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La concezione dell'imprenditorialita'. Italia. 1947-1969

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Indice

Introduzione 4

SEZIONE I

L’imprenditorialità in Italia

1) Ricostruzione e “miracolo” 23

2) Tipologie imprenditoriali nella storia dell’Italia industriale 30

• Imprenditori collegati allo Stato 32

• Imprenditori che negoziano 35

• Imprenditori guerrieri e servitori dello Stato 36

• Due titani con storie dissimili 37

• C’è un capitalismo di manager? 39

• Gli anni epici: 1950-1970 40

• Gli imprenditori e i limiti del miracolo economico 59

• La meta non raggiunta 61

• Lo Stato imprenditore entra in crisi 64

• Il crimine come impresa 65

• Analisi dell’imprenditorialità dinastica 68 • Imprenditorialità senza capitali: i boiardi di Stato 70 • Le cooperative italiane nel secondo dopoguerra. Un’altra imprenditorialità? 74

• Chi sono i manager cooperativi 84

3) Ambiente politico culturale e considerazioni storiografiche 89

SEZIONE II

Strategia pubblica per l’impresa e lo sviluppo

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• Definizione della politica industriale 98

2) Politiche per l’imprenditorialità in Europa 99

• Finanziamenti all'esportazione e sfida internazionale delle imprese italiane 105 • Imprese esportatrici deboli _______________________________ 109 3) Alcune considerazioni utili ______________________________________ 114

SEZIONE III

Finmeccanica

1) La storia di Finmeccanica 115

• Le origini 115

• Una particolare figura di manager 122

• Dal miracolo economico alla crisi 124

2) Che tipo d’imprenditorialità esiste in Finmeccanica? 128

Sezione IV

Migrazioni e imprenditorialità etnica

1) L’argomento 133

• La storiografia 133

• L’ambiente dell’imprenditorialità: imprenditori, anormalità e drop out sociale 135

• Iniziativa imprenditoriale ed etnicità 138

2) Italiani all’estero e stranieri in Italia 142

• L’emigrazione italiana nel periodo 1947-1969. La ripresa dell’emigrazione 142 • La risposta al vincolo di gruppo minoritario degli emigrati italiani 146

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SEZIONE V

Impresa e centrosinistra: un rapporto difficile. 1962-1969

1) Gli avvenimenti 151

• Un quadro generale 151

• Un’altra faccia 157

• Il lento mutamento politico 164

• Il centrosinistra di……centro 174

2) Gli industriali. Risposte al cambiamento e conservazione 182

• Il conservatorismo imprenditoriale 182 • La piramide 196 • Il Paese reale 201 Conclusioni 214 Bibliografia 219 Sitografia ______229 Riviste e quotidiani ______235

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INTRODUZIONE

Che cosa sia l’imprenditorialità, in un mondo che dell’impresa fa il centro dell’attenzione e della società, è difficile da definire, viste le aspettative che si sono create in proposito. Viene quasi a noia l’analisi, quando si vive di retorica sciocca. La cultura d’ impresa nel suo collocarsi storico, sociologico e anche economico è un addensato di conoscenze tecniche, logistiche e culturali che permettono il ripetersi della logica produttiva, sia il risultato un bene materiale o un servizio immateriale. Questo perché l’impresa non è l’imprenditore e questi non sono l’imprenditorialità, condizioni necessarie ma non sufficienti.

L’imprenditorialità è innovazione, una devianza rispetto al normale e prevedibile fluire delle cose del mondo. Essa produce nuovi mondi vitali tecnologici, relazionali, antropologici: innova, appunto, come ci insegnano i classici e chi la realizza rischia del suo e non dell’altrui, sempre. Può farlo individualmente o come gruppo, senza perciò automaticamente dar vita a una impresa. In un chiosco di prodotti della campagna o del mercato globale, come spesso ci capita di vedere, in cui si manifesta come la società si riproduce con mille invenzioni che danno la possibilità di vivere, ci sono migliaia di imprenditori senza impresa, ma con imprenditorialità, ricordiamolo. L’impresa, infatti, è la continuità organizzativa, tecnologica, relazionale, tra le persone, e tra la continuità, riassunta, dei prodotti e servizi e il mercato. Pensiamo, per un attimo, quale amalgama di conoscenze, culture, passioni, storie sia necessario per far tutto ciò. Non possiamo non essere affascinati dalla tensione e fatica che l’imprenditorialità richiede a tutte le persone che ogni giorno lavorano. Qua nasce la cultura imprenditoriale, qui la cultura d’impresa: una necessità di razionalizzazione strumentale, di monitoraggio continuo delle opportunità di processo e di prodotto, una capacità di inventare e di costruire gerarchie nei mercati dei beni e dei capitali, tra economia monetaria e relazione sociale, tra fatti politici e cultura, d’elite e di massa, tra storia, antropologia, sociologia, scienza, tra competizione e protezione, tra corruzione ed etica della legalità.

Una intelligenza sociale, dunque, cucita alla tecnologia e alle persone e retta anche dalla logica del profitto, unita alla padronanza della relazione tra mezzo e fine sulla base del

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dover riprodurre sempre un sovrappiù, con l’attenzione continua contro i rendimenti decrescenti e la relazione di scala più idonea per garantire quella medesima continuità.

L’orientamento dell’imprenditorialità è legale e razionale, o non è imprenditorialità; l’autorevolezza, in essa insita, non si consuma nella vanità del potere, pena il caos e la fine, quanto nel perseguire il risultato. Allora, ecco il nesso tra imprenditorialità e società, per l’impresa e per coloro che la dirigono l’omeostasi con l’ambiente è essenziale come l’acqua per i pesci. Intendiamoci bene: l’ambiente non deve essere eguale all’ impresa, pena entrare in relazione con il nulla di diverso e non ostile, portando alla decadenza e morte. L’imprenditorialità ha bisogno di una diversità ben temprata e ben moderata, omeostatica, che non è omogeneità, ma terreno fertile di coltura di specie diverse e quindi benefiche. E’ la dissomiglianza virtuosa che fa vivere l’imprenditorialità, non l’omologazione, essa è asfittica e impedisce lo sviluppo, come ci sta capitando. Il presupposto è che la società deve essere fondata sulla credenza nella legalità, sulla cultura della disciplina dei doveri, più che sulla caparbietà narcisistica dei diritti di tutti. Ecco la sostenibilità necessaria per l’imprenditorialità nella società.

La diversità non confligge con la certezza delle procedure, perché solo le regole garantiscono che l’impresa abbia tutto ciò di cui ha bisogno: prevedibilità, chiarezza, non assistenzialismo, ma sostegno a distanza, dettato e garantito dalle regole uguali per tutti. In un mondo di rapporti contrattuali perfettibili, l’imprenditorialità ha bisogno di etica, ossia di morale condivisa in vista del sostegno del mercato, di correttezza che permetta di continuare ad agire anche laddove la legge non giunge. La cultura delle buone norme etiche deve star sopra le direzioni, le volontà finalizzate, i valori delle persone, in maniera maggiore quanto più esse sono poste in posizioni apicali nella società.

Che dire dell’Italia? Hic Rodus, Hic Salta! L’Italia è sempre stata, salvo per periodi brevissimi, creatrice di culture contrastanti l’impresa. Quei periodi sono il secondo Ottocento, quando la destra storica risorgimentale raggiunse il potere politico, e gli anni del secondo dopo guerra. Poi l’Italia tornò a essere quella che è oggi: quella leopardiana, fondata non su virtù, ma su abitudini e vizi, sulla mancanza della forza dello Stato in larga parte delle sue

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istituzioni e del territorio nazionale. Basta vedere quali brillanti risultati conseguano i manager e gli imprenditori italiani negli stati esteri, in cui la civilizzazione istituzionale si afferma, per comprendere il senso di ciò che voglio dire. Ricordo le storie di gente come Filippo Bagnato, amministratore delegato di Atr in Francia, a Blagnac Cedex; di Saro Capozzoli, fondatore della Jesa Investment Management e Co. Ltd in Cina; di Elena Matous, proprietaria di una industria agro zootecnica a San Luis, in Argentina; o di Giorgio Mosconi, medico chirurgo, membro del cda di Pierrel, provider globale dell'industria farmaceutica e del life science, nominato nel settembre 2010 “Protagonista Italiano nel mondo” dal Ministero delgi Affari Esteri per il suo impegno nella ricerca e sviluppo di nuovi farmaci anti-infettivi. Egli, che dopo 22 anni all’estero torna in Italia nel 2000 e crea la prima società di biotecnologie del Paese, dice argutamente: “[…] la prima azienda farmaceutica italiana è sessantesima nel mondo, mentre l'Italia sarebbe il quarto paese al mondo per valore di mercato”1, “ho preso la scienza italiana e l'ho combinata con la managerialità americana”2.

Tutto questo a riprova che le capacità imprenditoriali hanno necessità dell’ossigeno della legge, dell’etica, della sconfitta della corruzione, del nepotismo, del patronage. Pur in queste avverse difficoltà l’impresa in Italia si sviluppa, ma non riesce a crescere. Essa può salvarsi solo con la cultura dell’impresa, propria dell’imprenditore individuale famigliare o manageriale, che si comporta come classe dirigente, lavora come se la sorte del mondo avesse origine dal suo agire e così sceglie di lavorare nell’ impresa, perché egli la vivrà come libertà. Ciò determina competere con l’esempio, più che con la legge, contro i problemi italiani, contro le culture antiproduttivistiche, fondamentalistiche in materia ambientale, estranee sia alla cultura dello sviluppo sostenibile della biodiversità, sia alla possibilità di determinazione di corrette procedure e di un’adeguata unità organizzativa.

La ricerca sui temi dell'imprenditorialità, che si è affiancata all’attività di investigazione degli aspetti della strategia di impresa e della finanza aziendale, ha visto da un lato i grandi cambiamenti nei sistemi economici e politici, intravedendo nuove storie di

1

9Colonne Agenzia Giornalistica, 22 Ottobre 2010.

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imprenditorialità. Google, ad esempio, non è solo un evento di utilizzo intelligente delle nuove tecnologie di rete, per generare prodotti e servizi, ma è anche da analizzare in un'ottica imprenditoriale di grande innovazione. E poi, come non cogliere grandi elementi di imprenditorialità nelle avventure politiche che portano a diventare leaders nei paesi occidentali, partendo dalle modalità di raccolta di fondi per le campagne elettorali e partitiche, fino ad arrivare all'uso delle tecnologie di rete per la informazione comunicativa e l'organizzazione dell'attività politica? Ma la domanda che pongo è: “E’ così realmente o è un transfert emozionale?”

È con spirito di curiosità e di umiltà, quindi, che ho deciso di fare questa ricerca sul tema dell'imprenditorialità, proprio per rispondere a questo interrogativo. Le fonti raccolte provengono da discipline diverse ed autori con differenti storie accademiche, proprio perché il valore della contaminazione dei saperi e l'interdipendenza culturale sono convinzioni profonde della ricerca. Trovo importante che qualcuno possa condividere questa curiosità che tanto si arricchisce ogni giorno, con nuovi esempi e nuovi lavori.

Proprio da questa convinzione nasce questo contributo: con l'obiettivo quindi di riuscire a ragionare sul tema dell’imprenditorialità sulla base di apporti che forniscono punti di vista differenti, cercando anche di analizzare la cultura di diverse tipologie di grandi successi imprenditoriali. Questa idea di fondo ha portato a questo lavoro, che vuole essere innanzitutto un tentativo di raccogliere storicamente alcuni tra i temi che caratterizzano la ricerca sul fenomeno imprenditoriale, tentando di fornire una rassegna dello stato della conoscenza su tale tema, incentrando l’attenzione storica sull’imprenditorialità italiana dal 1947 al 1969.

Il lavoro si apre con un apporto volto ad inquadrare lo studio del fenomeno imprenditoriale. Cos'è l'imprenditorialità e qual è il significato della ricerca sull'imprenditorialità? Sono domande che i ricercatori si pongono e che alimentano la vasta letteratura delle due decadi più vicine a noi. Il tema chiave è la narrazione dell'imprenditorialità come fenomeno ricco ed eterogeneo, quindi complesso, tale da rendere difficile una definizione comune su ciò che l'imprenditorialità realmente sia. Nonostante la

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ricerca sia difficoltosa e non siano ancora disponibili risposte comuni alle domande poste, il lavoro tenta di inquadrare i confini di essa in coerenza con quelli che sono i contributi scientifici più recenti.

E' proprio l'articolazione della ricerca sui temi dell'imprenditorialità la chiave con cui si cerca di collocare i vari capitoli di questo libro all'interno di sei sezioni, dopo una premessa sull’imprenditorialità nella ricerca economica, l’agire imprenditoriale e i fattori intangibili dell’imprenditorialità.

La prima sezione, L’imprenditorialità in Italia, concerne un campo che, soprattutto nel nostro paese, ha acquisito una legittimazione che precedentemente non aveva. Le culture delle ideologie dominanti, la cattolica e quella marxista, percepivano nell’imprenditore lo speculatore, lo sfruttatore, l’evasore fiscale, il dissanguatore della nazione, ma anche nell'opinione liberale l’imprenditore non beneficiava di buona fama. Oggi il termine “imprenditore” ha da noi assunto caratteri maggiormente positivi nell’immaginario collettivo e scorgeremo che tuttavia, l’imprenditorialità è un concetto elusivo, arduo da definire, un concetto poliedrico, di fatto difficilissimo da convogliare in una formalizzazione.

La seconda sezione, Impresa sviluppo e relative politiche, riorganizza i passaggi principali dell’evoluzione, nello spazio di circa un sessantennio, delle politiche industriali in ambito comunitario, fino all’abbozzare un nuovo modello industriale europeo, dove il tono non è più sulla enunciazione di politiche di settore rivolte al controllo di interi comparti produttivi, o di assi nazionali, ma sull’opportunità di creare una economia concorrenziale e dinamica dove l’imprenditorialità diffusa sorregga la crescita e l’occupazione. L’attestarsi di questo orientamento è collimato con le conseguenze della trasformazione del sistema produttivo ed è sorto negli anni successivi al secondo shock petrolifero, durante il quale le economie europee entrarono in una lunga fase di stagnazione, col declino dei traffici commerciali all’interno della comunità, che indicava la problematicità a conservare immutato il prototipo di liberalizzazione degli scambi seguito, cui si era affiancata una crescente perdita di quote di operazioni commerciali dei prodotti finiti, sul mercato mondiale.

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competitiva dell’industria in relazione alla frammentazione del mercato comunitario, dovuta alle barriere non tariffarie, alle politiche di difesa delle industrie nazionali, proprio mentre c’era la necessità di incalzare le imprese verso la cooperazione sul terreno della ricerca.

La terza sezione, Finmeccanica, è la storia di una holding pubblica di imprese meccaniche, costituita nel 1948, per aiutare a tornare al civile le aziende del settore, facenti capo all’Iri, le quali avevano lavorato per la guerra. Si trattava di un insieme di imprese che costituivano oltre un quarto della capacità produttiva della meccanica italiana. Verrà offerta la trama di questa impresa, che è riuscita ad attraversare varie crisi senza perdere la bussola, arrivando a posizionarsi come uno dei due grandi gruppi manifatturieri italiani presenti nelle classifiche di Fortune Global 500, l’altro è la Fiat. Cercheremo di porgere qualche ragione utile a spiegare il successo del gruppo, uno degli esempi tipici del capitalismo italiano.

La quarta sezione, Migrazioni e imprenditorialità etnica: italiani all’estero e stranieri

in Italia, cerca si scorgere uno dei tratti salienti dell’imprenditorialità italiana e come nella

biologia evoluzionista e nella sua trasposizione in sede di storia dell’imprenditorialità3, anche nei fattori che generano imprenditorialità, il legame tra ambiente e soggetto, sia rilevante per spiegare il successo di crescita di un’impresa e del suo promotore. Uno di questi rapporti sta nel presupposto di minoranza sociale: minoranza etnica, culturale, religiosa, politica, di genere.

La quinta sezione,Impresa e centro sinistra: un rapporto difficile (1962-1969),

vuole mettere in evidenza i conflitti causati dalla presenza comunista in Italia e il sistema politico “bloccato”, le divisioni del movimento operaio e l’opposizione del Pci alle nuove coalizioni di governo, i limiti della cultura politica della sinistra, le responsabilità della Democrazia cristiana e delle forze conservatrici, l’opposizione degli imprenditori e della

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Queste riflessioni traggono origine dal lavoro svolto presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Politecnica delle Marche (UNIVPM-Ancona), nell’ambito del progetto di ricerca europeo e network di eccellenza “Sustainable Development in a Diverse World” (www.susdiv.org), in collaborazione con lo “International Migration Integration Social Cohesion- IMISCOE”), un convegno tenutosi ad Ancona il 31 agosto e 1° settembre 2009 e organizzato daFrancesco Chiapparino (UNIVPM) e Tüzin Baycan-Levent (Istambul Technical University).

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Banca d’Italia verso le riforme e la programmazione economica, il ritardo della formazione del centro-sinistra rispetto a quando fu pensato e rispetto alla fase più espansiva dell’economia italiana, le strozzature del modello di sviluppo italiano, la ripresa delle lotte operaie all’inizio degli anni Sessanta.

E’ antichissima la storia del concetto di imprenditore, interpretato come chi inizia una qualche attività ordinandola con carisma e leadership, doti necessarie per realizzare quello "spirito di impresa" che Marco Vitale definisce "[…] gusto del creare, del fare, dell'intraprendere, del realizzare"4, ma se il concetto ha una lunga storia, non altrettanto accade per "imprenditore", lemma la cui origine viene fatta risalire al Settecento. In particolare la figura di "imprenditore di commercio", verrà scientificamente definita per la prima volta nel 1755, in un famoso trattato, pubblicato postumo e in lingua francese, dal titolo

Essai sur la nature du commerce en général, scritto intorno al 1730 da un acutissimo

irlandese, Richard Cantillon nato verso il 1680 e morto assassinato a Londra nel 1734.

Cantillon anticipò lo spirito dell'illuminismo accostandolo all'economia, scienza nella quale immise il termine e il concetto di "entrepreneur", definendolo colui che si rifornisce di merce, a costi certi, per rivenderla a prezzi incerti, con la possibilità di inserire un valore aggiunto al prodotto. Vitale, invece, colloca le prime testimonianze esplicite di imprenditorialità in un libro greco, l'Economico5, scritto intorno al 400 a.C. da Senofonte e "considerato il primo esempio a noi noto di letteratura economica"6, precisando: "[…] non è un libro di filosofia, né di letteratura, né di economia generale. È un libro di management, il primo libro di management della storia occidentale e, come libro di management, è un libro molto importante”7.

4

Vitale Marco, Lezioni di impresa, da tempi e luoghi diversi, Inaz, Milano, 2008, p. 85

5

L’Economico o Leggi per il governo della casa è un dialogo dello scrittore greco antico Senofonte. Protagonisti dell'opera sono Socrate, maestro dell'autore e il giovane Critobulo. La prima parte dell'opera rispecchia il titolo, ma si passa poi al racconto, da parte del filosofo, di una conversazione avuta con un ricco proprietario terriero, Isimaco, sul modo di amministrare i beni.

6

Vitale Marco, Lezioni di impresa, cit., p. 15.

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Il Grande Dizionario della Lingua Italiana UTET definisce il significato originale di impresa, chiarendo che in antico “inpresa” rappresentava inizialmente un segno, consistente in una sciarpa, in una catenella, in un elmo, in una stella, ecc…, che gli antichi cavalieri ricevevano dalla propria dama, impegnandosi a difenderne l'onore e a comportarsi valorosamente nella guerra, nel duello o nel torneo; figura simbolica che il cavaliere portava ricamata sulla veste, oppure dipinta, o scolpita, sullo scudo o sull’elmo"8. L’agire dell'imprenditore è utopicamente accomunato all'antico cavaliere, che incarna ideali da difendere in ogni circostanza, dando all’agire imprenditorilae un senso romantico.

L’avvento dei mercati fece assumere al concetto di imprenditorialità una connotazione professionale, concretizzando la figura dell'imprenditore di commercio, poi istituzionalizzata da Cantillon. Sono le testimonianze concrete dei mercanti, e a noi prossime in quanto si collocarono proprio nell'Italia del tardo medioevo e del Rinascimento, che dimostrano già globale il mondo allora conosciuto, nonché le terre che si andavano scoprendo, spinti com’erano dalla voglia di allargare le conoscenze e gli spazi in cui operare. Sono, ad esempio classico, Marco Polo e Marco Datini, due mercanti che associano, come molti altri del loro tempo, alla grande professionalità anche un chiaro mecenatismo e un'elevata sensibilità culturale, caratteristica di quel periodo splendido che fu l’Umanesimo e che precedette, divenendone anche la causa determinante, il Rinascimento. Rinascimento che si fa convenzionalmente iniziare verso il 1450 e che ha portato Fernand Braudel, il grande storico francese, a definirne lo sviluppo come "le modèle italien", giacché in Italia trovò le sue interpretazioni più significative. I mercanti avevano ideato il mercato, quel mercato che, nel medioevo, fu l’animatore del mutare dei villaggi in fiorenti città, avendo già allora raffigurato il mondo come villaggio globale, in cui i rapporti commerciali consentono di fare scambi ovunque e in tempi molto rapidi.

Questo modello divenne esemplare, in quanto in grado di coniugare la politica e l'economia con la cultura, facendo di questa la protagonista di quel periodo, ove un particolare rilievo storico ebbero tutte le manifestazioni culturali, rese possibili dai modelli

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imprenditoriali, che i grandi mercanti, diventati poi anche famosi banchieri, interpretarono nelle città italiane come Firenze, Genova, Venezia e in tanti altri centri minori, ma non meno importanti. Imprenditorialità e cultura, dunque, destinati a essere gli elementi portanti del trionfo del Rinascimento, che porterà appunto all'identificazione del "le modèle italien". Un ruolo che, nell'individuo, ha avuto mutevoli vicende fino a che non fu annullato con l'avvento, nel Novecento, del Taylorismo - Fordismo che proclamava unicamente la one best way senza ingerenze culturali.

Richard Cantillon, dunque, introdusse per primo il termine entrepreneur. Nato in Irlanda fra il 1680 e il 1685, non sappiamo molto della sua vita, se non che fu imprenditore e finanziere. Fu a Parigi fra il 1716 e il 1720 riuscendo a speculare sull'acquisto e la tempestiva vendita delle azioni emesse da Law, quando questi tentò di imporre in Francia il suo fallimentare sistema finanziario.9 Morì a Londra nel 1734, ucciso da un domestico licenziato, con la complicità di altri cinque servitori che depredarono le sue fortune facendo, fra l'altro, perdere le tracce anche dei suoi manoscritti. L'opera che lo rese famoso Essai sur la nature du

commerce en général10 venne scritta intorno al 1730 e pubblicata soltanto nel 1755 in Francia

e a Venezia dal 1767, influenzando moltissimo il pensiero fisiocratico

Nel suo libro Cantillon parla delle società di uomini che formano i villaggi, i borghi, le città, le capitali e con queste il mercato, dove si colloca l’imprenditore. Cantillon divide gli

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John Law (Edimburgo, 21 aprile 1671 – Venezia, 21 marzo 1729) è stato un economista e finanziere scozzese integratosi in Francia. Ebbe l’intuizione di stampare moneta offrendo terreni in garanzia, un progetto che riuscì a realizzare quando si trasferì in Francia e venne introdotto alla corte di Luigi XV. Il re si trovava ad affrontare una situazione economica difficilissima in quanto gli sperperi del suo predecessore Luigi XIV, il Re Sole, avevano esaurito le sostanze del regno. Al sovrano le idee di John Law parvero innovative e redditizie e vedendovi un mezzo per risanare le proprie finanze decise di appoggiarle. Ottenuti i finanziamenti, nel 1716 Law aprì a Parigi la Banque Générale, autorizzata a stampare biglietti di banca utilizzati per risanare la spesa pubblica e rimborsare i debiti del re. In garanzia vi erano i giacimenti di oro che, secondo Law, si trovavano nel possedimento francese della Louisiana. Essi non esistevano, ma il banchiere fu abile a far credere il contrario. Venne così fondata la Compagnia del Mississipi e Law riuscì a convincere i nobili francesi a sottoscriverne le azioni. I ricavi della vendita delle azioni della Compagnia del Mississipi non furono usati per cercare l’oro in Louisiana, ma per pagare i debiti di re Luigi XV. Le banconote stampate, per saldare il debito, tornavano indietro per acquistare altre azioni. L’emissione di nuove azioni soddisfaceva la domanda crescente. Un castello di carta, un circolo vizioso attorno a miniere d’oro inesistenti, che secondo alcuni causò la prima grande crisi bancaria della Storia.

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Richard Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, Sergio Cotta e Antonio Giolitti (a cura di), Einaudi, Torino 1955.

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abitanti dello Stato in proprietari di terra, salariati e imprenditori. In quest’ultima categoria mette coloro che con il proprio lavoro si assumono il rischio dell’incertezza nella riuscita economica, dunque, gli operatori la cui principale caratteristica non è possedere capitali, in quanto potevano anche essere presi a prestito, ma il rischio dell’acquisto dei fattori produttivi, il costo della loro sistemazione a fini produttivi e le vendite a prezzo incerto. L’autore arriva ad includere nella categoria anche le classi dei mendicanti e dei ladri: “[…] l’imprenditore è un mercante, che trasporta le derrate dalla campagna alla città, non può fermarvisi per venderle al dettaglio quando esse vengono consumate. [...] È questa la ragione per cui in città molti diventano mercanti imprenditori per comprare le derrate della campagna da coloro che le portano in città oppure per farsele portare; costoro pagano per queste derrate un prezzo certo che è quello del luogo in cui le comperano, per poi rivenderle all'ingrosso o al dettaglio ad un prezzo incerto; questi imprenditori non possono mai sapere quanto ne consumerà la loro città e neppure per quanto tempo i loro clienti continueranno a comprare da loro, poiché i loro concorrenti, cercheranno con tutti i mezzi di portar loro via i clienti. Tutto ciò è causa di molta incertezza per questi imprenditori, tanto che ogni giorno qualcuno fallisce. [...] Poi gli imprenditori divengono consumatori a loro volta e quindi clienti gli uni degli altri [...] ad eccezione del Principe e dei proprietari di terre, tutti gli abitanti dello Stato sono dipendenti gli uni dagli altri [...] Essi possono venir suddivisi in due classi, e cioè in imprenditori e in salariati; […] gli imprenditori è come se avessero un salario incerto, mentre tutti gli altri hanno un salario certo, per tutto il tempo che lavorano, sebbene le loro funzioni e il loro rango siano assai differenti. […] Tutti gli altri sono imprenditori, sia che si mettano a condurre la loro impresa, disponendo di un fondo, sia che si facciano imprenditori del loro mestiere senza alcun fondo, e tutti costoro vivono nell'incertezza; anche i mendicanti ladri sono imprenditori appartenenti a questa classe.”11. Un'interpretazione eccessivamente azzardata del termine imprenditore, anche se il mendicare può essere per l'imprenditore poco prudente, uno sbocco obbligato e il rubare possa rappresentare, purtroppo, una caratteristica tipica della condotta

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deteriore di certe attività imprenditoriali: ma non possiamo non scorgere nel passo un senso romantico, che verà attribuito all'imprenditorialità fino ai giorni nostri. Inoltre in questa lezione di Cantillon si delinea chiaramente che, nella categoria degli imprenditori, vi sono persone che possono essere considerate buone e altre non proprio affidabili.

William Smart, imprenditore docente di economia all’università di Glasgow, riprende negli anni Venti questo problema: “[…] l’imprenditore quale io lo concepisco deve riconoscere tre cose che, confesso, gli imprenditori sono un po' lenti a riconoscere: che il buon imprenditore non è del tutto comune, che anche il buon imprenditore non è sempre il buon imprenditore illuminato, che in ogni caso, il buon imprenditore deve incontrare la concorrenza del cattivo imprenditore. Egli deve prendere su di sé i peccati della sua classe, riguadagnare la confidenza che qualche volta è scomparsa”12.

Su questa riga, recentemente, Luciano Gallino definisce alcune imprese irresponsabili, dirette da imprenditori irresponsabili. Il sociologo ritiene irresponsabile un'impresa che, anche rispondendo agli obblighi di legge, suppone di non dover rendere conto a nessuna autorità pubblica e privata, né all'opinione pubblica, circa le conseguenze economiche, sociali e ambientali delle sue attività”13.

Jean Baptise Say, nato a Lione nel 1767 e morto a Parigi nel 1832, svolse un'attività industriale in una fabbrica per la filatura di cotone e si interessò di economia leggendo La

ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Egli differenzia il capitalista dall'imprenditore e nel

suo Trattato di economia politica (1803) lo definisce così: "[…] Le più volte un uomo studia il corso e le leggi della natura. È lo scienziato. Un altro profitta di tali cognizioni, per creare dei prodotti utili. È l'agricoltore, il manifatture o il commerciante, o, per indicarli con una denominazione comune a tutti tre, è l'imprenditore di industria quello che imprende a creare per conto proprio, a suo profitto e a suo rischio, un prodotto qualunque. Un altro infine lavora

12

William Smart, Il testamento spirituale di un economista, Giuseppe Laterza & figli, Bari 1921.

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giusta le direzioni date dai due primi. È l'operaio. Si esaminino successivamente tutti i prodotti: si vedrà che non hanno potuto esistere se non per effetto di queste tre operazioni."14

L’idea dell'imprenditore che ha Say è di un soggetto, in primo luogo, coordina i fattori produttivi nel processo di produzione e questo fa della sua concezione un aspetto anticipatore sui tempi. Infatti in essa c’è attinenza col corrente concetto di governance, una dote dell'imprenditore dei nostri giorni. Così, infatti, ancora Gallino la definisce: “[…] governare un’impresa significa determinarne le strategie produttive; la complessiva architettura finanziaria e organizzativa; la composizione del capitale fisso e variabile; l'allocazione dei ricavi tra capitale e lavoro; la grandezza della natura degli investimenti. Significa anche decidere quali fusioni e acquisizioni sono opportune per farla crescere; se non sia il caso di dismettere settori giudicati improduttivi; quali sono le linee di attività in cui entrare o da cui uscire per fini di diversificazione o integrazione. Non da ultimo si tratta di nominare o revocare i massimi dirigenti. […] in questo senso il governo dell'impresa è sempre esistito, quale fosse l'etichetta con cui veniva designato"15.

Say ebbe affetto per l'Italia, prediligendo la varietà di espressioni semantiche nella sua lingua: “[…] gli inglesi non hanno una parola che corrisponda a quella di imprenditore di industria; la qual cosa ha forse loro impedito di distinguere nelle operazioni industriali il servizio che rende il capitale dal servizio che rende, con la sua capacità e con la sua abilità, colui che impiega il capitale; donde risulta […] oscurità nelle dimostrazioni nelle quali essi cercano di risalire alla sorgente dei profitti. La lingua italiana, assai più ricca a questo riguardo della loro, ha quattro parole per indicare quello che i francesi intendono per un

entrepreneur di industrie: imprenditore, impresario, intraprenditore, intraprensore.”16.

Say enumera anche le qualità intrineche di un imprenditore che ha successo: la prudenza, la buona conoscenza pratica dell'attività che esegue, “[…] La costanza che fa superare la contrarietà di cui è disseminata la vita, la fermezza […] che pone in grado di saper

14

Jean Baptiste Say, vol. I, Traité d’économie politique: ou simple exposition de la manière dont se forment, se distribuent et se consomment les richesses, t. 1, Economica, Parigi 2006, p. 65.

15

Luciano Gallino, L'impresa irresponsabile, cit., p. 116

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sfidare quella specie di incertezza che avvolge l'esito di tutte le intraprese umane. La perseveranza che non si disgusta di una opera intrapresa solo perché un'altra viene ad uffizio […] Che non si sgomenta né a motivo della lentezza del successo, né a motivo di molte piccole contrarietà alle quali non bisogna accordare soverchia attenzione”17.

Fra Jean Baptiste Say e Richard Cantillon, in tema di imprenditorialità, va inserito il veneto Gianmaria Ortes (1713-1790), monaco camaldolese che nel nostro Paese sembra si sia servito per primo, nei suoi libri, del lemma imprenditore, attribuendogli il significato odierno. Ortes nel 1771 scrive gli Errori popolari intorno all’economia nazionale, considerati nelle

presenti controversie fra i laici e i chierici in ordine al possedimento dei beni, in cui a

proposito di rendite fa una differenziazione fra proprietario, imprenditore di negozio e capitalista: “[…] A questo modo un proprietario di terre si dirà posseder rendite, non in quanto possiede terre come si è osservato, ma in quanto ci s’occupa in esse e le coltiva immediatamente per sé o mediamente per altri con i quali in questo caso egli divide le rendite stesse. E un imprenditore di negozio, arte, professione o facoltà qualunque di lana, seta, ferro possibili, si dirà posseder rendita non in quanto possiede tali materiali, ma in quanto egli li modifica, li configura in più rise, li trasporta, gli espone e li dà al consumo con le sue o colle mani di altri con i quali se il caso egli divide le perdite. E similmente un capitalista di danaro non possiede rendita in quanto ha quel metallo, ma in quanto col darlo altrui, come equivalente dei beni, partecipa, come interessato, dell’occupazione e della rendita di quel tale, sui medesimi beni. Così il padrone d’uno stabile non ne riporta tanto la rendita della pigione, ma come colui che, una volta ha innalzato lo stabile e lo mantiene e conserva, col proprio o con lavoro d’un altro muratore […]”18.

Interessante, perché ci introduce nelle qualità immateriali dell’imprenditorialità, è il suo saggio Delle scienze utili e dilettevoli per rapporto alla felicità umana, in cui così ragiona: “[…] Nell’uomo vi hanno due facoltà a questo inservienti, una delle quali si chiama

17

Jean Baptiste Say, Corso completo di economia politica pratica, Biblioteca dell’Economista, vol. 11, Cugini Pomba e Comp., Torino 1855, p. 663.

18

Ortes Gianmaria, Errori popolari intorno all'economia nazionale, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri, Roma 1966, pp. 32-33.

(17)

immaginazione e l’altra intelletto. L'immaginazione apprende gli oggetti quali sono presentati dai sensi […] L’intelletto […] esamina gli oggetti quali dall'immaginazione sono a lui presentati, li confronta con gli altri da lui appresi e trovati non contraddittori fra loro, e se trova quelli a questi conformi gli approva ed accetta come conformi al vero di natura.”19. La differenza che Ortes fa fra immaginazione e intelletto potrebbe raffigurare quella che esiste fra imprenditore e manager. Imprenditore è colui che, avendo immaginazione, inventa nuove enunciazioni per intraprendere o continuare a far vivere imprese già in atto. Per questo ha il supporto collaborativo di persone, i manager, dotate di razionalità applicata alla gestione direzionale, che con l'uso dell’intelletto esaminano, verificano, convertono concretamente gli enunciati immaginati dall'imprenditore. Questi sprona le attività dell'impresa con una continua sollecitazione di idee, di occasioni, di fattori stimolanti, fornendole l'anima, lo spirito vitale.

Dunque, è sul finire del Settecento che la figura dell’imprenditore nasce ed è considerata colei che presiede il processo di produzione costruito con l’impiego di manodopera salariata: è la novità della manifattura descritta nella Ricchezza delle Nazioni da Adam Smith, ma ove l’imprenditore è confuso con il datore di lavoro, ossia con chi, disponendo di fondi, porge occupazione ai poveri laboriosi, secondo la terminologia dell’epoca. Tra coloro che hanno capitali, spiega Smith, “[…] alcuni li impiegheranno per mettere al lavoro gente operosa, a cui forniranno materiali e mezzi di sussistenza allo scopo di trarre profitto dalla vendita delle loro opere”20. Se quindi l’imprenditore è colui che dirige l’attività produttiva allo scopo di guadagnare un profitto, per fare questo, nelle condizioni tecniche di allora, abbisogna di manodopera salariata facendola lavorare alle proprie dipendenze. La utilizza quindi come lavoro comandato ed è da questa sottomissione lavorativa che nascerà il suo guadagno.

19

Ortes Gianmaria, Delle scienze utili e dilettevoli per rapporto alla felicità umana,

indirizzo:http://books.google.it/books?id=_XsTAAAAQAAJ&pg=PA132&lpg=PA132&dq=esamina+gli+oggett

i+quali+dall%27immaginazione+sono+a+lui+presentati&source=bl&ots=-

2F4LdkGQ&sig=8nJeCqYswdr911RUyrTuJ-7Kk3c&hl=it&sa=X&ei=JwTwUuFE4uLLA972gSg&redir_esc=y#v=onepage&q=esamina%20gli%20oggetti% 20quali%20dall%27immaginazione%20sono%20a%20lui%20presentati&f=false, pp. 151-152-153.

(18)

Sin dagli inizi dell’Ottocento, però, la rivoluzione industriale agiva facendo mutare radicalmente il quadro di riferimento, infatti adesso per la produzione era indispensabile procurare anche i macchinari, ossia i mezzi di produzione. Ma se l’imprenditore aveva pure il compito di fornire i beni capitali, esso doveva assimilarsi con il capitalista, piuttosto che con il semplice datore di lavoro, ossia con il soggetto che, possedendo denaro, lo impiega per comperare sì manodopera, ma anche i mezzi di produzione, acquisendo dal loro uso combinato, il profitto d’impresa. In questo quadro si costituisce il movimento operaio, contrapposto al fronte dei capitalisti e Karl Marx nel Manifesto del Partito comunista (1848) alla domanda per quale scopo politico si dovrebbe organizzare la rivoluzione comunista, risponde: “[…] per strappare alla borghesia a poco a poco tutto il capitale”21 e farne proprietà del proletariato. Senza più capitalisti scompaiono anche gli imprenditori ed è proprio questa separazione che avviene, nei fatti prima che nella teoria, nel corso dell’Ottocento. L’accresciuta mole dei capitali essenziali alla produzione fa sì che non sia più sufficiente la ricchezza di un solo capitalista, ma ne occorrono diverse per giungere a mettere mano all’impresa. Si fanno così le società per azioni in cui più capitalisti riuniscono le loro forze per acquisire i mezzi di produzione e la manodopera da immettere nella produzione per realizzare un profitto, da cui tutti ritrarranno, proporzionalmente al capitale investito, un dividendo di partecipazione, lasciando ad uno solo di essi il compito di gestire e coordinare l’impresa. Solo quest’ultimo, di fatto, è imprenditore, mentre gli altri sono capitalisti assenteisti, perché rinunciano a governare personalmente l’impresa.

La funzione imprenditoriale non è più indispensabile per i capitalisti, ma anche il possesso di capitali non è più connotato necessario per l’imprenditore. Infatti, qualora non vi siano soggetti che vogliano dirigere, la gestione può essere demandata ad un terzo estraneo, anche privo di capitali, che riceve la nomina dall’assemblea dei soci che, se del caso, può ritirargliela licenziandolo, come un salariato o meglio stipendiato. All’imprenditore spetta solo il compito di svolgere la funzione di coordinamento dei fattori, così che tra la proprietà dei capitali e la direzione dell’impresa non esiste più alcun nesso di necessità.

21

(19)

Léon Walras esprime lucidamente questi concetti negli Elementi d’economia politica

pura dove si legge: “[…] un errore che oscura tutta la scuola economica inglese è la

confusione dei due ruoli del capitalista e dell’imprenditore. Sotto il pretesto che nella realtà è difficile essere imprenditore senza essere al tempo stesso capitalista, essi non distinguono queste due funzioni l’una dall’altra... Ora è certamente difficile, ma non per questo impossibile, essere imprenditore senza essere capitalista [...] ma in tutti i casi, e supponendo che vi siano pochi imprenditori che non siano capitalisti, vi è un grande numero di capitalisti che non sono imprenditori. [...] Ed infine, se i due ruoli fossero confusi più sovente ancora di quanto lo sono nella pratica, la teoria dovrebbe non di meno distinguerli»22.

L'inizio di una nuova attività imprenditoriale o le ininterrotte trasformazioni delle attività già esistenti, così da adattarle alle variabili situazioni in cui si agisce, generano cambiamenti nello sfondo generale e quindi lo innovano: così l'innovazione diviene sempre un effetto dell'azione imprenditoriale, ma spesso è essa stessa la ragione generante della nascita di una nuova impresa. Quindi, una delle caratteristiche peculiari dell'imprenditore diviene proprio l'operare con immaginazione e, tramite questa, pungolare l'impresa ad una costante vita innovativa.

Si giunge così alla successiva definizione di imprenditore come innovatore, teorizzata da un altro grande economista, l'austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) che scrisse opere fondamentali come la Teoria dello sviluppo economico (1912), Capitalismo, socialismo,

democrazia (1942), Storia dell'analisi economica (1954). In uno dei suoi trattati più

importanti, La teoria dello sviluppo economico, precisamente Shumpeter propone queste definizioni: "[…] chiamiamo impresa l'introduzione di nuove combinazioni, e chiamiamo imprenditore quei soggetti economici la cui funzione consiste nell'introdurle."23. Egli specificò poi la funzione che l'innovazione prende nel sistema economico in relazione alle esigenze che sorgono dai bisogni dei consumatori, spesso essendo esse causa delle innovazioni e non soltanto effetti delle azioni di persuasione anche inconscia, generate

22

Léon Walras, Elementi di economia politica pura, UTET, Torino 1974, p. 561.

23

Joseph Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico,ricerca sul profitto, il capitale, il credito, l'interesse e il

(20)

strumentalmente dagli imprenditori: "[…] Le innovazioni nel sistema economico non avvengono di regola in maniera tale che prima sorgono spontaneamente nei consumatori nuovi bisogni e poi, sotto la loro pressione l'apparato produttivo riceve un nuovo orientamento. Noi non neghiamo il verificarsi di questo nesso. Però è il produttore che di regola inizia il cambiamento economico e i consumatori, se necessario, sono da lui educati; essi sono, come pure erano, considerati come persone che vogliono cose nuove, o cose che differiscono per qualche aspetto o per altro da quelle che sono abituati ad usare"24

L’idea di innovazione è attuata, secondo Schumpeter, dall’imprenditore con azioni sommariamente rintracciabili nella realizzazione di nuovi prodotti, o di nuove qualità di prodotti; nell'immettere nuovi metodi di produzione; nel creare nuove strutture imprenditoriali, per esempio la trustificazione; nell'aprire nuovi mercati di sbocco e di nuove fonti di approvvigionamento. Schumpeter richiama l'attenzione sul fatto che l'imprenditore non necessariamente sia l'inventore dell'innovazione da lui introdotta nell'impresa e come non necessariamente fornisca il capitale per le attività imprenditoriali, infatti il finanziamento può anche essere preso a prestito o fornito da appropriati capitalisti. Da ciò fa derivare che il rischio nell'azione imprenditoriale, nella maggior parte dei casi, entra in modo indiretto, essendo esso funzione specifica del capitalista finanziatore.

Dal punto di vista storico, l'economista austriaco alle già citate categorie economiche dei proprietari fondiari, dei lavoratori e dei capitalisti, ne aggiunge una quarta quella, appunto, dell’imprenditore.

John Kenneth Galbraith, individuando uno staff imprenditoriale che opera nelle grandi iniziative economiche, dice: “[…] ne fanno parte tutti coloro che contribuiscono con cognizioni specialistiche, talento o esperienza alle decisioni di gruppo. Questo, non il consiglio d’amministrazione, è l’intelligenza direttiva, il cervello, dell’impresa. Manca un nome per tutti i partecipanti alle decisioni di gruppo o per l’organizzazione cui danno luogo. Propongo di chiamare questa organizzazione teconostruttura.”25. Se il termine di Galbraith

24

Ibid., p. 75.

25

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non ha trovato seguito, più efficace è stato invece quello di management i cui componenti, tutti investiti della funzione imprenditoriale, agiscono come personificazione di ruoli differenti, coordinandosi in una struttura organizzativa complessa per guidare l’impresa.

Anch’essi devono rispondere al principio della sopravvivenza dell’organizzazione a conservarsi nonostante le variazioni e le sollecitazioni ambientali (omeostasi). Per questo l’obiettivo dell’imprenditore plurimo, come è stato anche chiamato, non è più tanto la massimizzazione del guadagno d’impresa, quanto la conservazione della struttura in cui è inserito, che può essere assicurata da un livello soddisfacente di dividendo per gli azionisti, che sono quelli che conservano, comunque, il diritto di nominare o revocare il management.

Incertezza, fortuna, intuito, carisma, leadership, professionista con spiccato senso del mercato, di economia, di finanza e di banche, con il piacere di creare, innovare, realizzare, con ideali legati all’immaginazione, capace di integrarsi sul territorio, attento alla cultura e al mecenatismo, ma anche ai valori dell’etica, l’imprenditore sarà sempre proteso a completare la propria avventura imprenditoriale, proiettandola in un futuro caratterizzato dal gusto della scoperta e dell’innovazione continua. Ma al di là della retorica, come le citazioni fatte dimostrano, chi si accontenta di aspetti parziali senza metterli in relazione tra loro, si comporta come quei ciechi della favola hindu che cercando di capire cosa fosse l’elefante di cui parlava la gente del villaggio, toccandone con la mano parti diverse, cercarono una sintesi fra loro, ma non vi riuscirono; infatti pur avendo ragione tutti, tutti avevano torto, poiché avevano assunto, toccando l’elefante in un sol punto, solo una parte del tutto.

I numerosi ed eterogenei temi trattati nelle opere, convegni, saggi, sull’imprenditorialità sono l’indice della complessità circa la ricerca. Come accade sovente nelle scienze naturali e a maggior ragione nelle scienze sociali, per la comprensione di alcuni fenomeni complessi è opportuno esaminare ed accogliere contributi molto distanti ed in ambiti d’indagine non strettamente connessi. Per tale motivo le attività di ricerca classificate nel novero dell’imprenditorialità si caratterizzano per un’estrema eterogeneità degli obiettivi, si pongono domande e utilizzano metodologie alquanto differenti: innovazione, finanziamenti, incertezza, ecc.

(22)

Questo lavoro, analizzando il periodo tra 1947-1969 del nostro Paese, è un tentativo di verificare nel concreto quali caratteristiche, funzione, cultura, resistenze e progettualità l’imprenditorialità italiana ci ha regalato e continua a produrre.

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SEZIONE I

L’imprenditorialità in Italia

1) Ricostruzione e “miracolo”

Una buona parte del catching up secolare dell’economia italiana verso i paesi più sviluppati fu realizzato tra il 1946 e il 1973.

Per uscire dalle macerie del 1945 l’Italia capì, sul piano politico prima ancora che economico, le convenienze createsi nell’ ordine postbellico e nel nuovo assetto internazionale che ne uscì. Il Piano Marshall, quantitativamente non decisivo, servì al Paese per muoversi velocemente verso la liberalizzazione degli scambi, l’Unione Europea dei Pagamenti, la partecipazione alla CECA e alla CEE. La scelta dell’apertura all’economia internazionale rappresentò una forte discontinuità con il passato. Fu una valutazione politica, portata avanti anche contro la resistenza di potenti lobby economiche.

Nel dopoguerra moltissime delle grandi aziende siderurgiche e meccaniche erano in mano all’IRI, che attuò le linee guida della politica economica. La siderurgia integrale, osteggiata dal regime negli anni Trenta, fu una risposta efficace per aprirsi ai mercati internazionali.

La radicale inversione di tendenza, nel grado di apertura ai mercati internazionali, non si accompagnò ad altrettanto decise riforme sul piano interno. La promozione della concorrenza fu fiacca, la gestione del governo dell’impresa rimase chiusa, strettamente regolati i settori naturalmente protetti del commercio al dettaglio, degli ordini professionali, dei servizi di pubblica utilità, del sistema finanziario. Coloro che si opponevano a profonde riforme del mercato interno, ebbero buon giuoco nel clima favorevole di generale diffidenza verso il libero mercato, diffusissimo in Europa e nei partiti italiani di governo e opposizione dell’epoca. A ciò si sommava, nella parte più attenta della tecnocrazia di stato, una sfiducia, consolidatasi nel ventennio interbellico, nella capacità degli imprenditori privati di fare

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nascere un appropriato livello di accumulazione, nonché uno slancio innovativo e di crescita della produttività.

Fu convalidata l’opzione del 1937 di non privatizzare le imprese acquisite dallo Stato durante la crisi del 1931-33, dando all’IRI un carattere permanente. Un corollario non trascurabile di questa decisione fu il mantenere quasi interamente sotto controllo pubblico il sistema di intermediazione finanziaria, che rimase centrato sulla banca e strettamente regolato. Il mercato finanziario, la Borsa Valori, restò sottile, oligopolistico, vulnerabile alle scorrerie speculative di pochi.

Le istituzioni economiche postbelliche corrisposero all’idea di “economia mista” caratterizzata da una forte presenza dello Stato produttore e regolatore, che aveva ispirato il compromesso

costituzionale del 1948.

Rispetto ai principali paesi europei la

Repubblica ricevette in eredità, dai decenni precedenti, un capitale umano meno emancipato. La scuola elementare aveva fatto progressi e nel 1951 gli analfabeti si erano ridotti al 12,9% (Figura 1).

Ma la media di anni di scuola, 4,1, con forti differenze territoriali, era la più bassa tra quelle di tutti i 12 paesi dell’Europa Occidentale.

Tale dubbia prerogativa rimase per i sessanta anni successivi, malgrado i grandi progressi compiuti anche dall’Italia.

Figura 1- Italia. Tasso di analfabetismo 1871-2001 e titolo di studio 1951-2001

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Tabella 1-Fonte: Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 78

In questa cornice di dinamica apertura alla concorrenza internazionale e di protezione e controllo del mercato interno, il PIL tra il 1949 e il 1973 crebbe in media del 5,9 per cento l’anno. Il tasso di crescita annuo della produzione industriale fu dell’8,4 per cento (Tabella 1), quello della produttività del lavoro del 6,2 per cento. Insieme a Germania e Giappone, gli altri grandi sconfitti nella guerra mondiale, l’Italia realizzò, in un quarto di secolo, una eccezionale convergenza verso i paesi a reddito più elevato. Tra il 1950 e il 1973 il reddito medio degli italiani passò dal 38 al 64 per cento di quello degli americani e dal 50 all’88 per cento di quello degli inglesi (Figura 2).

La rincorsa verso i paesi più avanzati fu più rapida di quanto gli economisti avrebbero potuto attendersi sulla base del livello iniziale del reddito per abitante italiano. Giocarono oltre a fattori comuni a tutta l’Europa, elementi specifici al nostro paese. Le tecnologie dell’epoca, ampiamente basate sull’adattamento del modello

fordista, si coordinavano bene a un paese capace di un’abbondante riserva di manodopera, con appropriata istruzione di base e di un esiguo, ma ben preparato nucleo di ingegneri. Fino alla metà degli anni Sessanta, la cospicua disponibilità di lavoro permise una crescita dei salari

Figura 2 - Evoluzione del reddito pro capite di Italia, Francia, Inghilterra, Germania tra il 1900 e il 2008

Fonte: Angus Maddison, Monitoring the World Economy e FMI, Elaborazione Vision

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non più alta di quella della produttività. L’ampio mercato interno permise economie di scala, specialmente nella fabbricazione di beni di consumo durevoli, che così generarono vantaggi competitivi nei mercati di esportazione. L’impresa pubblica, in questa fase, fu valido

strumento per l’incremento della velocità degli investimenti (Figura 3).

L’IRI produsse a prezzi concorrenziali beni intermedi, soprattutto per l’industria meccanica, in settori come quello dell’acciaio nei quali l’industria privata era particolarmente debole. Gli investimenti fissi, quasi interamente finanziati da profitti non

distribuiti, diedero un importante contributo alla crescita. Il divario del PIL pro-capite tra

Centro-Nord e Mezzogiorno si ridusse per la prima volta (Figura 4).

Nel complesso l’assetto postbellico dell’economia italiana, basata su un’ampia apertura al commercio estero, con larghe tutele per i produttori interni, non esposti alla concorrenza internazionale e su un rilevante ruolo dello Stato, come produttore di beni e servizi, si dimostrò capace di sorreggere la crescita di un’economia al principio ancora molto arretrata. Le cose cominciarono a cambiare alla metà degli anni Sessanta, quando il Nord del paese si avvicinò alla piena occupazione. Da un lato fu più faticoso rendere compatibili le più elevate domande salariali con la salvaguardia di cospicui livelli di accumulazione, dall’ altro lato le imprese videro crescenti difficoltà ad accelerare i processi di

Figura 4- Il divario nei 150 anni di storia d’Italia. Andamento del PIL pro-capite del Mezzogiorno in percentuale

del Centro-Nord

Figura 3- Investimenti in impianti e macchinari 1950-1968

[% sul PIL, prezzi 1963]

Fonte: Nardozzi Giangiacomo, Il miracolo economico, in P. Ciocca e G. Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia, vol. III, t. 2, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 232

Fonte: Bianchi, Miotti, Padovani, Pellegrini, Provenzano, 150 anni di crescita. 150 anni di divari, in Rivista Economica del Mezzogiorno, XXV, n. 3, 2011, p. 452.

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innovazione per bilanciare l’infiacchire dei vantaggi dell’arretratezza: offerta grandissima di lavoro e importazione di know-how straniero.

Nella seconda metà degli anni Sessanta era già chiaro il bisogno di adeguare istituzioni, mercati finanziari, formazione e ricerca, intervento pubblico, alle qualità di un’economia non più arretrata, proprio in virtù della grandiosa crescita del ventennio precedente. Tuttavia fu fatto ben poco in ciascuno di questi campi: una mancanza che graverà sullo sviluppo successivo.

Il processo di convergenza per il ventennio successivo all’età dell’oro, a ritmi più ridotti, fu realizzato con una successione di politiche che nel breve periodo consolidarono la coesione, componente determinante della capacità sociale di crescita, ma avvennero a spese di un indebolimento della crescita stessa nel più lungo andare.

A partire dall’autunno caldo e per tutti i difficili anni Settanta, si adottarono in rapida successione misure estemporanee di welfare e di indiscriminati sussidi alle imprese. Crebbe il peso delle micro decisioni politiche nei processi di allocazione delle risorse, anche nell’impresa pubblica. L’inflazione a due cifre fu più elevata e durò più a lungo che nei paesi concorrenti. Riforme indispensabili, delle quali si sentiva sempre più la necessità, furono indefinitamente rinviate. La qualità della scuola peggiorò. I tempi della giustizia civile e amministrativa si allungarono. All’indebolimento dell’impresa pubblica si accompagnarono segni crescenti di debolezza della grande impresa privata, il mercato del lavoro divenne più rigido.

L’Italia si bloccò in una qualificazione produttiva nei settori a bassa e media tecnologia, anche se con una più alta qualità in molti comparti del cosiddetto made in Italy26. L’occupazione venne sempre più concentrandosi nelle piccole e medie imprese, capaci di grande flessibilità e adattamento, ma meno capaci di ricerca e sviluppo. Fu probabilmente proprio grazie a questa flessibilità, un altro ingrediente della nostra specifica capacità sociale

26

I settori di eccellenza del made in Italy, sono quelli delle 4A (Abbigliamento-moda, Arredo-casa,

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di crescita, che l’Italia riuscì a mantenere la propria quota di esportazioni nel mercato mondiale.

Il giudizio sulla politica macroeconomica è ancora aperto. E’ stato autorevolmente sostenuto che la politica monetaria accomodante adottata dopo il secondo shock petrolifero del 1979 permise a profitti e domanda di restare elevati, sostenendo l’occupazione e abbassando i costi della successiva disinflazione negli anni Ottanta. Attecchirono, tuttavia, aspettative di inflazione sradicate solo negli anni Novanta.

Sia in Europa sia negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta, dunque, lo sviluppo economico ebbe un repentino rallentamento. In tutta Europa si esaurirono quegli importanti fattori che avevano permesso la crescita nel dopoguerra, come la pressione della ricostruzione e l’apertura dei mercati. Terminò una lunga fase di possibilità di uso di materie prime a buon mercato, che aveva consentito ragioni di scambio favorevoli per l’Occidente. Nei paesi in principio più arretrati si consumarono le prerogative di una copiosa offerta di lavoro. Lo stesso catching up riduceva i privilegi di produttività che si avevano col trasferimento delle tecnologie. Tutto ciò permette di comprendere la diminuzione della crescita della produttività, ma restano poco chiari i perché essa si sia verificata, con una non prevista discontinuità e simultaneamente in tutti i paesi. Un ruolo determinate lo svolsero le attese negative che produsse la fine dell’ordine monetario stabilito a Bretton Woods e il primo shock petrolifero.

In Italia dal secondo dopoguerra fino agli anni ottanta, periodo in cui il coinvolgimento crescente dello Stato nell’economia ha portato a un incremento della spesa da destinare all’azione pubblica sia allocativa che redistributiva di reddito e di stabilizzazione ciclica, è Figura 5- Spesa pubblica direttamente legata alla produzione di servizi in

percentuale del Pil.

Fonte: Ministero del’Economia e delle Finanze-Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato- Servizio Studi Dipartimentale, La spesa dello Stato dall’Unità d’Italia Anni 1862-2009,

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stato rapido e significativo l’aumento della spesa. In questi anni i sistemi di welfare hanno contribuito all’incremento e rafforzato il nuovo ruolo dello Stato. Nel 1980 la spesa pubblica ha raggiunto in Italia il 40,6 per cento del Pil, contro il 30,1 per cento del 1960; in media i paesi europei sono passati dal 29,5 per cento del 1960 al 46,8 per cento del 1980; i paesi extraeuropei sono passati dal 24,2 per cento del 1960 al 35,2 per cento del 1980 (Figura 5).

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2)Tipologie imprenditoriali nella storia dell’Italia industriale

Nell’Italia industriale si delinea un crinale fra due tipi di imprenditorialità. Una indirizzata al mercato, un’altra che aveva lo Stato come punto di relazione. La forte presenza dello Stato, soprattutto nei settori più importanti dell’economia italiana, ha sempre costituito la caratteristica principale della nostra storia. C’era poi il caso atipico di Giovanni Agnelli, uno dei maggiori imprenditori italiani del Novecento, forse il maggiore, che va posto a metà strada fra le due tipologie precedenti. Agnelli infatti deve alle commesse e benevolenze dello Stato parte notevole della sua straordinaria ascesa, ma va detto che per primo in Italia ha capito come l’automobile non fosse un giocattolo per benestanti, ma un mezzo di trasporto per tutti e perciò un prodotto di massa; un’intuizione che fece accompagnare da azioni conseguenti sul piano industriale. Risaltano subito in evidenza, in questo caso, i riferimenti teorici alle classiche pagine di Schumpeter: l’imprenditore quindi come innovatore, perché introduce un nuovo prodotto, una nuova tecnologia, una nuova materia prima, individua un nuovo mercato, cambia la configurazione del settore in cui opera, che passa dalla concorrenza al monopolio o viceversa.27

L’imprenditorialità appare in varie forme e dimensioni, dal capitano di una large

corporation, all’ambulante che centra il luogo giusto della vendita, allo scienziato che rende

vendibile una sua scoperta di laboratorio. L’imprenditore è l’eroe schumpeteriano, il grande innovatore, ma è anche colui che mette a profitto una lunga capitalizzazione, è l’uomo fuori dalle regole, ma è anche l’uomo comune. È il soggetto che rischia i suoi soldi, ma è anche colui che prende decisioni, senza cura della proprietà, circa l’investimento delle risorse al massimo livello aziendale. Ecco che l’innovazione di Schumpeter non è più la sola prerogativa dell’imprenditore. C’è anche l’alertness di Kirzner28, ossia l’intelligenza di

27

Cfr. Amatori Franco, Colli Andrea (a cura di), Imprenditorialità e sviluppo economico. Il caso italiano (secc.

XIII-XX), Egea, Milano 2008.

28

Israel Meir Kirzner, Competition and entrepreneurship, University of Chicago Press, Chicago 1973, cit. in Amatori Franco, Colli Andrea (a cura di), Imprenditorialità e sviluppo economico. Il caso italiano (secc.

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insinuarsi nei momenti di squilibrio, prendendo al volo opportunità impreviste, o colui che ha la capacità di prudenti decisioni circa l’utilizzo di risorse scarse29.

Riflettendo quindi sulla nostra storia, si possono delineare aree di analisi dell’imprenditorialità che sono: a) l’evoluzione del contesto economico nazionale con le sue debolezze, ma anche i suoi punti di forza; b) gli input dell’economia internazionale che incidono sulla dinamicità del mercato interno; c) l’azione dello Stato.

L’Italia è un paese che dal XVII secolo ha perso il primato politico ed economico, un paese dove si evidenzia una contrapposizione territoriale difficile da colmare, ma è anche una terra ricca di capacità tecniche, di società culturali e scientifiche, di predisposizione al commercio aperto, di consumi ricercati, di un’agricoltura che è stata in grado di accumulare e dove vivono l’intraprendenza e la dura etica del lavoro30. Ma rispetto alla braudeliana economia mondo, con i suoi cerchi concentrici, siamo alla periferia del primo cerchio o, a volte, all’estremo limite della semiperiferia; spesso perciò l’azione dello Stato, in Italia, sin dall’unificazione si muove alacremente perché il paese agganci le nazioni più avanzate mediante sovvenzioni, commesse, protezionismo e salvataggi, ma in tale contesto si parla anche di “Industria come continuazione della politica”31.

In questo lavoro si analizzano gli anni d’oro dell’economia italiana, ma per comprendere le caratteristiche dell’imprenditorialità del tempo è necessario anche rivolgere lo sguardo al periodo che va dall’unificazione all’inizio della prima guerra mondiale.

Da questa visuale particolarmente rappresentativi, per gli impulsi dell’economia internazionale e il dinamismo del mercato interno, tre sono gli imprenditori più significativi: Alessandro Rossi, Giovanni Battista Pirelli, Giorgio Enrico Falck.

Alessandro Rossi, il laniere di Schio, è il più rilevante industriale italiano, appena dopo l’unificazione. Rossi è un protezionista degli anni Ottanta dell’Ottocento. Afferma

29

Mark Casson, Information and Organization, Oxford University Press, Oxford 1997.

30

Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Ruggiero Romano e Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. I, Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino 1978, pp. 1194-1255.

31

Paolo Fragiacomo, Industria come continuazione della politica. La cantieristica italiana 1861-2011, Franco Angeli, Milano 2012.

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infatti che il liberismo è il protezionismo dei forti. Ma l’ascesa di Rossi si deve ai suoi viaggi all’estero, all’abilità di cogliere i rinnovamenti tecnologici, alla lungimiranza dimostrata nel creare una fabbrica moderna e di utilizzare le più moderne forme societarie, come la società per azioni32.

Giovanni Battista Pirelli, laureato del Politecnico di Milano ottiene una borsa di studio per un gran tour in Europa, al fine di individuare una industria innovativa che identificherà nella gomma. Pirelli fonda la sua società nel 1872 e non disdegna le commesse pubbliche, come quelle provenienti dal Ministero della Marina e del Genio Militare per i cavi sottomarini o per i fili telegrafici, però opererà immediatamente nella sfida internazionale e creando un’impresa multinazionale, con fabbriche in Spagna, in Sudamerica e persino in Inghilterra, cuore del capitalismo mondiale, esattamente a Southampton33.

Per concludere, Giorgio Enrico Falck, rappresentante di una famiglia di imprenditori siderurgici di origine alsaziana, che a Milano nel 1906 dà vita alle Acciaierie e Ferriere Lombarde. Falck non produce beni come rotaie, acciai speciali, grandi lamiere, la cui domanda può essere solo pubblica. Egli, piuttosto, pone l’attenzione alle richieste del mercato locale, come infrastrutture urbane, edilizia civile e industriale in forte espansione e alla nascente meccanica, fornendo tubi saldati e non, travi, profilati, prodotti derivati dalla vergella34, semilavorati semplici. Non crea, quindi, impianti molto costosi a ciclo integrale; il suo è un processo produttivo ove è possibile utilizzare il forno elettrico, tecnica che consente un’alta flessibilità35.

• Imprenditori collegati allo Stato

Già in epoca passata balzano evidenti esempi di imprenditori che hanno nell’azione

32

Fontana Giovanni Luigi (a cura di), Schio e Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi

sociali del secondo Ottocento, 2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1985-1986.

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Polese Francesca, Alla ricerca di un’industria nuova. Il viaggio all’estero del giovane Pirelli e le origini di

una grande impresa (1870-1877), Marsilio, Venezia 2004.

34

Tondino di ferro o di acciaio laminato del diametro di 5-6 mm: posto in commercio in rotoli, costituisce il semilavorato di partenza per prodotti di chioderia e trafileria, ma è adoperato anche nelle costruzioni.

35

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dello Stato il loro punto di riferimento, e che nella corruzione trovano un fertile terreno di coltura, utilizzando un misto di patriottismo e affari. Pietro Bastogi, per esempio, dapprima rivoluzionario amico di Mazzini, poi più moderato, proprietario di una piccola banca di famiglia, la Banca Toscana di Credito, autorevole esponente della destra storica e primo ministro delle finanze nel governo Cavour. Con la banca aveva dato vita a un primo strumento di finanziamento industriale: lo stretto nesso fra banca e impresa gli appare chiaramente come la via da percorrere per realizzare interventi efficaci nella complessa realtà economica dello Stato unitario.

Crescita della finanza nazionale e del settore industriale rappresentano gli elementi caratterizzanti della vicenda biografica di Bastogi, anche se con notevoli chiaroscuri su entrambi i versanti, politico e finanziario. Bastogi nel 1862, ironicamente potremmo dire grazie all’alterness imprenditoriale, nella costruzione del tratto ferroviario fra Ancona e Brindisi e Napoli e Foggia vede il grande affare. Riesce a far rovesciare in Parlamento la decisione con la quale il Governo aveva conferito l’esecuzione del tratto ai Rotschild, facendo leva sul patriottismo dei giorni dell’operazione di Garibaldi in Aspromonte, o Roma o morte.

Infatti, dichiarò di aver creato una cordata di capitalisti italiani, portatori di un investimento enorme per l’epoca: cento milioni. Ma in realtà si scoprì che la maggior parte dei capitali era francese, dei fratelli Perèire36 e del loro Crédit Mobilier e che lo stesso relatore del provvedimento alla Camera, era membro della commissione parlamentare che aveva respinto la convenzione con i Rothschild, Guido Susani. Egli era stato corrotto dal Bastogi con un compenso di un milione e centomila; lo stesso Bastogi, ottenendo il subappalto dei lavori, ricaverà una cospicua somma.

Fu il là agli scandali economico finanziari che hanno costellato la storia dell’Italia unita; in più, a conferma di come il passato si ripeta, Bastogi lascerà la vita politica, ma

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I fratelli Jacob Emile e Isaac Rodrigue Perèire furono tra i protagonisti del mondo finanziario parigino del XIX secolo e del regno di Napoleone III.

(34)

tranquillamente e da protagonista vi rientrerà alla guida della sua società: le Strade Ferrate Meridionali37.

Simile è la storia di Vincenzo Stefano Breda. Patriota e uomo politico, a capo di una delle più importanti imprese italiane, la Società Veneta di Costruzioni, il più grande agente nazionale nel settore dei lavori pubblici. Nel 1884 lo Stato affida a Breda la realizzazione della primo rilevante progetto industriale italiano, le Acciaierie di Terni. Per l’attuazione vengono elargiti finanziamenti a fondo perduto, commesse e protezionismo.

Infatti la Terni doveva sfornare acciaio per costruire le corazzate della Regia Marina. Breda va oltre il sostegno pubblico concretizzando un progetto che doveva fare della Terni il massimo produttore di acciaio nazionale. Nel 1887 però l’impresa è sull’orlo del dissesto per incompetenza tecnica, per la difficile congiuntura economica e per visibili irregolarità amministrative: Breda aveva aggiudicato alla Terni una sua fonderia sovrastimandola e utilizzato i fondi dello Stato per porre rimedio alla precaria situazione della Società Veneta, invischiata nella crisi di fine anni Ottanta. Breda è processato, ma prima è fatto senatore e perciò sottoposto al giudizio di un tribunale speciale. Il Senato costituitosi in Alta Corte di Giustizia lo assolve, perché gran parte dei giudicanti riconosceva che il suo progetto mirava a dare al paese l’acciaio, materia indispensabile per qualsiasi programma di politica estera38.

Strettissimo il rapporto con lo Stato è quello di Fernando Maria Perrone ed i suoi figli Mario e Pio Perrone; essi legano il nome alla storia della società Ansaldo. I Perrone usufruivano di anticipazioni dallo Stato che arrivavano al 144% del costo delle forniture. La loro pressione sui poteri pubblici fu un aspetto decisivo nella loro imprenditorialità, finanziando e comprando giornali, prendendo alle loro dipendenze alti ufficiali della Marina, sistemando fiduciari nelle legazioni, assegnando procure a politici di rilievo39.

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Coppini Romano Paolo, Il Granducato di Toscana. Dagli “anni francesi” all’Unità, UTET, Torino 1993. 38

Bonelli Franco, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Einaudi, Torino 1975.

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