il lume cavava le cose: / Erano le porte paurose degli anditi neri / Ed erano immobili e chiuse» 3.

Il secondo esempio lo troviamo nella Meditazione milanese, laddove Gadda parla del processo conoscitivo come progresso da zone oscure verso zone luminose:

Così io penso al conoscere come ad una perenne deformazione del reale, introducente nuovi rapporti e conferente nuova fisionomia agli idoli che talora dissolve o annichila: sicché il loro volto che jeri ci appariva divino è oggi una sciocca smorfia. E nel progresso del conoscere il dato si decompone, altri dati sorgono dai cubi neri dell’ombra e quelli da cui siam partiti non hanno più senso, non «esistono» più4.

E, sempre nella Meditazione, leggiamo:

Egli, immerso nella buia notte, cava dall'ombra le cose con il getto luminoso della potente analisi: ivi sono le porte paurose delli anditi neri, e sono immobili e chiuse. Strane besti e vi dormono nello strame della pigrizia e della sensualità loro e sono li uomani. Ma neri cubi di ombra si sfaldano, come blocchi enormi da una rovinosa frana: e appaiono e si

1 Carlo Emilio Gadda, La morte di Puk, in La Madonna dei filosofi, RR I, p.43. 2 Cfr. Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, op. cit. p.63.

3 La Sala di basalte è una poesia del 1919 oggi contenuta in Carlo Emilio Gadda, Poesie, a cura Maria Antonietta Terzoli, Torino, Einaudi, 1993, p. 26, c.vo nostro.

creano forme nuove e distinte e concatenazioni infinite nel flusso e nella deformazione infiniti.1

Prima di procedere ad un confronto con il genetismo percettivo di cui parla Merleau-Ponty, vogliamo mettere in rilievo l'analogia tra quest'ultimo brano e la concezione merleau-pontiana della visione come «atto a due facce», secondo cui ogni oggetto percepito si dà solo nella misura in cui gli altri si sottraggono.

Abbiamo già considerato che, secondo Merleau-Ponty, nella struttura percettiva «l’orizzonte interno di un oggetto non può divenire oggetto senza che gli oggetti circostanti divengano orizzonte»2. A nostro avviso, questa concezione gestaltica della

conoscenza è presente anche nell'ultimo tratto della Meditazione appena riportato: nella descrizione gaddiana, infatti, il processo conoscitivo è presentato come il concatenarsi di figure che, sorgendo, ne fanno svanire altre: dove un cubo emerge, un altro si sfalda, dove un oggetto prende forma, un altro si dissolve sullo sfondo.

Il fatto che questa descrizione sia costruita come un concatenarsi di cubi e parallelepipedi, inoltre, non è secondario nel cofronto con Merleau-Ponty. Il «geometrismo» di Gadda, infatti, non dovendo essere compreso come lo spazio della geometria analitica, né come forma prospettica delle cose, può essere messo in relazione con l'attenzione che il filosofo francese dedica ai quadri di Cézanne. Come testimonia Joachim Gasquet nel suo libro sulla vita del pittore3, nei dipinti di Cézanne assistiamo

ad un geometrismo delle figure del tutto particolare. Egli, infatti, pur trattando le forme «come delle sfere, dei cilindri, dei coni»4, non intende circondare gli oggetti entro un

perimetro misurabile, o chiuderli entro una prospettiva oggettiva, ma al contrario «aprire» le figure all'organizzazione complessiva del dipinto, mostrarle come architetture parziali di un campo di forze. Tale struttura parallélépipédique permette al pittore di lavorare sulle tensioni che si creano tra le parti del quadro e concentrarsi sui rapporti che si stabiliscono tra le figure e lo sfondo.

Nel saggio Le doute de Cézanne, Merleau-Ponty mostra interesse proprio per questo aspetto. Nelle opere del pittore non contano tanto gli oggetti, la loro forma o la loro superficie, ma l’ordine architettonico che regola le loro relazioni. Per questo motivo, il 1 MM, p. 849, c.vo nostro..

2 Cit. PP, p.746; tr.it. p.114.

3 Joachim Gasquet, Cézanne, Paris, Bernheim-Jeune, 1921.