• Il conservatorismo imprenditoriale
La lunga storia della Repubblica di questi anni, ci permette di comprendere meglio quali siano i meccanismi e le resistenze che fecero industriali e buona parte della opinione pubblica, sostenuti idealmente e fattivamente da certa Chiesa cattolica e cultura liberale, ostacolando una stagione di riforme di tipo europeo, causando, per di più, lo scadimento etico nella società e, nella fattispecie, nella morale imprenditoriale.
Le lentezze, le cose dette e non dette, all’interno degli stessi partiti di maggioranza, le posizioni ufficiali stravolte dall’azione sotterranea nella politica, negli ambienti economici, i tradimenti, la voglia di un vecchio ordine ancora vicino temporalmente, contribuirono a creare un forte clima di incertezza, una radicalizzazione delle posizioni e, quindi, l’ancorarsi delle opzioni culturali, sia a destra sia a sinistra, alle vecchie e logore ancore di salvataggio
La guerra, come detto, causò mediamente una percentuale non molto alta di danni rispetto al valore degli impianti,309 tanto che le premesse per la ripresa dell’economia erano migliori che in altri paesi europei. Fra il 1945 e il 1947, le opzioni usate contro le difficoltà della ricostruzione, disegnarono la restaurazione economica e la normalizzazione delle relazioni sociali. Opzioni ispirate al liberalismo di Einaudi e all’interclassismo di De Gasperi, che miravano al consolidamento del regime di proprietà esistente e alla libertà privata, cancellando i lacci del controllo pubblico. Le ragioni imprenditoriali su produzione, scambi e mercato del lavoro, furono assimilate, semplicemente, con l’interesse nazionale.
Non si trattò di una sorta di ricostituzione capitalistica, ma della ripresa di un cammino interrotto. I rapporti di produzione privati erano usciti indenni sia dal conflitto, sia dalla Resistenza, né l’Aprile 1945 li pose in discussione.
309
Cfr. Castronovo Valerio, La storia economica, in Storia d’Italia, IV.1, Dall’Unità ad oggi, Einaudi, Torino 1975, p. 409.
“Da sinistra le contraddizioni interne del sistema capitalistico erano state ancora una volta sopravvalutate, in ossequio alla tradizione teorica della Terza Internazionale.”310 L’alta borghesia economica era in sella, sebbene i meccanismi industriali avessero crepitato per la guerra e i movimenti di partecipazione dei lavoratori alle decisioni in fabbrica, che dopo il 25 aprile si caratterizzarono politicamente.
Si tratta di comprendere i termini di questa continuità, partendo dal presupposto, però, ch’essa non ha negato ogni tipo di novità.311 “Si tratta piuttosto di valutare in una prospettiva di lungo periodo lo spessore storico delle forme istituzionali e delle linee di tendenza del sistema economico italiano, in coincidenza con i mutamenti del quadro politico e i movimenti avvenuti in altri paesi europei.”312 In definitiva si deve capire perché prevalse la direzione liberista e, anche, quanto tale direzione fu favorita dagli aiuti USA e dalle condizioni del mercato internazionale, che contribuirono a bloccare “la strategia d’attesa” del partito comunista, di ricostruzione largamente “autosufficiente” del paese, all’insegna della politica di “solidarietà nazionale”.”313
Eppure i liberisti, sotto qualsiasi partito si siano presentati, nonostante le dolorose sconfitte per le crisi del 1876-1893 e quella drammatica del 1929, pareva fossero fuorigioco, ma il liberismo dell’economia classica, passato tra protezionismo e ventennio fascista, era ancora capace di influenzare enormemente la cultura dei tempi. I monopoli, i cartelli d’impresa, il protezionismo statale, gli investimenti nell’industria di base, erano strumenti che lo avevano accompagnato, da sempre, nel consolidamento del sistema capitalistico, sia nel nostro Paese, sia in Europa, ma non erano mai stati giudicati strumenti fuorvianti le teorie; ecco allora che, nel dopoguerra, la grande imprenditorialità non pensava assolutamente di fare a meno di queste prerogative, ottenute con i profitti monopolistici, le pubbliche sovvenzioni e i rapporti locali con gli enti statali. Confindustria, ricreatasi un’immagine, dopo le compromissioni del ventennio, con Angelo Costa, criticava casomai alcune forme di 310 Ibid., p. 412. 311 Cfr. Ibid.. 312 Ivi, p. 413. 313 Ibid., p. 414.
accumulazione capitalistica promosse dalla dittatura: il corporativismo, l’autarchia, l’espansione di stampo nazionalista, il burocratico controllo del commercio estero; in definitiva tutte quelle forme d’intervento che fossero incompatibili con le premesse poste dal dopoguerra, sia interne, sia internazionali. 314
Angelo Costa, nel suo discorso d’investitura affermò: “[…] Il principio fondamentale nel quale vedo la salvezza dell’industria italiana è la libertà. […] Vi sono motivi di contrasto tra una linea liberista e quella di industrie cresciute in chiave assistita e protezionistica, e qui la scelta di campo deve essere netta. Sono certo che queste mie dichiarazioni potranno non riuscire gradite a qualche industriale. Non me ne preoccupo perché ritengo che rispondano agli interessi della quasi totalità degli industriali italiani.”315
Ma gli imprenditori, in realtà, aspirano ad unire l’interesse della grande impresa con quelli del Paese, per mezzo di una forte integrazione fra la “libertà” di Angelo Costa e la politica economica delle istituzioni statali: concetto che aveva radici lontane e che in quel momento era espresso, anche, per far fuori socialisti e comunisti dal Governo.316
La linea liberistica post conflitto, comunque, non metteva in discussione i feudi industriali, il grande capitale finanziario e la forza assunta, grazie alle due guerre, dai maggiori gruppi privati.317 Il liberismo mirava, oltre ad aiuti nell’export e ad un parziale ritorno ai privati, di banche e sistema finanziari,o e alla indipendenza degli imprenditori verso il potere politico e la burocrazia statale, soprattutto alla libertà di manovra nel mercato del lavoro e nelle fabbriche.318
Anche il capitalismo USA raccomandava la liberalizzazione del mercato italiano, ovviamente in relazione all’occasione post bellica, che determinò una dimensione straordinaria dell’economia di mercato americana, grazie all’ingrandirsi degli sbocchi
314
Casrtronovo Valerio, Cento anni di imprese. Storia di Confindustria 1910-2010, Laterza, Bari 2010, pp. 274- 313. 315 Ibid., p. 282. 316 Ibid., pp. 296-300. 317
Cfr. Castronovo Valerio, La storia economica, in Storia d’Italia, IV, 1, Dall’Unità ad oggi, cit., p. 416.
318
Salvati Mariuccia, Ricostruzione e disegno capitalistico, in «Italia contemporanea», 1974, 116, pp. 54-64. nota cit. in ivi.
commerciali e d’investimento, garantiti dalla vittoria militare in Europa, per le condizioni stremate in cui i paesi europei si vennero a trovare. 319
Per gli Stati Uniti e i suoi liberisti, si erano spalancate le porte alla unificazione del mercato mondiale, con un dollaro fortissimo, per la forte economia che si stava vieppiù rinforzando. “Il sistema monetario sorto a Bretton Woods nel 1944 già configurava i rapporti di forza reali determinati dal conflitto (il dollaro affiancato all’oro come riserva liquida delle banche centrali) e anticipava, in pari tempo, alcune linee di tendenza consolidatesi successivamente con l’accordo sulle tariffe e sul commercio dirette a incrementare e a finanziare il livello generale del movimento delle merci e dei capitali, sulla base di un sistema di cambi fissi, di una nuova divisione internazionale del lavoro e di posizioni fortemente complementari fra Europa e Stati Uniti.”320
Quindi, la necessità di importare risorse, da parte europea, e i forti disavanzi commerciali che questa determinò, creò, per gli americani, un forte avanzo della bilancia commerciale, che sostenne la crescita della loro economia.
Per ciò che riguardava la nostra fattispecie, gli economisti americani conclusero che, lo sviluppo delle transazioni commerciali con l’estero e l’aumento del reddito, fossero i punti cardine per il processo di trasformazione industriale del Paese.321
L’apertura verso il mercato estero doveva avvenire con una base economica interna coadiuvata da politiche riformatrici, investimenti pianificati, una adeguata selezione creditizia, l’abbandono di fiscalizzazioni sperequative ed il superamento delle differenze sociali. Gli stessi osservatori della United Nations Relief and Rehabilitation Administration322, l’UNRRA, si convinsero che in Italia fosse avverabile una politica di 319 Ibid., p. 416. 320 Ibid., p. 417. 321
Cfr. Damascelli Fano, La restaurazione antifascista liberista. Ristagno e sviluppo economico durante il
fascismo, in “Il movimento di liberazione in Italia”, 1971, 104, pp. 47-99, nota cit. in ibid., p. 418.
322
Era una organizzazione delle Nazioni Unite costituita nel novembre del 1943, col compito di prestare assistenza economica e sociale a quei paesi, alleati, distrutti dalla guerra; era dotata di fondi versati dagli stati che non avevano accusato danni bellici., e sciolta il 3 dicembre 1947.L'organizzazione traeva i suoi fondi da contributi che gli stati che non avevano subito devastazioni versavano per la ricostruzione postbellica. Successivamente gli aiuti furono estesi anche agli stati sconfitti e per l’Italia esattamente nel 1946, operando per
pianificazione, che operasse trasversalmente fra Stato e iniziativa privata. “[…] L’azione di ricostruzione, che fra l’altro poté fruire di un apporto da parte dell’UNRRA, e poi degli Stati Uniti, di oltre 1.200 miliardi di lire, poté dirsi completata intorno al 1950, anno in cui il reddito procapite raggiunse di nuovo i massimi livelli prebellici.”323
“[…] si trattava di collegare fin dall’inizio gli investimenti in strade e bonifiche con l’avvio di grandi opere irrigue, la creazione di un efficiente sistema di attrezzature e servizi collettivi, la riorganizzazione del circuito distributivo e dei mercati agricoli all’origine, il sostegno a forme di associazione della piccola proprietà contadina. In mancanza di condizioni tali da elevare sensibilmente il rendimento unitario e da consentire la massima aggregazione del lavoro, il valore medio della produzione agricola per ettaro risultava nel 1960 poco più della metà di quella del Nord. Ma, soprattutto, gli incentivi fiscali e creditizi, varati successivamente in funzione di un primo piano di ristrutturazione, vennero destinati alle grandi aziende e soltanto in linea subordinata alle “aziende familiari efficienti”.” 324
Così si rafforzarono le grandi imprese del settentrione, dell’allevamento e della risicoltura, mentre al Sud si determinò una forte concentrazione di profitti e arricchimenti nelle mani di pochi, nonché una serie infinita di discriminazioni sociali, fra agricoltori poveri e ricchi, con poche proprietà contadine che riuscivano a stare sul mercato.
Gli investimenti da reddito agricolo, invece di essere reinvestiti, finivano ad alimentare la rendita edilizia speculativa, creando clientelismo, malaffare e corruzione pubblica. Fu così che si accentuarono i fenomeni di emigrazione forzata di molti coltivatori e lavoratori agricoli, che non riuscivano a trovar spazio in una migliore dimensione produttiva.325
la distribuzione di tessuti, di lana e cotone, nonché per la ricostruzione di abitazioni. Cfr. fonte internet http://www.treccani.it/enciclopedia/unrra_%28Enciclopedia-Italiana%29/.
323
Cfr. Ricciuti Roberto, Stato e mercato nella nota aggiuntiva La Malfa, dicembre 2012, fonte internet http://dse.univr.it/home/workingpapers/notaaggiuntivawp.pdf, p. 24.
324
Castronovo Valerio, La storia economica, in Storia d’Italia, IV, 1, Dall’Unità ad oggi, cit., p. 517.
325
Cfr. Ginsborg Paul, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit.; Crainz Guido, Il Paese mancato, cit.; Zamagni Vera, Introduzione alla storia economica d’Italia, cit..
Dunque, nei primi anni Sessanta si arrivò ad una situazione in cui il Sud soffriva ancora delle contraddizioni improduttive della sua agricoltura, senza essere stato in grado di procedere nell’industrializzazione. Col tempo, infatti, “[…] la riforma agraria era stata abbandonata a se stessa in favore di un piano di sviluppo industriale”326.
Dal 1957 si inaugurò una politica per gli incentivi finanziari, atta a stimolare le iniziative imprenditoriali locali, per tramutare l’artigianato esistente in imprenditorialità industriale e per rendere appetibile, al Sud, l’investimento delle grandi imprese del Nord.
Contemporaneamente, furono varate leggi che stabilivano un ammontare del 40% degli investimenti delle partecipazioni statali nel Mezzogiorno, miranti a creare una politica economica dei poli di sviluppo, quali nuclei aggregati per una crescita geograficamente allargata. Ma questo sistema finì solo per trasformare lo Stato in un ente pagatore, un comportamento che portò semplicemente la sola riduzione dei costi produttivi, senza creare lo sviluppo industriale sperato.327
Si verificò, così, che facilitazioni fiscali e finanziamenti sparsi a pioggia, risultarono assai meno efficaci “[…] rispetto all’entità delle misure protezionistiche varate all’inizio del secolo, a favore del processo di industrializzazione (a tacere delle commesse dello Stato, dei vari salvataggi e dei successivi effetti inflazionistici). Anche l’apporto finanziario degli istituti di credito specializzati fu relativamente più modesto di quello assicurato a suo tempo dalle grandi banche miste di investimento.[…] La strategia dei “poli di sviluppo” (Bari, Brindisi, Cagliari, Salerno, Taranto) tagliò fuori da ogni tipo di intervento intere zone (complici anche le pressioni di questo o quel potentato politico locale) creando ulteriori squilibri fra le diverse province del Mezzogiorno. […] Tali oggi appaiono, in sostanza, alcune “cattedrali nel deserto”, sia pur ad alto livello tecnologico (come le acciaierie di Taranto o le raffinerie di Gela) erette all’inizio degli anni ’60 dall’Iri e dall’Eni.” 328
326
Castronovo Valerio, La storia economica, in Storia d’Italia, cit., p. 518. Si veda inoltre l’ampia storiografia ivi cit. alla nota 205.
327
Cfr. D’Antone Leandra, L’interesse straordinario per il Mezzogiorno (1943-1960), in D’Antone Leandra (a cura di), Radici storiche ed esperienza dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, Bibliopolis, Napoli 1996, fonte internet http://rivista.ssef.it/file/public/Dottrina/44/L1.A1001001A08F10B84357B38844.V1.pdf.
328
Intanto le regioni settentrionali prendevano le sembianze proprie delle società europee più industrializzate, mentre il Sud, svilito per le emorragie di grandi quantità di lavoratori, passava da una struttura agricola sempre più inconsistente, ad una terziarizzazione altrettanto debole, con crescita disordinata del tessuto urbano, dirottamento dell’occupazione verso il settore edilizio e del pubblico impiego, clientelismo, altrettanto utilizzabili dal sottogoverno che dalla violenza, sia politica che criminale.329
Il dato oggettivo era che, le opzioni dei grandi gruppi privati del paese, gruppi per di più così poco numerosi, non venivano poste mai in discussione, né dal centrismo né dal centrosinistra, tant’è che i grandi imprenditori non avevano oggettive necessità, affinché il capitale industriale del Nord dovesse assumersi l’onere della soluzione degli squilibri territoriali del Paese. Tutt’altro, il dipanarsi del miracolo economico insegnava loro che, la connessione tra sviluppo ed arretratezza era proprio uno dei punti cardine dell’espansione settentrionale, grazie al sempre più elevato utilizzo di ampie riserve di manodopera a basso costo.
“[…] La stessa politica delle opere pubbliche realizzata inizialmente nel Mezzogiorno aveva rappresentato del resto un elemento di consolidamento delle zone più sviluppate (espansione del mercato interno, economie di scala, processi di concentrazione). In questo senso l’ingresso nel Mercato Comune era valso semmai ad accrescere le condizioni di efficienza e di competitività del Nord e ad accentuare le propensioni del capitalismo italiano ad un’integrazione nelle aree monopolistiche europee, ma non certo a bloccare un reale processo di riequilibrio territoriale che non si era manifestato agli inizi degli anni Cinquanta, malgrado alcuni interventi pubblici di maggior portata rispetto al passato. Il fatto è che esistevano due sistemi, retti da leggi di sviluppo profondamente diverse, e che in questa situazione prevalse la logica di quello più forte, del Centro-Nord, orientato da tempo più all’aumento della produttività che alla creazione di nuovi posti di lavoro. Mancò, in ultima
329
analisi, una risoluta azione pubblica che conciliasse in qualche modo queste due diverse esigenze.” 330
Ma negli anni Cinquanta, la politica sappiamo che, non esprimeva una ferma volontà riformatrice e anche negli anni successivi si affermarono le già ricordate velleità autoritarie degli anni Sessanta; a ciò si aggiungano le manovre clientelari dell’amministrazione centrale e di altri organismi di trasmissione periferici, che elusero, spesso, o mortificarono le stesse disposizioni di legge in materia di interventi statali. Quindi, questa mancanza di direzione e guida, con criteri generali, universalmente validi e attuabili, accrebbe il processo di accumulazione al Nord, dove la struttura produttiva industriale era ben organizzata e forte e più agevoli erano i rapporti con l’estero.331
Questo stato di cose ebbe ripercussioni anche nelle zone di maggior sviluppo e di riflesso sull’intera economia nazionale. Si profilò una spirale inflazionistica dopo i primissimi anni Sessanta, dovuta non solo al primo vero aumento dei salari monetari, per altro sempre insufficienti, ma al fatto che la domanda, messa in moto dal miglioramento delle retribuzioni, si scontrò con una serie di limiti relativi all’offerta, alla inelasticità nelle dotazioni sociali e allo sviluppo sbilanciato del dopoguerra, e alle carenze dell’agricoltura e dell’ammodernamento della distribuzione commerciale. 332
Aver concentrato investimenti e manodopera, in poche zone geografiche, provocò caos urbano, dissesto nei servizi locali e nei bilanci degli enti territoriali, per la non proporzionalità tra domanda di opere e mezzi finanziari per realizzarli, comportando così una crescita abnorme nei costi intermedi, nel valore dei suoli soggetti ad edificazione e negli affitti abitativi e commerciali. L’abbandono delle campagne fece diminuire la produttività delle rese, a danno delle specializzazioni colturali e degli investimenti relativi, alimentando la spesa pubblica per il sostegno alle politiche dei prezzi agricoli.333
330
Castronovo Valerio, La storia economica, cit., p. 521.
331
Cfr. Saraceno Pasquale, Vero e falso nel dibattito meridionalistico, in “Nord e Sud”, 1975, 252, pp. 51-59; cfr. anche ibid., pp. 522-523.
332
Cfr. Napoleoni Claudio, Nota sulla congiuntura economica italiana, in Graziani (a cura di) L’economia
italiana:1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972, p. 301.
333
“Di qui la progressiva lievitazione dei prezzi e la necessità di massicce importazioni dall’estero non appena ebbe a crescere, con la domanda globale del mercato, anche quella di generi alimentari che la nostra agricoltura non era in grado di soddisfare. Senonché l’aggravio crescente della bilancia alimentare non poteva essere fronteggiato, così agevolmente come per il passato, dalle esportazioni industriali, giacché gli aumenti salariali, cadendo in una fase di stasi nel rammodernamento tecnologico, tendevano per forza di cose a deprimere il grado di competitività del settore industriale. Una volta postisi in moto questi meccanismi, era inevitabile che seguissero l’interruzione dell’equilibrio dei conti con l’estero (il deficit della bilancia dei pagamenti accusò fra il 1962 e il 1963 un passivo più che raddoppiato), con la relativa pressione sulle riserve valutarie, e un rialzo considerevole dei prezzi, data la tendenza della grande industria a ripristinare i precedenti tassi di profitto trasferendo automaticamente sui prezzi di vendita le variazioni salariali.”334
Inoltre, i capitali abbondanti, formatisi negli anni, furono investiti soprattutto nell’edilizia residenziale, che non è di per sé un settore d’investimento produttivo, e contemporaneamente aumentarono le spese pubbliche improduttive verso sussidi, agevolazioni, sgravi e sprechi fiscali.
Così, fu sperperato il risparmio e un suo più alto incremento, determinando la mancata disponibilità, per la media e piccola industria, di poter disporre di finanziamenti e capitali di rischio, che consentissero maggiore produttività ed efficienza. “Probabilmente”, analizza Claudio Napoleoni “se ciò si fosse verificato, gli aumenti salariali connessi al mutamento nelle condizioni del mercato del lavoro non avrebbero compromesso la competitività all’estero, né la possibilità di conseguire all’interno profitti analoghi a quelli generalmente prevalenti in altri paesi.”335
La crisi fu inasprita anche dalle speculazioni, sorte con la nazionalizzazione dell’industria elettrica336 e l’istituzione dell’imposta cedolare secca sugli utili delle società
334
Ivi.
335
Cfr. Napoleoni Claudio, Nota sulla congiuntura economica italiana, cit.. p. 350.
336
anonime,337 rispettivamente con il crollo dei valori in borsa, delle imprese interessate, e la fuga dei capitali all’estero.
I governi di centrosinistra, all’opposto della linea che aveva ispirato Einaudi e Pella, decisero di “mantenere inalterato e, anzi, di espandere il flusso della spesa pubblica pur bloccando la spirale inflazionistica. Questa scelta rispondeva alle stesse premesse politiche che avevano giustificato, dopo la crisi del centrismo, l’ingresso dei socialisti in un governo di coalizione con democristiani, socialdemocratici e repubblicani e alle aspettative di risanamento degli squilibri territoriali più gravi che il nuovo indirizzo aveva suscitato in larghi strati di opinione pubblica.” Programmare reddito e risorse “[…] sembrava la via più adeguata per condurre l’Italia verso quelle riforme già realizzate in Inghilterra e nell’Europa settentrionale, per evitare che il Paese, minacciato due anni prima dai tentativi di affossamento delle libertà garantite dalla Costituzione repubblicana, scivolasse alla distanza verso lo stesso destino della Spagna e di altri paesi mediterranei”338
La Malfa, affermando che l’incremento di reddito nazionale, avuto negli anni Cinquanta, non risolse gli squilibri ricordati precedentemente e che a questi si accompagnò il divario tra consumi privati e richiesta di servizi, vedeva nelle riforme, dentro un progetto di programmazione economica, lo strumento per risolverli. “La “Nota La Malfa” e il rapporto Saraceno furono seguiti dal “piano Giolitti” per il quinquennio 1965-69, dal “piano