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La Chiesa cattolica statunitense tra Benedetto XV e Pio XI: un passaggio tormentato

Una transizione difficile (1920-1932)

2. La Chiesa cattolica statunitense tra Benedetto XV e Pio XI: un passaggio tormentato

Nel maggio del 1922, presso la First Presbyterian Church di New York, Harry Emerson Fosdick, pronunciò un provocatorio sermone intitolato Shall the Fundamentalists Win? Figura prominente del protestantesimo liberale di inizi Novecento, egli accusò le frange più estremiste del movimento fondamentalista statunitense di aver determinato, con il loro messaggio di odio ed intolleranza, l’allontanamento di molti fedeli “moderati” dal credo cristiano42. Un giudizio analogo circa le conseguenze del radicalismo fondamentalista è stato espresso da Eldon Ernst nella sua storia dell’Interchurch World Movement, dove egli fa notare come, nel primo dopoguerra, il «crusading Protestantism was losing its traditional hold on the American people as a whole on the social and cultural tone of the nation»43.

In effetti, benché avesse dato voce a sentimenti esclusivisti e xenofobi ben radicati nella cultura wasp Usa, ottenendo, grazie all’avallo del potere politico, successi notevoli sul piano legislativo, il nativismo post-bellico non impedì che le forze definite come “aliene” ed “anti- americane” si sviluppassero. Al contrario, fu proprio l’istinto di sopravvivenza, la necessità, cioè, di contrastare l’ideologia anti-alienista del tempo e le relative pratiche di marginalizzazione politica e sociale, che contribuì a cementare la compattezza di tali gruppi a cui l’etichetta di “indesiderati” stava decisamente stretta. Con un dinamismo ed una spinta al rinnovamento spesso notevoli, essi, in sostanza, iniziarono a riflettere sul proprio ruolo all’interno della turbolenta società statunitense degli anni Venti rivendicando la possibilità di esprimere a pieno le rispettive specificità culturali e religiose. Bersaglio prediletto dell’invettiva nativista, la “componente” cattolica fu, con ogni probabilità, quella maggiormente interessata da tale fenomeno di cambiamento.

Al momento dell’ingresso del Paese nel Primo conflitto mondiale, la Chiesa cattolica statunitense non aveva una alcuna struttura organizzativa di livello nazionale. L’ultimo

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Su cui, cfr. R.M. Miller, Harry Emerson Fosdick. Preacher, Pastor, Prophet, Oxford University Press, Oxford-New York, 1985, pp. 112-49.

43 E.G. Ernst, Moment of Truth for Protestant America. Interchurch Campaigns Following World War One,

American Academy of Religion, Missoula, 1972, pp. 170-1. Su tali aspetti si veda pure utilmente R.T. Handy, A History of the Churches in the United States and Canada, Oxford University Press, Oxford-New York, 1977, pp. 381-99.

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Concilio Plenario si era tenuto, come detto, a Baltimora nel 1884 e, da allora, complice la promulgazione della lettera apostolica di condanna dell’americanismo, Testem Benevolentiae (1899), le assemblee annuali dei vescovi – peraltro dal valore meramente consultivo – avevano rappresentato l’unico strumento di azione unitaria. Le problematiche connesse alla guerra resero, tuttavia, necessario un potenziamento dei meccanismi di raccordo tra la gerarchia ecclesiastica e le diverse organizzazioni cattoliche impegnate sia in patria, sia al fronte. Col consenso dei cardinali Gibbons, O’Connell e Farley, padre John J. Burke, editore del periodico paulista “The Catholic World” e fondatore della Chaplain’s Aid Association, convocò a Washington un incontro tra le società cattoliche e chiese a tutte le diocesi di inviare propri rappresentanti44. L’11 e il 12 agosto 1917, quattro mesi dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, si riunirono nella capitale federale, presso la Catholic University of America, ben 115 delegati di 68 sedi diocesane e 27 organizzazioni. Al termine dei lavori, Burke, coadiuvato da un comitato esecutivo composto da esponenti di ciascuna provincia ecclesiastica, dai Knights of Columbus e dalla American Federation of Catholic Societies, proclamò la costituzione del National Catholic War Council. Esso nasceva, argomenta Joseph McShane, «to study, coordinate, unify and put in operation all Catholic activities incidental to the war»45. Tra novembre 1917 e gennaio dell’anno seguente, la bozza programmatica elaborata a Washington ricevette l’approvazione definitiva dell’episcopato, che, comunque, confermò la prassi del proprio incontro annuale. Al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività, il War Council fu posto sotto la supervisione di un consiglio amministrativo di vescovi presieduto dal Peter J. Muldoon di Rockford, a cui furono affiancati Joseph Schrembs di Toledo, William Russell di Charleston e Patrick J. Hayes, ausliare del cardinal Farley di New York nonché supervisore ecclesiastico per i cappellani militari. A John Burke, subito attivissimo nell’allacciare contatti col Dipartimento della Guerra e con le altre agenzie protestanti ed ebree, fu affidata, invece, la delicata gestione del Committee on Special War Activities, dal quale dipendevano ben sette sotto-commissioni46.

44 Gli altri organizzatori del meeting furono William Kerby, sociologo della Catholic University of America e

fondatore della National Conference of Catholic Charities, Charles P. Neill, membro della Commissione governativa per le attività dei campi di addestramento ed ex commissario del Dipartimento del Commercio e del Lavoro, e il paulista Lewis O’Hern, responsabile per le nomine dei cappellani militari. Cfr. J. Hennesey, American Catholics cit., p. 226.

45 J. McShane, “Sufficiently Radical” cit., p. 72.

46 Burke divenne responsabile permanente del Comitato dei Sei, un organo consultivo interconfessionale istituito

dal Segretario alla Guerra, Newton D. Baker. Le sotto-commissioni che egli coordinava in qualità di direttore delle Special War Activities erano: attività maschili, femminili, cappellani, interessi cattolici, archivio storico, ricostruzione e finanza. Su cui, cfr. J.B. Sheerin, Never Look Back. The Career and Concerns of John J. Burke, Paulist Press, New York, 1975, pp. 36-43. Gli sforzi a sostegno della causa bellica da parte delle diverse confessioni religiose presenti negli Usa sono trattati in dettaglio da J.F. Piper, The American Churches in World War I, Ohio University Press, Athens, 1985.

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Durante la guerra, il successo del National Catholic War Council – definito da James Hennesey come il principale “salto di qualità” compiuto dalla Chiesa Cattolica negli Usa – fu straordinario. L’organizzazione, infatti, contribuì in modo sostanzioso alla più importante raccolta di fondi, la “United War Work”, promossa in quel periodo; finanziò gli sforzi dei Knights of Columbus, il cui ruolo era già stato decisivo nella convocazione dell’assemblea costitutiva di agosto, e che, attraverso le attività ricreative, la diffusione di libri e il sostegno psicologico ai soldati, costituivano la presenza cattolica più significativa tanto nei campi militari disseminati nel Paese, quanto nel contingente impegnato in Europa; patrocinò, inoltre, l’istituzione della Scuola Cattolica per i Servizi Sociali con sede a Washington e i cui allievi, una volta cessate le ostilità, furono mandati oltre Oceano per contribuire alla ricostruzione del Vecchio Continente47. Nel complesso, nota argutamente Douglas Slawson, sia il clero, sia il laicato cattolico uscirono dall’esperienza bellica persuasi del fatto che l’unità d’intenti fosse la propria forza e che, viceversa, il protestantesimo con le sue molteplici varianti non potesse garantire alla nazione un’appropriata guida morale e spirituale. Con ottimismo forse eccessivo, essi, inoltre, interpretarono l’esperienza della collaborazione interconfessionale di quegli anni come l’ottenimento del tanto agognato riconoscimento del proprio peso specifico all’interno dell’intricato mosaico religioso nazionale48.

La Grande guerra, quindi, fu una sorta di laboratorio per il cattolicismo negli Stati Uniti: l’occasione per la numerosa ma costantemente osteggiata comunità fedele alla Chiesa di Roma di sperimentare le proprie potenzialità e di mostrarsi in grado di contribuire al bene del Paese. Per lo meno, molti dei promotori del War Council erano convinti che questo fosse il positivo lascito del conflitto. Tant’è che Burke e Muldoon, nell’ottica di una più efficace promozione degli interessi cattolici in tempo di pace, pensarono di rendere permanente l’organizzazione nazionale il cui compito, per come era stata concepita, si sarebbe invece esaurito una volta calato il sipario sulla guerra49. Tale ipotesi, tuttavia, incontrò subito forti resistenze finendo col riacutizzare antichi contrasti all’interno della gerarchia ecclesiastica già emersi a Baltimora nel 1884 e mai del tutto risolti nei decenni successivi. Benché fossero consapevoli del fatto che, rafforzando la propria presenza nella capitale, la Chiesa avrebbe

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J. Hennesey, American Catholics cit., p. 227 sottolinea come per la campagna United War Work il Council cattolico avesse raccolto oltre 32 milioni di dollari sul totale di circa 188 milioni. Per un’analisi approfondita del ruolo dei Knights of Columbus nell’assemblea costitutiva dell’11-12 agosto 1917 e nelle attività di supporto ai militari durante la guerra, si veda l’insuperato studio di C. Kauffman, Faith and Fraternalism. The History of the Knights of Columbus, 1882-1982, Harper & Row, New York, 1982, pp. 190-227.

48 Cfr. D.J. Slawson, The Foundation and First Decade of the National Catholic Welfare Council, Catholic

University of America Press, Washington, D.C., 1992, pp. 45-6.

49 Le ragioni della trasformazione del Catholic War Council in un’organizzazione permanente sono analizzate da

E. McKeown, The National Bishops’ Conference cit., pp. 565-75 e J.T. Ellis, The Life of James Cardinal Gibbons cit., Vol. II, pp. 293-7.

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potuto trarre notevoli vantaggi nel senso dell’esercizio di una pressione maggiore sulle decisioni del governo federale, molti vescovi temevano che la nuova struttura sponsorizzata da Burke potesse in qualche modo erodere la propria autorità a livello locale e, nondimeno, che, a lungo andare, questa divenisse uno strumento nelle mani del Vaticano per stringere ulteriormente il controllo su un episcopato la cui tradizionale vocazione autonomistica aveva sempre destato preoccupazioni a Roma50. Aspetti, questi, aspramente dibattuti a partire dalla celebrazione del giubileo d’oro di James Gibbons, svoltasi presso la Catholic University di Washington il 20 febbraio 1919.

Alla cerimonia Benedetto XV inviò come suo rappresentante l’arcivescovo Bonaventura Cerretti, Segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari. L’indubbia rilevanza dell’evento e il fatto che Gibbons fosse l’ultimo partecipante al Concilio Vaticano I ancora in vita non furono, però, le uniche ragioni per una scelta tanto prestigiosa. Da accorto conoscitore delle dinamiche internazionali, infatti, il pontefice – così come, d’altronde, lo stesso cardinale Gasparri – era ben consapevole che solo gli Stati Uniti disponessero delle risorse necessarie per aiutare le popolazioni stremate dalla guerra. Oltre a rispondere ad esigenze di carattere umanitario, sulle quali, com’è noto si concentrò l’attenzione di Benedetto XV nell’ultima parte del suo pontificato, il sostegno economico statunitense avrebbe contribuito a stemperare le forti tensioni sociali presenti nei singoli Stati europei, scongiurando, così, il pericolo che le idee di rivoluzione trovassero terreno fertile per diffondersi sulla scorta del caso russo51. Già all’indomani della resa degli Imperi Centrali, infatti, la Segreteria di Stato vaticana aveva chiesto, in un cifrato del 22 novembre 1918, al Delegato Apostolico di Washington, Bonzano, di «intervenire presso [i] Cardinali Americani per [il] vettovagliamento [della] Germania» al fine di «evitare [la] morte per fame e scongiurare [il] trionfo sempre più minaccioso [del] bolscevismo»52. Anche nelle settimane successive, la mobilitazione della Chiesa statunitense fu, in tal senso, massiccia e, con ogni probabilità, lo stesso papa rivolse analoghe esortazioni direttamente a Wilson nel fugace incontro in Vaticano del gennaio 1919, subito prima che la Conferenza di Versailles aprisse i battenti senza che la Santa Sede potesse prendervi parte. Il giubileo d’oro di Gibbons divenne, quindi, l’occasione per discutere sia dei problemi interni alla Chiesa statunitense, sia del ruolo che questa avrebbe dovuto svolgere a sostegno delle strategie di pace poste in essere dalla

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Si vedano, al riguardo, le considerazioni di T. McAvoy, A History of the Catholic Church cit., p. 370 e C.J. Kari, Public Witness. The Pastoral Letters of the American Catholic Bishops, Liturgical Press, Collegeville, 2004, pp. 35-6.

51 Un’analisi documentata e ricca di spunti di riflessione sulla strategia umanitaria di Benedetto XV è proposta

da J.F. Pollard, The Unknown Pope cit., in particolare pp. 112-39.

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diplomazia vaticana. In entrambi i casi, gli appelli di Cerretti all’unità della gerarchia ecclesiastica diedero lo slancio decisivo affinché il progetto di ristrutturazione del Catholic War Council potesse concretizzarsi53.

Sapendo che né Bonzano, né, tantomeno, Gasparri erano soddisfatti di come aveva gestito i rapporti con l’amministrazione Wilson in quegli anni, Gibbons non esitò a dare seguito alle richieste dell’arcivescovo inviato a Washington dalla Santa Sede. A margine delle celebrazioni giubilari, egli, in qualità di decano dell’episcopato, nominò un comitato composto da tre arcivescovi e quattro vescovi – tra cui Muldoon, Schrembs e Russell – i quali, l’indomani, sottoposero al giudizio degli altri prelati una prima bozza di progetto che prevedeva di affiancare agli incontri annuali dell’intera gerarchia un organo permanente scelto dai vescovi con funzioni di coordinamento e supervisione delle attività cattoliche nel lasso temporale tra i diversi meeting generali. Il 1˚ maggio 1919, dopo che ebbe ricevuto l’approvazione del progetto da Benedetto XV in aprile, Gibbons inviò una lettera ai vescovi in cui ribadiva che la nuova struttura organizzativa, «with adequate authority and the aid of sub- committees would accomplish more than any individual, however able or willing he might be»; la Chiesa negli Usa – aggiunse – «has been suffering from a lack of a unified force»54 e, per questo, necessitava di maggiore coesione per avvicinarsi ai luoghi del potere politico, onde prevenire l’approvazione di provvedimenti legislativi ostili alla comunità cattolica55. Il 24 settembre, 92 dei 101 vescovi statunitensi presero parte alla riunione che ebbe luogo ancora una volta presso l’Università Cattolica della capitale. In quella sede si discusse l’approvazione definitiva del piano elaborato a febbraio dal War Council con l’avallo di Gibbons e del pontefice, e poi perfezionato nei mesi seguenti. La proposta presentata da Muldoon prevedeva l’istituzione di un comitato esecutivo composto da sette prelati col compito di supervisionare cinque dipartimenti di carattere permanente (istruzione, azione sociale, laicato, stampa, missioni interne ed estere), che corrispondevano, in sostanza, ai principali ambiti d’interesse cattolico. Particolarmente dure furono le proteste sollevate dal vescovo di Brooklyn, Charles McDonnell, il quale – col sostegno del cardinale O’Connell di Boston e dell’arcivescovo Messmer di Milwaukee – tacciò il progetto di violazione del codice di diritto canonico entrato in vigore solo l’anno prima ed arrivò addirittura ad accusare i suoi promotori di aver contraffatto la lettera di approvazione del papa. Il fronte dei “favorevoli”, composto dall’arcivescovo Edward J. Hanna di San Francisco, John Glennon di St. Louis e da

53 Cfr. G.P. Fogarty, The Vatican and the American Hierarchy cit., pp. 214-5.

54 Archivio della Catholic University of America, Archivio della National Catholic Welfare Conference (d’ora in

poi ACUA, ANCWC), National Catholic War Council Files, box 12, fold. 39, Gibbons ai vescovi statunitensi, Baltimora 1 maggio 1919.

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alcune delle figure emergenti della gerarchia come George Mundelein di Chicago e James Keane di Dubuque, riuscì, tuttavia, a prevalere. Pur senza aver trovato un accordo sugli aspetti relativi alla gestione finanziaria, l’assemblea dei vescovi sancì, nel settembre 1919, la nascita del National Catholic Welfare Council. John Burke fu nominato Segretario generale, mentre a Edward Hanna fu affidata la direzione del comitato esecutivo56.

A ben vedere, quello che accompagnò l’istituzione del Welfare Council e che ne avrebbe poi segnato i primi anni di vita non fu semplicemente il confronto intestino alla gerarchia ecclesiastica tra due modi diversi di intendere quali fossero le priorità per la Chiesa statunitense nel turbolento scenario post-bellico. Si trattò, invero, del riflesso a livello locale dell’acuirsi di un ben più profondo conflitto ai vertici del potere vaticano tra alcuni prominenti cardinali come Merry del Val, De Lai, Van Rossum e Pompilj, che di Benedetto XV erano stati i principali detrattori sin dal controverso conclave del 1914, e il Segretario di Stato, Gasparri, infaticabile “braccio destro” del pontefice.

Evento cruciale tanto per la storia del cattolicesimo statunitense, quanto per i rapporti tra la Chiesa d’oltreoceano e la Santa Sede, la morte di James Gibbons, avvenuta il 24 marzo 1921, mise a dura prova la sopravvivenza del National Catholic Welfare Council. Ultimo arcivescovo di Baltimora – la più antica sede vescovile negli Usa – ad esercitare de facto la funzione di primate, egli era stato il principale interlocutore del Vaticano già prima di essere creato cardinale (1886); durante la Grande guerra, nonostante una discutibile linea di condotta e un rapporto non sempre idilliaco col Delegato Apostolico Bonzano, Benedetto XV e Gasparri avevano riposto in lui le speranze di far ravvedere Wilson in merito alla “questione romana”; grazie all’abilità gestionale e alle doti di persuasione di cui era solito dare grandi dimostrazioni – e che solo lo sfrenato anti-papismo wilsoniano aveva vanificato – fece si, inoltre, che il riassetto organizzativo inizialmente caldeggiato da Roma e da una parte consistente del clero locale si realizzasse in tempi rapidi. In sintesi, con le parole dello storico Gerald P. Fogarty, per circa mezzo secolo «the American Church had virtually meant Cardinal Gibbons»57.

Dei due cardinali rimasti dopo la scomparsa di Gibbons, la leadership sembrava dovesse passare a William Henry O’Connell di Boston, che, oltre ad essere il più anziano, era anche l’unico intenzionato a ricoprire tale posizione. L’altro porporato, Dennis Dougherty di

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Gli altri membri del comitato esecutivo erano: gli arcivescovi Dennis Dougherty di Philadelphia e Austin Dowling di St. Paul, i vescovi Peter J. Muldoon di Rockford, J. Regis Canevin di Pittsburgh, Joseph Schrembs trasferito da Toledo a Cleveland e William Russell di Charleston. Cfr. G.P. Fogarty, The Vatican and the American Hierarchy cit., p. 216; E. McKeown, The National Bishops’ Conference cit., pp. 579-80 e J.T. Ellis, The Life of James Cardinal Gibbons cit., Vol. II, pp. 298-308.

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Philadelphia, pagava, infatti, lo scotto di essere poco conosciuto al di fuori della sua popolosa arcidiocesi; mentre tra gli arcivescovi, lo stesso Patrick Hayes della prestigiosa sede di New York – a cui, non a caso, venne attribuito l’epiteto di “Cardinal of Charity” – aveva interessi di tipo esclusivamente pastorale58. Dapprima uomo di punta nella strategia di “romanizzazione” dell’episcopato voluta da Pio X, poi, progressivamente ridimensionato da Benedetto XV, O’Connell, invece, non aveva mai fatto mistero della sua predilezione per la linea conservatrice di papa Sarto, di cui aveva condiviso a pieno l’anti-modernismo e la rigida impostazione dottrinale59. Donde la strenue opposizione, durante l’assemblea straordinaria dell’episcopato nel settembre 1919, all’istituzione del Welfare Council, che giudicava addirittura come una sorta di deriva congregazionalista, e, successivamente alla morte di Gibbons, l’impegno concreto affinché la stessa organizzazione venisse smantellata.

O’Connell era ben consapevole che per raggiungere tale obiettivo occorreva il sostegno della Santa Sede, ma non si faceva illusioni al riguardo. «There is all around about an intangible something which would seem to emanate from too much politics, diplomacy and intrigue – too much mingling with affairs which don’t concern us […] How different in the wonderful days of Pio X [sic] when the chief concern was to God and when cheap politics and free- masons were kept in their place»60: così il cardinale di Boston descrisse la situazione della Chiesa statunitense all’amico di vecchia data, Merry del Val, nell’ottobre del 1921. Parole amare, le sue, evidentemente dettate dal fatto di aver atteso invano per mesi che le indiscrezioni circa un possibile ripensamento del pontefice in merito al consenso accordato ai promotori del Welfare Council si concretizzassero. Eppure, l’occasione per ritornare ai tanto agognati “fasti” di Pio X si sarebbe presentata di lì a poco. Il 22 gennaio 1922, infatti, Benedetto XV morì.

Il Sacro Collegio Cardinalizio si riunì giovedi 2 febbraio per eleggere il nuovo pontefice. Fu un conclave tormentato e “povero”61, sicuramente il più lungo di tutto il Novecento, a riprova

58 Sulle figure di Dennis Dougherty e Patrick Hayes si rimanda a J.J. Walsh, Our American Cardinals cit., pp.

223-48, 293-342.

59 L’operato di O’Connell durante il pontificato di Pio X è puntualmente analizzato da J.P. Gaffey, The

Changing of Guard. The Rise of Cardinal O’Connell of Boston, in “The Catholic Historical Review”, n. 59, 1973, pp. 225-40 e D.J. Slawson, Ambition and Arrogance. Cardinal William O’Connell of Boston and the American Catholic Church, Cobalt, San Diego, 2007, in particolare pp. 16-52.

60 La lettera di O’Connell a Merry del Val, conservata presso l’Archivio dell’Arcidiocesi di Boston, M-850, è

riportata in G.P. Fogarty, The Vatican and the American Hierarchy cit., pp. 218-9, che la fa risalire all’incirca al 24 ottobre 1921.

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P. Gasparri, Memorie, Vol. II: L’elezione di Pio XI, Capo XLII, par. 585-91, sotto il titolo Conclave dopo la morte di Benedetto XV, in Il cardinale Gasparri cit., pp. 250-1, dove si legge che, recatosi ad aprire i tiratori in