Carenza di grandi imprese multinazionali e predominanza, nella sua base produttiva, di piccole e medie imprese, caratterizzarono e ancor oggi caratterizzano, il nostro Paese. Un modello di industrializzazione di tal specie rappresentò un forte vincolo a livello internazionale, per la difficoltà a conseguire competitività in quei settori ove riesce ad agire, prevalentemente, una grande impresa multinazionale. Quest’ultima, infatti, riesce, in virtù della sua estensione transnazionale, a impegnare una tal quantità di risorse, capaci di ottenere tutti i benefici di tipo ambientale, che insistono nelle diverse aree del mondo. Caratteristica questa che, le consente di concludere il ciclo produttivo in maniera più efficiente, rispetto ad un’impresa che non ha la stessa possibilità dimensionale.
La sovranazionalità di un’azienda non motiva però, da sola, i vantaggi scaturenti da essa; questi son forniti, anche, dal consistente volume di affari conseguibile, grazie anche alla maggiore ampiezza del fatturato che, consente di utilizzare, nella loro integrità, le economie di scala, le quali contribuiscono, in maniera importante, alla più alta efficienza aziendale. In
203
definitiva, un’economia a forte presenza di multinazionali dovrebbe essere favorita in termini di funzionalità e redditività.
Una peculiarità delle imprese multinazionali italiane sta nell’ordinamento e la struttura della proprietà: lo Stato è azionista di riferimento. Ciò acclara la tesi della debolissima attitudine per le grandi dimensioni, insita nel nostro capitalismo, che tende a proporre lo Stato come un agente decisivo nella direzione di interi comparti economici: energia, difesa, aerospazio.
Sin dal periodo che stiamo analizzando, tale situazione, pose domande. Questo stato di cose pone dei quesiti fondamentali sulla conduzione delle politiche aziendali di queste società. Primariamente per la veste di canale di collegamento con un dato indirizzo politico che queste imprese possono aver avuto e, secondariamente, per i contraccolpi sull’intera struttura economica che questi gruppi hanno per la loro rilevanza, sia in termini di efficienza e produttività, sia di valenza industriale.
Quest’ultimo punto è molto importante, perché, così stando le cose, dai raggruppamenti pubblici discendono in larga misura il buon andamento del mercato energetico e la gran parte delle realizzazioni ad alto contenuto tecnologico, campi nevralgici per i loro effetti sull’intero sistema economico.
È quindi fondamentale, per considerare le caratteristiche dell’imprenditorialità e per l’immaginario classico associato al capitalismo, esserci soffermati sull’aspetto che l’ente pubblico abbia controllato, sin dall’inizio, anche le multinazionali del nostro paese.
Le tre specificità rilevabili nel caso Finmeccanica sono: la scarsità di grandi imprese private, il controllo pubblico di quelle principali e la dinamicità internazionale proprio di queste. I quesiti che ne derivano non possono essere analizzati con la classica teoria economica, perché ciò impedisce di soffermarci sulle implicazioni psicologiche, sociologiche e culturali, che tutto ciò determina. Quindi, la disciplina storica deve assumersi il compito di trovare i collegamenti esistenti tra politica ed imprese, tra individui e società, tra cultura economica ed umanistica, declinandoli con la peculiare emotività che queste imprese determinano, in primo luogo per la rilevanza dei loro investimenti, all’interno della politica
interna e internazionale, poi per la peculiare condizione di queste imprese, che non sono assimilabili né ad una società pubblica, né ad una realtà completamente privata.
Tutto ciò è proprio il risultato del percorso storico di Finmeccanica, fin dal suo esordio, ove, nata come finanziaria e trasformatasi in vera e propria industria, nel suo cammino ha raggiunto un posizionamento centrale all’interno dell’economia e della politica italiana.
Il processo di internazionalizzazione che essa ha avuto e che ha risentito, più di ogni altra grande impresa, dell’influenza pubblica, ci ha permesso di delineare i canoni di riferimento entro i quali ha garantito d’essere uno strumento determinante per la politica estera industriale e, segnatamente, quello della difesa militare di questo paese.
Finmeccanica ha rappresentato allora e, rappresenta ancora oggi, il contenitore più importante dell’industria italiana dell’alta tecnologia, il secondo gruppo manifatturiero e il quinto assoluto in termini di ricavi oggi, escludendo i settori bancario e assicurativo. Le molteplici attività settoriali delineate, che comprendono il settore dell’aerospazio e della difesa, sono di per sé particolarmente sensibili all’interazione tra il mercato e la politica, data la natura istituzionale dei principali attori; ciò rendeva doverosa un’analisi approfondita della strategia industriale di questo gruppo, un imprenditore tra il privato e il pubblico.
Abbiamo già detto che Finmeccanica nel suo percorso storico ha dovuto misurarsi con due principali ordini di problemi: il primo è quello dell’ottimizzazione delle attività industriali sottoposte alla sua supervisione ed il loro consequenziale inserimento in un piano industriale privo di contraddizioni e concorrenziale, il secondo è quello della grandezza ristretta delle società del gruppo riguardo agli avversari internazionali. Queste due questioni sono collegabili alla storia delle partecipazioni statali italiane e agli avvenimenti politici che hanno marcatamente contrassegnato le strategie industriali iniziali dell’attività di Finmeccanica.
Il periodo era contraddistinto da una situazione internazionale ove i mercati si stavano aprendo, segnatamente quelli europei, alla concorrenza e diveniva prioritaria la realizzazione della soggettività europea, sia in ambito politico, sia militare, attivando una forza propulsiva
che portasse all’irrobustimento delle realtà industriali europee, principalmente in ambito difensivo.
Finmeccanica ha rivolto lo sguardo verso questo quadro e ciò ha contraddistinto il suo cammino per la concretizzazione di un soggetto transnazionale, in grado di competere a livello industriale con i principali gruppi mondiali, divenendo una vera e propria multinazionale dinamica nei settori elicotteristici, aeronautici, elettronici, dei sistemi di difesa, dello spazio, dell’energia e dei trasporti.
Il fatto che il gruppo avesse già, nel periodo che stiamo analizzando, una serie di produzioni molto sensibili per i governi, ha determinato che questo svolgimento si espandesse su più piani, intersecatisi nelle fasi successive. In primo luogo esistono due aspetti all’interno di questo processo: quello chiaramente politico e quello dello sviluppo dimensionale dell’impresa, che scaturisce dalle operazioni di fusione, acquisizione e vendita di prodotti e meno legato alle logiche governative. Sia il primo aspetto che il secondo sono inscindibili, ma pare certo che le opzioni collegate all’internazionalizzazione sono state determinate dal preponderare della logica pubblica, piuttosto che da quella della privata, la quale comunque permarrà, sempre, nella governance aziendale.
Sotto il primo angolo visuale si iscrivono le partecipazioni delle aziende del gruppo ai consorzi di sviluppo e produzione dei programmi europei, miranti a realizzare velivoli militari e non, oppure si inserisce la partecipazione ai consorzi nazionali, istituiti per la costruzione di velivoli e bus, così come la vendita, secondo le logiche strumentali alla politica estera, a determinati paesi, di soluzioni integrate per le imprese.
Al secondo insieme di operazioni è ascrivibile la dislocazione estera di alcuni siti produttivi e il loro sviluppo dimensionale, per incorporare aziende che incrementino la presenza di Finmeccanica in settori strategici, meglio se in zone e in tempi utili anche alla politica estera del Paese.
Finmeccanica è stata da subito uno strumento della politica estera ed al tempo stesso una società privata autonoma, che valuta la situazione politica come un’opportunità, o una minaccia, per l’effettuazione dei propri investimenti, onde ottenerne il massimo risultato, o la
minima ripercussione negativa. Un dato, questo, ricavabile dalla sovrapposizione degli investimenti diretti esteri di Finmeccanica con le direttrici geografiche privilegiate della politica estera italiana..
In definitiva, Finmeccanica, costituisce la prova evidente di un’imprenditorialità impersonale, ove alle volontà soggettive di un singolo individuo, si sostituisce un’ibridazione tra volontà politiche, tecnico manageriali, bisogni di portatori d’interessi nazionali particolari e di disegni politici extra nazionali.
Sezione IV
Migrazioni e imprenditorialità etnica
1) L’argomento
• La storiografia
Gran parte della storiografia e dell’analisi sociologica sull’imprenditorialità ha incentrato l’attenzione sulla nascita e i meccanismi del capitalismo di mercato, sulla genesi e l’estensione della borghesia come classe sociale.204 L’imprenditorialità, infatti, scopre nel mercato i presupposti più idonei al suo crescere e il divenire dell’imprenditore un borghese, determina l’esito positivo del suo lavoro e la possibilità di trasmettere il suo ruolo sociale ai suoi eredi; però, non soltanto il mercato necessita a sua volta dell’innovare imprenditoriale e di imprese innovative e competitive, ma anche alla classe borghese servono nuovi imprenditori, per rinvigorirsi e modificarsi. Dunque, in economia e sociologicamente, imprenditori, borghesia e capitalismo di mercato sono intimamente congiunti.
Questo consente di definire il dibattito sulle origini sociali degli imprenditori che, secondo gli studi più recenti e, contrariamente a quanto ritenuto da Schumpeter, connota l’importanza della ereditarietà, circa il ruolo e la posizione di classe della famiglia cui l’imprenditore appartiene, quale elemento determinante l’imprenditorialità.
Lo studio dell’imprenditorialità si basa, simbolicamente, sul fatto che essa trovi il terreno adatto per emergere. C’è chi si concentra sui caratteri propri della soggettività degli imprenditori, o i loro attributi sociali; c’è chi guarda alle caratteristiche intrinseche del
204
Cassia Lucio, Kalchschmidt Matteo, Paleari Stefano (a cura di), L’imprenditorialità. Pensieri, elementi,
contesto, Sestante Edizioni, Bergamo 2009; Berta Giuseppe, L’Italia delle fabbriche. La parabola dell’industrialismo nel Novecento, il Mulino, Bologna 2009; Giannetti Renato, Vasta Michelangelo, Storia dell’impresa italiana, il Mulino, Bologna 2012; Baglioni Guido, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Einaudi, Torino 1974; Toninelli Pier Angelo, Storia d’impresa, il Mulino, Bologna 2012;
Sapelli Giulio, Perché esistono le imprese e come sono fatte, Mondadori, Milano 1999; Trento Sandro, Il
terreno: forme di mercato, fattori della produzione, etnie e rapporti di classe, mobilità sociale, intervento statale, etica degli affari, valori e atteggiamenti sociali, più o meno adatti alla razionalità economica, stili di leadership imprenditoriale, ecc.. Altri guardano ai rapporti tra imprenditore, rischio e opportunità.205
Max Weber, è il massimo esponente dell’agire imprenditoriale come espressione di una tipica mentalità razionale.206 Per Weber l’imprenditore capitalistico si differenzia in modo netto da coloro che operavano nelle economie tradizionali, in quanto mira sempre al profitto, calcola razionalmente costi e benefici, generalizza il principio della fiducia attraverso il credito e subordina il consumo alle esigenze dell’accumulazione. L’agire imprenditoriale è un modello di razionalità rispetto al fine, che unisce sistematicamente fini prescelti e strumenti adatti a raggiungerli.
L’analisi di Weber, evidenziando il legame tra ethos religioso e comportamento economico, non è determinismo culturale. Infatti l’etica religiosa è soltanto un fattore, tra i molti, che cooperarono all’affermarsi del razionalismo nella civiltà occidentale, come lo sviluppo della scienza sperimentale, dell’autorità razionale-legale del diritto romano e dello Stato moderno. Inoltre Weber non tralascia il rilievo delle condizioni socioeconomiche, come la nascita di classi medie coese e delle norme commerciali universalistiche.
Weber mostra come la razionalità strumentale, che è caratteristica dell’imprenditorialità moderna, abbia contribuito alla costruzione di nuove istituzioni nell’ambito della vita sociale, sia privata che pubblica.
Da questa vasta produzione multidisciplinare sulla creazione dell’imprenditorialità, si possono estrarre due insiemi di temi: a) le peculiarità psicologiche e sociali degli imprenditori, cioè quali sono le qualità intrinseche che li differenziano dagli altri e quali
205
Cfr. Costa Giovanni, Gianecchini Martina, Risorse umane, McGraw Hill, Milano 2005; Depolo Marco,
Psicologia delle organizzazioni, il Mulino, Bologna 1998; fotnte internet http://ec.europa.eu/education/lifelong-
learning-policy/doc28_en.htm; Ludwig Von Mises, L’azione umana, Utet, Torino 1959; Taccolini Mario, Zaninelli Sergio, Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa nella storia economica, Vita e Pensiero, Milano 2002; Lewin Kurt, Teoria dinamica della personalità, Giunti Editore, Milano 2011.
206
Weber Max, Sociologia della Religione, P. Rossi (a cura di), Edizioni Comunità, Milano1982; Weber Max,
raggruppamenti e ruoli sociali li producono, in misura più rilevante di altri; b) quali sono i fattori organici e formativi, dell’ambiente, che facilitano l’affiorare dell’imprenditorialità e l’atteggiamento, in un dato frangente, del soggetto imprenditore, cioè come sfruttano per se stessi le opportunità esistenti.
• L’ambiente dell’imprenditorialità: imprenditori, anormalità e drop out
sociale
L’esegesi sociale dell'imprenditore, come soggetto anomalo e facente parte di gruppi sociali, ai margini del contesto civile, ha una storia affermata. Essa porge una serie di riflessioni sia sulle caratteristiche sociali dei potenziali imprenditori, sia su quella della natura del contesto, legando lo studio minuzioso, delle caratteristiche del raggruppamento marginale, alle variabili delle manifestazioni e sviluppi sociali aggregati a sistema.
In una qualche misura è un deviante l’imprenditore di Schumpeter, con le sue azioni non razionali in un contesto sociale razionale. L’esponente di rilievo nell’analisi della marginalità è, però, Werner Sombart207 e non Schumpeter. In quanto soggetti a disparità giuridiche, politiche o culturali, che riducono le possibilità di successo sociale in campi che, non siano quello economico, stranieri, eretici, gruppi minoritari per differenze etniche e religiose, come i Cinesi o gli Ebrei, statisticamente hanno una percentuale di imprenditori sopra la media.
Sombart, dell’imprenditore capitalistico, evidenzia la creatività, il desiderio di supremazia, l’inclinazione ad innovare. Ma, se per Schumpeter l’imprenditore è identificabile con il leader moderno, Sombart ne evidenzia, nel comportamento economico, l’attività di lacerazione degli schemi economici usuali.
207 Cfr. Fonte: internet http://books.google.it/books?id=m0J5MNTdu7YC&pg=PA184&lpg=PA184&dq=sombart+Il+capitalismo+mod erno,+Torino+1967&source=bl&ots=P2Ckz5SHBr&sig=TQyqDOuyVIsX1M3h- knMy9hCers&hl=it&sa=X&ei=YBEnU5f3FuaBywOvjYCwBA&redir_esc=y#v=onepage&q=sombart%20Il%2 0capitalismo%20moderno%2C%20Torino%201967&f=falseW.. Più compiutamente Cfr. Sombart Werner, Il
L’imprenditorialità, pur potendo sorgere da ogni ceto sociale, tende a essere più evidente là, dove l’appartenenza ad una società non è completamente gradita al potenziale imprenditore, riuscendo, così con più facilità, a far sì che si liberi dalla regolamentazione sociale dei valori predominanti nella cultura economica tradizionale. Per questi gruppi di soggetti, con diritti limitati, l’affermazione economica rappresenta l’unica via, socialmente tollerata, di mutevolezza sociale, favorita dalla spiccata solidarietà esistente nell’insieme di appartenenza.
Berthold Hoselitz208 riprende la tesi di Sombart e, rifacendosi all’idea di marginalità sociale, afferma che, l’imprenditore è un deviante, poiché agisce in un ambiente ostile, in cui prevalenti sono le posizioni contrarie all’innovazione, ma poiché discriminato egli non fa parte del potere politico e tale estraneità è l’antidoto giusto contro le sanzioni per la sua devianza.
Un altro filone, sulla tesi della marginalità sociale, pone l’accento sul grado di solidarietà all’interno del gruppo e asserisce che, non è rilevante essere deviante rispetto alla società, ma, in quanto facenti parte di un gruppo solidale, utilizzare la posizione di prestigio assunta nel raggruppamento, quale beneficio concorrenziale per controbilanciare la mancata approvazione sociale, o il non poter far parte degli ambienti sociali importanti. 209
La più recente letteratura sull’imprenditorialità etnica ha un metodo scientifico simile ai precedenti:210 Discriminazione di sesso e razziale, producono outsiders, che costituiscono raggruppamenti, che accrescono probabili imprenditori. In tal senso lo studio sulle minoranze immigrate negli Stati Uniti ha analizzato come esse siano riuscite a inserirsi economicamente, pur in assenza dell’assimilazione totale di valori e capacità scolastiche spendibili. Il capitale sociale del gruppo, insieme alla posizione della minoranza etnica nella società, divengono
208
Cfr. Hoselitz Berthold Frank, Sociological aspects of economic growth, Free Press, Glencoe Ill. 1960, fonte:Enciclopedia delle scienze sociali,
internet http://www.treccani.it/enciclopedia/modernizzazione_%28Enciclopedia_delle_scienze_sociali%29/.
209
Cfr. Young, Frank W., A macrosociological interpretation of entrepreneurship, in P. Kilby (a cura di),
Entrepreneurship and economic development, Free Press, New York 1971, pp. 139-149, fonte: Enciclopedia delle scienze sociali,
internet http://www.treccani.it/enciclopedia/modernizzazione_%28Enciclopedia_delle_scienze_sociali%29/.
210
fondamentali per la formazione della solidarietà e fiducia reciproca, che si instaurano tra i membri della comunità211. Se molto spesso, le minoranze, nei loro paesi di origine non dimostrano qualità di solidarietà, od onestà etico economica, marcano notevolmente tali doti quando divengono membri di una minoranza, socialmente identificabile, nei paesi ospiti.
La marginalità sociale ha subito critiche, sul terreno dell’analisi culturale, da parte di chi sostiene l’influenza valoriale degli usi e costumi egemoni nel vivere sociale, considerando l’assenso della società il prerequisito della genesi dell’imprenditorialità; altra critica proviene, dal lato dell’osservazione strutturale, da chi considera che, gli imprenditori vengono dalle elite dominanti, in quanto più agevole, per esse, l’accessibilità ai mezzi economici, politici e sociali.212
La marginalità sociale ha subito critiche dallo stesso Weber, in quanto le grandi religioni egemoni là dove si affermano hanno due conseguenze importanti: 1) separano marcatamente il mondo naturale da quello soprannaturale, contribuendo così a ridurre l’influenza della magia creando i presupposti per una spiegazione razionale del mondo naturale sulla quale potranno crescere scienza e tecnica; 2) hanno in sé un connotato universale, di cui sono prive le religioni primitive a connotazione magica. Queste ultime erano confinate a gruppi sociali ristretti: famiglia, tribù stirpe. Ogni raggruppamento aveva le proprie divinità. Le grandi religioni tendono invece al monopolio del rapporto con le divinità e considerano le proprie come le uniche degne di venerazione. Questo ci riporta all’etica economica, aspetto sul quale Weber aveva lavorato inizialmente nei suoi saggi sul protestantesimo, mettendo in luce i rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo. Con gli studi successivi di sociologia della religione comparata, ridefinisce la prospettiva originaria in più direzioni.213
Weber critica la tesi di Sombart sul ruolo degli ebrei, minoranza etnica, nello sviluppo del capitalismo moderno. Dopo la loro dispersione in vari paesi, essi assunsero la
211
Fonte:internet http://www.giurisprudenza.unimib.it/DATA/insegnamenti%5C9_1051%5Cmateriale/coleman- social%20capital.pdf.
212
Cfr. Veblen Thorstein, La teoria della classe agiata, cit..
213
dimensione di un popolo paria, posto al di fuori della comunità politica. Ciò li spinse effettivamente a praticare attività economica, ma su basi rigidamente tradizionalistiche. Si trattava, però, di attività commerciali e finanziarie, credito ed usura, nei riguardi dei privati e degli stati, cioè di estranei, ma che escludevano il formarsi di quello spirito del capitalismo eticamente vincolato che è alla base del capitalismo moderno, in particolare di quello industriale.214 Va comunque ricordato che la tesi di Sombart faceva anche riferimento agli eretici e agli stranieri, cioè in generale al ruolo della marginalità sociale, come fattore favorevole alla formazione dell’imprenditorialità.
Questi approcci sorgono dalle interpretazioni classiche della genesi del capitalismo, come lo sviluppo dell’accumulazione originaria di Marx , il rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo weberiano, il trionfo dei mercanti affrancatisi dalla struttura medioevale di Pirenne, fino ad arrivare al peso dei gruppi marginali di Sombart.
• Iniziativa imprenditoriale ed etnicità
L’archetipo inoltra il lavoro in un problema abbastanza nuovo. Schumpeter ha insegnato come l’imprenditore sia uno degli attori sostanziali della crescita economica e del cambiamento. Ma lo è per caratteristiche individuali esclusive? Oppure alcune circostanze generano, o magari spingono alla luce, incoraggiandola, l’imprenditorialità? In definitiva, non è forse necessario desacralizzare l’idea eroica dell’imprenditore, caratterizzata per un intrepido e disperato spirito di sfida?
Nel nuovo modo di pensare agli agenti che partoriscono imprenditorialità, la relazione tra contesto ambientale e entità imprenditoriale diviene importante per rendere comprensibile l’affermazione progressiva di un’impresa e del suo ideatore e animatore. Una di queste correlazioni virtuose risiede nel requisito di minorità, dichiarato secondo svariate angolature: minoranza etnica, culturale, religiosa, politica, di genere.
La visione che gruppi minoritari abbiano trasformato il loro isolamento, la mancanza d’identità, di riconoscimento e di appartenenza sociale, in un soprappiù di spinta economica,
214
oggi, grazie alla maggiore attenzione postavi da economisti, storici, antropologi e sociologi, trova un clima più consono per lo studio dei motivi che spiegano la crescita economica.