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Politiche per l’imprenditorialità in Europa

In questa nota, dunque, si analizzano, per il periodo considerato, i punti di svolta delle politiche industriali, in ambito comunitario, volte a creare un’economia concorrenziale, ove la diffusa attività imprenditoriale accompagni la crescita e l’occupazione.

Si era al tempo in cui l’Unione Europea era lontana anni luce e in cui la Comunità Economica Europea, sebbene in procinto di nascere, non era ancora stata concepita.

Il processo di integrazione è stato imperniato, in principio, sulla collaborazione nei settori strategici dell'economia. Precisamente: carbone e acciaio.

A differenza di quanto possa sembrare, l'integrazione aveva moventi che andavano ben oltre il semplice vantaggio, che si poteva trarre dal commerciare liberamente carbone e acciaio all'interno della CECA (Comunità Economica per il Carbone e l'Acciaio). Carbone e acciaio erano stati, in precedenza, alcuni dei motivi delle tre sanguinose guerre che Francia e

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Curzon Price V., Industrial Policies in the European Community, Macmillan, London 1981, p. 189.

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Sanjaya Lall, The East Asian Miracle: Does the Bell Toll for Industrial Strategy?, in «World Development», 1994, pp. 645-654, cit. in fonte internet http://www.industrialpolicy.net/wp-content/uploads/2013/05/Labory- 2006.pdf

Germania avevano combattuto l’una contro l’altra: Guerra franco prussiana (1870); Prima Guerra Mondiale (1914); Seconda Guerra Mondiale (1939).

Comunque, con il passare del tempo, grazie ad un effetto di spillover, pur rimanendo fondamentale l’aspetto economico, si è compreso che la cooperazione potesse portare benefici su molti altri livelli. L’articolo 3, comma 1, del Trattato dell' Unione Europa, infatti, recita: “L’Unione si prefigge la pace, i suoi valori, ed il benessere dei suoi popoli”.

Non si può di certo negare che molte delle conquiste sul piano civile e sociale, oggigiorno date per assunte, quando pochissimo tempo fa erano ben lontane dall’esistere, sono in parte dovute anche all’incontro con realtà europee molto più avanzate.

Altrettanto difficile risulta il negare che, tale incontro sarebbe stato decisamente più ostico, se non ci si fosse concessi alla cooperazione.

Infine, l’enorme sviluppo economico, di cui ha goduto il nostro paese dopo la metà del secolo scorso, di sicuro è stato agevolato dalla possibilità di muoversi in un mercato libero e coordinato.

Non è certamente casuale che la costruzione europeista del secondo dopoguerra abbia preso l’avvio con la necessità di affrontare, in modo innovativo, una delle questioni che, per circa un secolo, avevano reso drammatica la storia del vecchio continente, indicando una soluzione che, per i suoi caratteri e per le conseguenze che ne sarebbero scaturite, avrebbe creato le condizioni per una fase di ripresa e di nuova crescita.

Nel 1950 le dichiarazioni di Schuman153 non solo facevano intendere la volontà, da parte della Francia, di porre fine ai tentativi di imporre alla Germania sconfitta, una drastica riduzione dell’apparato industriale, ma si avanzava la proposta di mettere l’intera produzione

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Jean-Baptiste Nicolas Robert Schuman (Clausen, 29 giugno 1886 – Scy-Chazelles, 4 settembre 1963) è stato un politico francese, ritenuto uno dei padri fondatori dell'Unione Europea. Nel 1946 Schuman tornò a essere eletto al Parlamento francese come deputato della Mosella e continuerà a rivestire tale carica fino al 1962. Venne eletto nelle fila del Movimento Repubblicano Popolare. Il 24 giugno 1946 Schuman venne nominato ministro delle finanze, poi il 24 novembre 1947 divenne Presidente del Consiglio e lo rimase fino al 26 luglio 1948. Subito dopo e fino all'8 gennaio 1953 fu ministro degli esteri. In tale veste Schuman fu un protagonista dei negoziati che si svolsero alla fine della guerra e che portarono alla creazione del Consiglio d'Europa, della NATO, della CECA... L'ultimo incarico governativo ricoperto da Schuman fu quello di ministro della giustizia, tra il 23 febbraio 1955 e il 24 gennaio 1956.

franco tedesca, di carbone e acciaio, nella disponibilità di un’autorità comune, che avrebbe agito all’interno di una organizzazione aperta alla partecipazione degli altri paesi d’Europa.

L’anno successivo, il trattato costitutivo della CECA sopprimeva, per il settore carbosiderurgico, ogni barriera doganale tra i paesi partecipanti, armonizzava i dazi verso i paesi terzi e si preoccupava di garantire l’approvvigionamento del mercato comune154.

Dopo più di cinquant’anni il mondo è cambiato, il continente europeo è unito e si sta muovendo verso un’unione che Jean Monnet, Schuman, De Gasperi e Adenauer potevano solo sognare. Partendo dalla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1951, i sei Paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) misero in comune la produzione di due materiali fondamentali, permettendo che il loro controllo fosse affidato ad un’autorità sopranazionale.

L’obiettivo era quello di integrare le industrie nazionali del carbone e dell’acciaio e di perseguire alcuni interessi nazionali di natura politica.

La prima Comunità fu un successo e per questo, nell’arco di pochi anni, gli stessi sei Paesi decisero di integrare altri settori delle loro economie. Nel 1957, la firma dei Trattati di Roma consacrò la nascita della Comunità economica europea, CEE, e della Comunità europea per l’energia atomica, EURATOM. La creazione della CEE mirava a rimuovere le barriere commerciali esistenti tra i Paesi aderenti, allo scopo di costituire un mercato comune. Nel 1967 avvenne la fusione delle istituzioni delle tre Comunità europee e a partire da quel momento, ci furono un’unica Commissione, un unico Consiglio dei ministri e un unico Parlamento europeo.

La solidarietà iniziale poggiava, dunque, su settori strategici dell’economia, ma già si prospettava l’idea di andare al di là di una semplice cooperazione economica. Il fallimento del progetto che mirava a creare una Comunità europea di difesa, frenò le proposte politiche più lungimiranti e per diversi anni l’Europa progredì solo su basi economiche.

Ritornando alla CECA, non annunciava esplicitamente interventi di politica industriale; essa era manifestazione di un accordo con cui si dava vita, per il settore

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siderurgico, ad una cornice istituzionale in cui poter costruire azioni comuni in materia di politica industriale, come l’organizzazione a livello continentale dell’industria di base, evitando cartelli distruttivi e inoltre veniva annunciato di voler dar vita ad un nuovo sviluppo economico.

Il carbone e l’acciaio ricoprivano una ruolo rilevante, dal punto di vista politico ed economico, che induceva a cercare, da parte dei paesi sottoscrittori, una crescita equilibrata all’interno di un più ampio progetto di fiducia, evitando il ripresentarsi dei conflitti economici, che in passato si erano tramutati in conflitti politici e poi nello scontro bellico.

Perciò il settore fu oggetto di una regolamentazione, che però non mise in discussione la possibilità degli Stati nazionali di attuare politiche industriali che tendessero ad orientare l’industria verso obiettivi d’interesse nazionale.

I Trattati di Roma, che istituirono la CEE, non contenevano alcuna forma sopranazionale di politica industriale: la volontà della crescita industriale si esprimeva nella realizzazione di una unione doganale e nella crescente realizzazione di un mercato comune, chiuso verso gli altri, ma fortemente connotato verso la reciproca apertura dei mercati dei paesi fondatori, per accelerare i processi di accomodamento interno e una equilibrata prestazione dei singoli paesi, rispetto agli antagonisti esterni, più efficiente155.

In questo svolgimento di riequilibrio organico, ogni Stato era in grado di agire con politiche industriali volte ad evitare squilibri, o agevolando fusioni tra imprese che, permettessero il nascere di eccellenze con caratteristiche competitive. Erano proibiti sia condotte di imprese che, separatamente o in accordo con altre, mettessero in essere azioni condizionanti la concorrenza, magari con intese tra imprese o con l’abuso di una posizione dominante, sia azioni degli Stati che dessero sostegni alle imprese, snaturando la concorrenza ed ostacolando l’azione del mercato comune.

In ogni caso furono previste rilevanti esclusioni, che entravano in vigore quando si dovevano raggiungere dimensioni tecniche efficienti, o obiettivi di natura sociale; esempio

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paradigmatico è il caso degli aiuti allo sviluppo di aree depresse, valga, nella fattispecie, l’intervento straordinario nel Mezzogiorno dal 1957 in poi; o che promuovevano progetti e obiettivi comuni, o azioni per reagire a particolari congiunture economiche o a eventi eccezionali.

Serve evidenziare che le esclusioni, contenute nel Trattato, misero a disposizione dell’Europa una fervida preparazione di disegni industriali; infatti avrebbero permesso di definire i termini e i precetti in cui delineare, da parte degli Stati, politiche industriali in specifici settori ed anche i profili e le circostanze in cui la stessa Commissione fosse in grado di predisporre propri interventi.

Infatti, le eccezioni, tracciavano “[…] gli spazi d’azione per le politiche industriali svolte dai governi nazionali a favore della propria industria, ma hanno anche esplicitato gli ambiti di un’azione della Commissione che, specialmente negli anni Settanta, ha essa stessa agito a difesa dell’industria europea, delineando modalità di azione di tipo costruttivi stico”156.

Alla fine degli anni Sessanta, le implicazioni costruttivistiche157 delle esclusioni per l’intervento statale, previste dal Trattato, permisero alle istituzioni europee di agire in alcune esplosive crisi settoriali, che si dispiegarono nell’apparato industriale, quale risultato del concludersi del ciclo di sviluppo del secondo dopoguerra e dell’avanzante mutamento della divisione internazionale del lavoro. E’ sufficiente ricordare, a tale proposito, l’innalzamento dei prezzi dei prodotti alimentari a livello mondiale, che preannunciò l’intervento nel settore dell’acciaio, ove si manifestò una crisi da sovraproduzione, la quale esplose in modo eclatante dopo il primo shock petrolifero, che contribuì al diminuire dei consumi di acciaio da parte di alcuni comparti industriali strategici.

Nel combattere questa lunga crisi, la Commissione si pose la finalità di frenare la caduta dei prezzi, che avrebbe potuto verificarsi se fosse stato dato spazio ad una

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Ibid..

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E’ bene ricordare, brevemente, che nella visione di politica industriale di tipo costruttivistico lo Stato spinge verso una monopolizzazione interna, per raggiungere dimensioni tali da competere sul mercato internazionale, onde difendere interessi nazionali

competizione senza regole, limitando una più alta espansione produttiva e facilitando la possibilità di spostamento dei lavoratori.

Dopo una prima fase di sollecitazione all’imprenditorialità, perché collaborasse nel contenimento produttivo e nella limitazione delle richieste di aiuti di Stato, dannosi per il settore, un decennio dopo la fine dell’Età d’oro, il Commissario Davignon158 metteva in atto un piano di ristrutturazione della siderurgia, che comprendeva un sistema pro quota di produzione, stabilito in accordo con le parti e reso obbligatorio: prezzi minimi definiti, dazi antidumping nei confronti di alcuni paesi esportatori, accordi bilaterali di riduzione delle importazioni e rilevanti sussidi alle imprese, che diminuissero la loro capacità produttiva.

Le ristrutturazioni degli anni Cinquanta, precedenti la fase di espansione della siderurgia europea e quelle tra gli anni Settanta e Ottanta, con le loro successive coordinazioni nelle fasi di crisi, sono ritenute i due casi più interessanti in cui una politica industriale, concordata in Europa e gestita dall’autorità sopranazionale, fu messa in condizione sia di consolidare lo sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta, sia di accompagnare il declino della fase successiva, mantenendo alta l’attenzione sui costi sociali delle ristrutturazioni e sulla dimensione territoriale della crisi del settore..

Gli aiuti europei ai settori in crisi e le politiche a favore dei processi di concentrazione e di accordi di mercato hanno determinato, però, l’eurosclerosi, cioè, quella fase in cui rallenterà il cambiamento del sistema produttivo dei paesi aderenti e si affievolirà l’impegno per costruire un mercato unico, perché i paesi si proteggeranno con barriere invisibili, ma efficaci, formate da norme e regolamentazioni tecniche, all’uopo create.

Le contraddizioni insite nella politica dei campioni nazionali, la discesa di concorrenzialità dell’industria europea, nei settori di più alta innovazione, la sottrazione di quote di mercato, il penetrare di paesi terzi esportatori sui mercati CEE, persuasero, sempre maggiormente, i paesi europei a ridare attualità alla ricerca industriale e alla collaborazione.

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Étienne Davignon (Budapest, 4 ottobre 1932) è un diplomatico, politico e dirigente d'azienda belga. È stato commissario europeo ed ha avuto un'influenza significativa sull'evoluzione dell'integrazione europea negli ultimi decenni. Dopo Davignon fu il Commissario all’industria Karl-Heinz Narjes, con un indirizzo più spiccatamente liberista, a ricondurre la siderurgia europea verso condizioni produttive e di mercato concorrenziali.

Questo avrà come frutto gli anni in cui Delors otteneva il primo mandato a presidente della Commissione, dichiarando nel Libro Bianco, del 1985, che il suo principale obiettivo stava nella creazione di una situazione di piena libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone “entro il 1992”, fissando così una data ed una agenda, scritte nel libro della Commissione del 1985 ed in linea con la tradizione monnettiana159 dell’Europa.

Da lì in poi, i paesi membri lavoreranno per l’ultimazione del mercato interno europeo, prevedendo l’abbattimento delle barriere rimaste alla libera circolazione di merci, persone, capitali dovute alle norme dei singoli Stati nazionali.

Un programma, quindi, che individuava un obiettivo in grado di associare interessi nazionali diversi e di spingere, di nuovo avanti, l’integrazione bloccata.

• Finanziamenti all'esportazione e sfida internazionale delle imprese italiane Il credito all’esportazione è l’insieme di accordi finanziari, in genere inclusivi della parte assicurativa, che nelle negoziazioni internazionali permette di saldare l’acquisto di beni d’investimento ed i relativi servizi, rateizzandone l’importo in diversi anni.

Costituisce un importante elemento per l’imprenditorialità perché, considerati i costi di acquisto molto elevati, la capacità di stare sul mercato si basa, non solo sui prezzi di vendita, ma anche sulle condizioni offerte per reperire i capitali di finanziamento.

È così oggi ed è stato così anche nei primi anni Cinquanta, allorquando questa forma di prestito fu inserita nella legislazione italiana.

Le considerazioni fatte su Mediobanca dimostrano quanto il credito abbia importanza nella crescita di un paese, sia per le influenze sull’agire imprenditoriale, sia per i risvolti che esse hanno dal punto di vista etico politico.

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Jean Monnet, l’alto funzionario del ministero degli esteri che ideò ed estese il piano Schumann. Dietro l’approccio monnettiano , che sin da allora ha diretto il processo di integrazione, era la sfiducia nelle opinioni pubbliche nazionali e nei governi dei Paesi membri; era lo scetticismo del burocrate sulla possibilità di un’adesione spontanea dei cittadini d’Europa all’unione politica, fino a spingerlo a cercare un processo che si sarebbe alimentato da sé, un processo che avrebbe reso inevitabile l’unificazione del continente lungo una linea che, di fatto, si sottraeva alla politica.

.Il primo provvedimento funzionale sul credito all'esportazione in Italia fu la legge n. 955, approvata alla fine del 1953160. Confindustria, sotto la presidenza di Angelo Costa, dal 1950 chiedeva una politica di appoggio all’export, perché diversi paesi europei l’avevano adottata: la Svezia nel 1950, la Gran Bretagna nel 1951, la Francia nel 1952 e la Germania alcuni mesi prima dell’Italia. La legge disponeva due mezzi, uno di tipo finanziario e l’altro assicurativo. Nel primo caso si concedevano agli acquirenti rateizzazioni fino a quattro anni, a tassi d’interesse minimo, con un metodo di finanziamento e rifinanziamento: i crediti erano scontati dalle banche di credito mobiliare (IMI, Mediobanca, Efibanca) con liquidità acquisita sul mercato; l’operazione di risconto e la seguente agevolazione erano di competenza del MedioCredito Centrale161. Il secondo strumento consisteva in un’assicurazione per i rischi connessi all’esportazione, cioè quelli di tipo politico, come guerra o rivoluzione, che erano in grado di cancellare le decisioni di natura commerciale, assunte dal precedente governo, nonché quei rischi connessi ad avversità naturali e incertezze valutarie.

La normativa era indirizzata massimamente al settore meccanico, per le sole esportazioni di forniture speciali: forniture di grande entità, come una centrale elettrica, un grande laminatoio, una nave, o forniture meno grandi, ma destinate alla realizzazione di un medesimo fine, come un insieme di trattori per un ente che poteva godere delle agevolazioni. I mercati sarebbero stati i paesi in via di sviluppo, privi dei capitali necessari all’acquisto di beni d’investimento.

I soggetti coinvolti erano tre: le industrie esportatrici, soprattutto quelle di grandi dimensioni; gli istituti di credito mobiliare, cioè quelli specializzati nel finanziamento a medio

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Legge 22 dicembre 1953, n. 955, venne pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 299 del 31 dicembre 1953. “Disposizioni sull'assicurazione dei crediti all'esportazione, soggetti a rischi speciali e sul finanziamento dei crediti a medio termine derivanti da esportazioni relative a forniture speciali”.

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MedioCredito Centrale nasce nel 1952, istituito con Legge 949/52 emanata dal Governo De Gasperi VII,. E’ ente pubblico denominato Istituto Centrale di Credito a Medio Termine alle Medie e Piccole Imprese diventando poi Istituto Centrale per il Credito a Medio Termine nel 1962 e infine Mediocredito centrale. Guido Carli lo dirigerà fino al 1956. Compito iniziale assegnatoli fu il finanziamento a tasso agevolato degli istituti regionali di mediocredito e degli altri istituti di credito a medio lungo termine designati dal Tesoro, per operazioni di credito a favore delle medie e piccole imprese industriali e commerciali. Successivamente ha assunto sempre più funzioni di finanziamento a medio termine dei crediti derivanti da esportazioni, concernenti forniture speciali agli interventi a favore di imprese e privati, danneggiati da pubbliche calamità.

e lungo termine all’industria; lo Stato162. Quest’ultimo provvedeva a finanziare l’intervento agevolativo per quel che concerneva il finanziamento, predisponendo le liquidità per il rifinanziamento, che erano gestite da Mediocredito, e curava per mezzo dell’Istituto Nazionale per le Assicurazioni (INA), l’assicurazione contro i rischi speciali. L’INA, così, tutelava gli imprenditori esportatori, riducendone il rischio per eventuali ostacoli che si fossero presentati, in quanto i finanziamenti non beneficiavano della protezione totale del rischio e rimaneva sempre importante la valutazione delle banche. Il margine di rischio assunto, tuttavia, era contenuto.

Lo Stato, dunque, aveva un ruolo preponderante, che sarebbe aumentato nel tempo. La facilitazione prevista nella legge era basilare, in quanto nel commercio internazionale di beni d’investimento la competitività si basava e si basa, in dimensione non secondaria, sulle condizioni economiche concesse per i pagamenti dilazionati. E’, inoltre, significativo che, nel finanziamento all'export non si verificarono, negli anni seguenti, le distorsioni avvenute in altri segmenti del credito agevolato, in quanto il credito non si trasformò mai in pure misure assistenziali. Lo scopo era, infatti, di ampliare la serie dei servizi bancari offerti alle imprese, favorendone la capacità di competere sui mercati163. Conferma a ciò è rintracciabile nell’operato di Enrico Cuccia, che non concesse spazio al credito agevolato nella sua azienda, ma che fece eccezione, a tale indirizzo di gestione, proprio con il credito all’esportazione, che nel 1960 rappresentava per Mediobanca il 16 per cento dei crediti concessi e nel 1966 arrivò al 36,7 per cento.164 Il Governo italiano promosse questo strumento per esigenze congiunturali, come la volontà di inserirsi di nuovo, nel medio e lungo periodo, nell’economia internazionale e nella prospettiva europea.

Dopo che il ministro Ugo La Malfa liberalizzò le importazioni, alla fine del 1951, fra i motivi di breve periodo, che resero urgente la normativa in favore dell’export, ci fu il cattivo

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Cfr. De Cecco Marcello, Ferri Giovanni, Le banche d’affari in Italia, Il Mulino, Bologna 1996.

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Cfr. Sbrana Filippo, Portare l'Italia nel mondo. L'IMI e il credito all'esportazione 1950-1991, Il Mulino, Bologna 2006, fonte internet http://www.sissco.it/index.php?id=1293&tx_wfqbe_pi1[idrecensione]=3077

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Piluso Giandomenico, Mediobanca. Tra regole e mercato, Egea, Milano 2005, pp. 74-75, fonte internet http://www.sissco.it/index.php?id=1231&tx_wfqbe_pi1[idsocio]=1136

andamento della bilancia commerciale, causato dalle difficoltà concorrenziali del nostro mercato interno e dalla contestuale decisione dei principali mercati di sbocco per le merci italiane, Gran Bretagna e Francia, di misure restrittive nel loro import.

Il Governo, quindi, lottò tra lo scegliere se imporre nuove limitazioni alle importazioni, andando contro il processo d’integrazione europea, o sostenere le esportazioni. Fu preferita la seconda strada proprio con la legge 955.

D’altronde la legge 955 completava la linea italiana del dopo guerra in politica estera, mirata a reinserire il Paese nello scenario economico internazionale. Scegliere di dare aiuto ai propri esportatori, concedendo il credito agevolato, poteva apparire un danno per il mercato interno, ma tale aiuto non fu, in realtà, diverso da quello dei restanti paesi europei. Infatti,