• Non ci sono risultati.

La virtù del pragmatismo e la forza dell’esempio

Una missione comune (1933-1940)

3. La virtù del pragmatismo e la forza dell’esempio

Durante gli anni Venti la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica statunitense giudicò la partecipazione degli Usa al Primo conflitto mondiale come un errore spaventoso, una decisione che – nota Michael Parrish – «aveva prodotto soltanto morti, disgregazione economica, l’erosione delle libertà civili del popolo americano e un accordo di pace forzato e vendicativo in Europa»90. Cavalcando l’onda della frustrazione per gli esiti della Conferenza di pace di Versailles, le amministrazioni repubblicane del dopoguerra avevano frettolosamente accantonato i propositi idealisti e palingenetici del wilsonismo sostituendoli con un approccio decisamente più cauto e selettivo, che svincolava il Paese dagli oneri derivanti da alleanze permanenti con gli ex alleati europei. Tali posizioni di più o meno marcata ostilità – o, quantomeno, di diffidenza – nei confronti del Vecchio Continente si riproposero con forza a seguito della Grande Crisi dell’ottobre 1929. Con essa, infatti, vennero drammaticamente a galla tutte le fragilità e le asimmetrie del sistema di relazioni internazionali post-bellico, rendendo sempre più problematica un’azione congiunta tra l’Europa e gli Stati Uniti, e, soprattutto, determinando – evidenzia Mario Del Pero – «l’emergere di un regionalismo economico e monetario che avrebbe dominato la seconda fase del periodo tra le due guerre»91. Non derogando dal principio della bilancia commerciale in attivo, fondato su una politica rigidamente protezionistica, e dimostrandosi inflessibile nella richiesta di pagamento dei debiti contratti durante il conflitto e poi solo parzialmente rinegoziati, la linea dell’amministrazione Hoover fu la dimostrazione di come per Washington

90 M.E. Parrish, L’età dell’ansia cit., p. 512.

91 M. Del Pero, Libertà e impero cit., p. 246 e cfr. pure utilmente C.P. Kindleberger, The World in Depression,

1929-1939, California University Press, Berkeley, 1986 (A. Lane, London, 19731), pp. 95-196 e, in italiano, G. Mammarella, Destini incrociati cit., pp. 59-61.

162

le esigenze interne non lasciassero più margini per l’esercizio di quel ruolo di cardine degli equilibri economici complessivi che comunque la vicenda bellica le aveva di fatto attribuito92. Sia nel corso della campagna elettorale del 1932, sia una volta arrivato alla Casa Bianca, Franklin Delano Roosevelt si dimostrò ricettivo verso tali istanze isolazioniste. Non voleva che il suo passato wilsoniano e internazionalista finisse coll’indebolire il consenso che aveva faticosamente conquistato nella corsa alla poltrona presidenziale e, per non ripetere gli stessi errori di Wilson, che non aveva tenuto conto dell’opinione pubblica e del contesto politico interno entro cui le decisioni venivano prese, egli attribuì sin dal principio un’importanza maggiore alla ripresa economica e agli interessi nazionali rispetto alla cooperazione internazionale. Pur deplorando gli eccessi retorici di Gerald Nye e degli altri isolazionisti militanti nel Congresso, Roosevelt si ritrovò, quindi, a condurre una politica estera dalla connotazione marcatamente nazionalistica per buona parte dei suoi due primi mandati. Com’è ben noto, infatti, egli fece dapprima in modo che l’iter legislativo per l’applicazione delle disposizioni della Conferenza sul disarmo di Ginevra venisse insabbiato per non scontrarsi col “potente” Foreign Relations Committee del Senato; poi inferse un vero e proprio colpo di grazia al principio della stabilizzazione monetaria internazionale quando criticò duramente le delegazioni presenti alla World Monetary and Economic Conference di Londra; ed infine, tra il 1935 e il 1937, dopo che il Congresso aveva nuovamente bocciato la partecipazione degli Usa alla Corte mondiale, ratificò i tre Neutrality Acts, che, come si disse all’epoca, avrebbero dovuto rendere non lucrativa la guerra, ma che, al contempo, avrebbero di fatto impedito al Presidente di venire in soccorso alle vittime di una aggressione manifesta93.

Al pari di milioni di loro connazionali, i cittadini statunitensi di fede cattolica condivisero largamente l’iniziale orientamento di Roosevelt in politica estera94. In alcuni casi – come il riconoscimento diplomatico dell’Unione Sovietica e l’atteggiamento di Washington verso la recrudescenza dell’anticlericalismo messicano –, che in parte derogavano ai dettami dell’isolazionismo, tale sostegno fu tutt’altro che immediato, ma finì col determinare una importante convergenza tra l’amministrazione, la Chiesa cattolica statunitense e la stessa Sede

92

Per un approfondimento su questi aspetti cfr., tra gli altri, R.H. Ferrell, American Diplomacy in Great Depression. Hoover-Stimson Foreign Policy, 1929-1933, Yale University Press, New Haven, 1957 e J.H. Wilson, American Business and Foreign Policy, 1920-1933, Kentucky University Press, Lexington, 1971, pp. 120-3.

93

Tra le diverse ricostruzioni dei rapporti degli Usa coll’estero negli anni Trenta, si vedano su tutti W.S. Cole, Roosevelt and the Isolationists, 1932-1945, Nebraska University Press, Lincoln, 1983, pp. 65-208 e R. Dallek, Franklin D. Roosevelt and American Foreign Policy, Oxford University Press, Oxford-New York, 19952 (19791), pp. 23-170.

94

Sulle ragioni profonde dell’isolazionismo dei cattolici Usa durante gli anni Trenta cfr. G.Q. Flynn, Roosevelt and Romanism cit., pp. 3-28.

163

Apostolica sul tema della libertà religiosa e dell’approccio alle problematiche latinoamericane.

Divenuta una delle principali preoccupazioni della Chiesa cattolica sin dalla rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, la questione della possibile penetrazione del comunismo negli Stati Uniti si era presentata con insistenza già all’indomani del Primo conflitto mondiale, durante il cosiddetto biennio di Terrore rosso (1919-’20). Con la Grande Crisi di fine anni Venti-inizio anni Trenta, essa ritornò prepotentemente alla ribalta95, divenendo uno dei principali argomenti di discussione anche tra le autorità vaticane e la rappresentanza pontificia di Washington. In una lettera del 14 aprile 1932, il Segretario di Stato di Pio XI, Eugenio Pacelli, rivolgendosi al Delegato Apostolico, Pietro Fumasoni Biondi, scrisse: «la propaganda comunista rappresenta attualmente un grave pericolo per l’ordine sociale in genere, e per la Religione Cattolica in specie»; quindi, «è ben naturale che il Santo Padre si preoccupi di tale minaccia e nella sua universale sollecitudine pastorale cerchi i mezzi per arginar[la]». Ed aggiunse che «a tale scopo sarebbe utile alla Santa Sede essere informata con esattezza circa le manifestazioni, i mezzi di propaganda, i progressi del Comunismo». Di qui il compito del Delegato sarebbe stato quello di «trasmettere le notizie più abbondanti e precise […] con quella prudenza e chiaroveggenza che Le è propria», servendosi, qualora lo avesse ritenuto opportuno, «della collaborazione degli Eccmi [sic] Vescovi o di altre persone ecclesiastiche o laiche di tutta fiducia, specialmente di quelle a contatto col Governo»96. Nella sua risposta, datata 3 dicembre 1932, Fumasoni Biondi ammise di aver avuto, negli anni trascorsi oltreoceano, «parecchie opportunità di occupar[si] di questo argomento», in particolare quando era venuto a contatto «con gli ardui problemi di nazionalità e di razza riguardanti i vari gruppi di emigrati dai paesi d’Europa e dal Messico e soprattutto i Neri tra i quali si svolge intensamente la propaganda comunista»97. Grazie alla collaborazione dell’assistente Segretario della NCWC, reverendo Rymond McGowan, uno «specialista in materia», egli poté offrire a Pacelli una panoramica assolutamente dettagliata del fenomeno comunista statunitense, richiamando l’attenzione del porporato soprattutto sulle «organizzazioni giovanili e la relativa stampa», e su come, nonostante «un grande risveglio per gli studi sociali

95

In un rapporto inviato alla Segreteria di Stato il 9 gennaio 1930, l’ambasciatore Usa a Riga, Frederick Coleman, riportò, ad esempio, alcune notizie relative ad un presunto piano organizzato a Mosca, con l’aiuto dei comunisti francesi, per velocizzare l’infiltrazione del comunismo tra i sindacati statunitensi e la campagna propagandistica condotta dal quotidiano moscovita “Pravda” al riguardo (NARA, DS, RG 59, 711.61/184, Coleman al Dipartimento di Stato, Riga 9 gennaio 1930).

96 ASV, DASU, Titolo II, pos. 412, f. 4, Pacelli a Fumasoni Biondi, rapp. n. 967/32, Città del Vaticano 14 aprile

1932.

97 Ivi, f. 97, Fumasoni Biondi a Pacelli, rapp. n. 3459-i, Washington 3 dicembre 1932, con allegati il

memorandum di McGowan, «Communism in the United States» (ff. 9-95) e le sue «Note circa la Propaganda Comunista» (f. 96).

164

e dei problemi del lavoro dopo l’enciclica “Quadragesimo Anno” pubblicata nel mezzo di una crisi economica che non accenna ancora a risolversi», fosse ancora «un lavoro difficile e al quale poche persone si dedicano […] far conoscere e trionfare i principi cattolici in materia economica e sociale in America»98.

I contatti proseguirono incessantemente nei mesi seguenti, anche dopo che Fumasoni Biondi fu richiamato a Roma e creato cardinale da papa Ratti nel concistoro del 13 marzo 1933. Il 4 aprile di quell’anno, allarmato per un rapporto della Commissione Pontificia per la Russia, secondo cui «dall’esame dei documenti circa la propaganda comunista si è constatato che il pericolo che minaccia le anime di tutto il mondo è assai grave, dati i mezzi potenti e tutti moderni, di cui dispongono le forze avversarie per avvelenare e pervertire l’opinione pubblica»99, il Segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, Giuseppe Pizzardo, comunicò al chargé d’affaires della Delegazione in Washington, Paolo Marella, come fosse risultata di «particolare gravità la situazione degli Stati Uniti d’America, anche per le ripercussioni che potranno partire dai focolai di idee sovversive accesi ed alimentati in codesto paese»100. Osservazioni, queste, che trovarono conferma da parte del nuovo Delegato Apostolico, Amleto Giovanni Cicognani, e sulle quali Pizzardo tornò poco dopo sostenendo, d’accordo con la linea di papa Ratti, che fosse necessario «organizzare e sviluppare l’Azione cattolica e diffondere la conoscenza della dottrina sociale della Chiesa, unico mezzo efficace per preservare il popolo dal comunismo»101.

Date tali premesse, non sorprende la reazione vaticana alle notizie relative all’intenzione del neo-eletto Presidente Roosevelt di intavolare trattative col governo di Mosca: un’idea che precedette il suo insediamento alla Casa Bianca e che Pacelli bollò subito, nel gennaio 1933, come gravemente dannosa alla «causa della civiltà, per l’incoraggiamento che da tale riconoscimento deriverebbe al Bolscevismo» e alla «stessa compagine sociale e politica di cotesta [sic] repubblica»102. In effetti, notano Robert Browder e Katherine Siegel, al di là dell’incompatibilità ideologica di fondo tra i principi liberaldemocratici statunitensi e la dottrina marxista, la preoccupazione per la diffusione del sovversivismo comunista nel tessuto socio-politico nazionale aveva da sempre costituito un ostacolo per l’attivazione di un efficace

98 Ivi, ff. 98-9. 99

Ivi, f. 102, Pizzardo a Marella, rapp. n. 927/33, Città del Vaticano, 4 aprile 1933.

100 Ibidem.

101 Ivi, ff. 109-17, Cicognani a Pizzardo, rapp. n. 4506-i, Washington 25 aprile 1933 e f. 124, Pizzardo a Marella,

rapp. n. 1418/33, Città del Vaticano 20 maggio 1933.

102

Ivi, Titolo V, pos. 157, f. 2v, Pacelli a Fumasoni Biondi (copia), rapp. n. 3741/32, Città del Vaticano 9 gennaio 1933.

165

processo distensivo nei confronti delle autorità sovietiche103. Come su molti altri temi di politica estera, Roosevelt fu vago anche sulla “questione russa” durante la campagna elettorale del 1932, suscitando immediatamente l’attenzione del mondo cattolico, assolutamente contrario ad un riavvicinamento tra Mosca e Washington. Nell’ottobre di quell’anno, infatti, il vicerettore della Georgetown University nonché ex direttore della Pontificia Commissione per la Russia, Edmund A. Walsh, disse di aspettarsi quanto prima dal Presidente una presa di posizione chiara sulla vicenda, così come aveva fatto precedentemente Hoover104.

Tuttavia, anziché essere smentite, le voci di un possibile scambio di ambasciatori con l’Urss divennero viepiù insistenti dopo le presidenziali del novembre ’32. Caldeggiata da molti industriali e dagli ambienti dell’alta finanza bramosi di sfruttare le potenzialità del mercato russo, nonché da alcuni quotidiani come “The New York Times”105, tale ipotesi incontrò forti resistenze all’interno dello stesso entourage presidenziale. Il ministro dell’Agricoltura, Henry Wallace, criticava la politica di collettivizzazione delle terre di Stalin; mentre Jim Farley e il Segretario di Stato, Cordell Hull, oltre ad esprimere le proprie riserve in merito al non riconoscimento dei debiti zaristi da parte del governo bolscevico, sollevarono la questione delle possibili ripercussioni che una simile apertura avrebbe avuto in termini di consenso, essendo gli elettori cattolici contrari ad essa106.

Tra la fine del 1932 e il novembre dell’anno seguente, sulla stampa cattolica – diocesana e non – statunitense vi fu un incessante susseguirsi di articoli in cui emerse più o meno veementemente l’opposizione del cattolicesimo Usa al riconoscimento sovietico. Da “The Tablet” di Brooklyn a “The Catholic Messenger” di Davenport (Iowa), tutti i principali organi d’informazione presero le distanze dalla strategia dell’amministrazione107. Critiche altrettanto dure vennero dalle organizzazioni, tra cui soprattutto il National Council of Catholic Men e i

103 Cfr. R. Browder, The Origins of Soviet-American Diplomacy, Princeton University Press, Princeton, 1953,

pp. 18-22 e K.A. Siegel, Loans and Legitimacy. The Evolution of Soviet-American Relations, 1919-1933, Kentucky University Press, Lexington, 1996, pp. 89-109.

104

Cfr. “The New York Times”, 15 ottobre 1932, p. 9.

105 Cfr. K.A. Siegel, Loans and Legitimacy cit., p. 136, che ricorda come tra i primi a suggerire l’idea del

riconoscimento dell’Urss furono il professore della Yale University, Jerome Davis e il corrispondente da Mosca del “New York Times”, Walter Duranty.

106

Sulla posizione di Hull si veda I.F. Gellman, Secret Affairs. FDR, Cordell Hull, and Sumner Welles, Enigma, New York, 20022 (John Hopkins University Press, Baltimora, 19951), pp. 45, 295.

107 Cfr., a titolo d’esempio, “The Tablet”, 10 dicembre 1932, p. 10, in cui l’apertura verso Mosca venne definita

anti-patriottica e immorale; “The Catholic Messenger”, 4 marzo 1933, p. 1, secondo cui un riconoscimento diplomatico avrebbe incentivato l’azione sovversiva dei comunisti; “America”, 4 novembre 1933, p. 97, che, invece, basò la propria opposizione sul carattere anti-cristiano del regime sovietico.

166

Knights of Columbus, che, nel frattempo – al pari della carta stampata –, erano impegnati a sponsorizzare le riforme del New Deal108.

La Santa Sede, intanto, si era già mobilitata. Alla fine di gennaio 1933, la Segreteria di Stato vaticana aveva disposto che la Delegazione Apostolica sondasse il parere dell’episcopato statunitense in merito alla vicenda sovietica109. Un mese dopo, l’incaricato interino Marella disse che Fumasoni Biondi aveva dato esecuzione «prudente ed intelligente» alla richiesta, anticipando, inoltre, che «le risposte giungono lentamente e, alcune in modo generico altre chiaramente, si esprimono in senso sfavorevole a che la Gerarchia faccia i passi suggeriti»110. Solo due mesi più tardi, il 20 aprile, poté finalmente inviare una «relazione dettagliata». In essa Marella spiegava anzitutto in che modo aveva operato la Delegazione: «Fumasoni Biondi – scrisse – stimò opportuno, prima di prendere una qualsiasi determinazione, di conferire sull’argomento con il Rev. P. Burke, Segretario Generale della NCWC, in conformità alla prassi che viene ordinariamente seguita in tali circostanze»; i due, poi, «convennero che era bene consultare le opinioni dei Vescovi che compongono l’“Administrative Committee», inviando loro una lettera «nella quale non si faceva menzione né della Santa Sede, né della Delegazione Apostolica»111. Benché in alcune di esse vi fossero «delle dichiarazioni utili e abbastanza esplicite», secondo Marella le risposte pervenute non potevano «essere considerate come l’espressione dell’opinione della Gerarchia in generale». Di qui la scelta di «consultare anche altri Vescovi […], più atti a dare in proposito una opinione solida e ponderata»112. Ricapitolati brevemente i quesiti posti ai rappresentanti della gerarchia, Marella passò ai commenti. Sul primo punto – se, cioè, il riconoscimento dell’Urss da parte degli Stati Uniti avesse potuto provocare effetti deleteri per la vita sociale, religiosa e morale del Paese – la divergenza d’opinioni registratasi «non deve essere interpretata come una divergenza sul problema morale, quasi che non tutti siano concordi sull’atteggiamento da tenersi di fronte ai principi e alle influenze della Russia Comunista», e cioè quello di «aborrire e deprecare gli ideali e i sistemi della propaganda Russa, intesi a distruggere i governi, la Religione e la moralità». Le risposte negative, invece, traevano origine da considerazioni di natura pratica. Coloro che le avevano date – proseguì l’incaricato – «ritengono che i pericoli e i danni già

108

Emblematiche, in tal senso, furono la risoluzione del National Council of Catholic Men nel dicembre 1933 (riportata in “The Catholic World”, CXXXVIII, p. 357) e la denuncia della sezione di Long Island dei Knights of Columbus (cfr. “The Tablet”, 1 aprile 1933, p. 1).

109 ASV, DASU, Titolo V, pos. 157, f. 4, Pacelli a Fumasoni Biondi (cifrato n. 289), Città del Vaticano 27

gennaio 1933.

110 Ivi, f. 11, Marella a Pacelli, rapp. n. 4054-i, Washington 28 febbraio 1933. 111 Ivi, ff. 115-6, Marella a Pacelli, rapp. n. 4498-i, Washington 20 aprile 1933.

112 Ivi, f. 116. La lettera fu inviata ai cardinali di Boston, Chicago, New York e Philadelphia; agli arcivescovi di

Baltimora, Cincinnati, Milwaukee, St. Louis, St. Paul e San Francisco; ai vescovi di Cleveland, Fall River, Fort Wayne, Kansas City, Omaha e Toledo (f. 117).

167

esistenti non verrebbero di fatto ad essere aumentati da quella specie di riconoscimento che i fautori del medesimo sembrerebbero proporre»; anzi, «non mancano coloro che il pericolo verrebbe piuttosto a diminuire, per il fatto che le relazioni diplomatiche con la Russia potrebbero dare al Governo degli S.U. [sic] maggiore possibilità di controllare e perciò reprimere la propaganda sovversiva»113. Quanto al secondo punto, la risposta dei vescovi, che, cioè, la gerarchia non debba prendere posizione ufficialmente e pubblicamente contro il riconoscimento, «è giunta quale era da prevedersi». Un’azione ecclesiastica in tal senso, infatti, «non mancherebbe senza dubbio di provocare un vasto e forte risentimento, non soltanto da parte di coloro che sono in favore del riconoscimento della Russia, ma anche da parte di quelli, che pur essendo contrari ad esso, sono per principio avversi a che la Chiesa si mischi, (come essi non finiscono mai di dire) nelle cose politiche»114. Circa la terza e ultima questione trattata nella comunicazione, Marella notò come l’ipotesi di una lettera pastorale dell’episcopato sul comunismo fosse stata largamente dibattuta, ma ritenne di dover convenire con «l’opinione di coloro che credono che una tale pastorale, al presente, non farebbe altro che esagerare l’importanza del Comunismo in questo Paese, e dare così alla propaganda Sovietica nuova ansa di vita»115.

Sebbene una parte di essa non la ritenesse un’eventualità del tutto esecrabile, la gerarchia ecclesiastica statunitense sperò a lungo che Roosevelt abbandonasse l’idea di riconoscere il governo di Mosca. All’inizio di aprile 1933 il cardinale di New York, Patrick Hayes, rassicurò Marella comunicandogli di aver saputo, tramite Jim Farley, che il Presidente non avrebbe agito in tal senso, almeno nell’immediato futuro116. Poco più tardi, il 24 maggio, l’incaricato d’affari della Delegazione informò Pacelli di un incontro avuto col porporato newyorkese, il quale gli aveva confermato di non credere che Roosevelt, «assorbito da altri e più gravi problemi, stia prendendo in esame il progetto di riconoscimento della Russia» e che «il messaggio da lui inviato a tutti i capi di governo […] anche a quello Russo, non deve essere in alcun modo considerato come un preliminare di future prossime trattative». Marella, però, aggiunse che secondo Hayes «prima o dopo la questione verrebbe posta sul tappeto, con la probabile conseguenza del riconoscimento»; ciò perché «il Presidente sembra convinto che non è possibile ottenere alcun risultato positivo verso la pace e la ripresa economica delle

113 Ivi, f. 119. 114 Ivi, f. 120. 115

Ivi, f. 123.

168

nazioni, se uno stato che comprende una parte così cospicua della popolazione della terra, rimanesse estraneo alle trattative internazionali promosse dagli Stati Uniti»117.

Il 1˚ agosto 1933 Cicognani, che aveva seguito la vicenda sin dal suo arrivo a Washington, inviò al Vaticano un rapporto in cui riassumeva il contenuto di un recente colloquio tra padre Burke, segretario generale della NCWC, e William Phillips, Sottosegretario di Stato Usa. «Dalla conversazione col Phillips – scrisse – poco si è riusciti a ricavare circa i piani del Governo»; tuttavia, appariva perlomeno chiaro che «la tendenza era a smussare e sciogliere le difficoltà che si fanno al riconoscimento della Russia, dal punto di vista religioso, economico e sociale», poiché un tale passo non avrebbe comunque implicato l’«approvazione dei principi sui quali esso [il governo sovietico] si fonda, o solidarietà con atti di persecuzione ed empietà». Il passaggio più interessante di tutta l’intervista fu, ad ogni modo, quello in cui Phillips aveva dichiarato che «non sarebbero ragioni di commercio che spingono l’America verso la Russia, giacché nessuno oggi, che ben conosca le condizioni di quel Paese, sarebbe disposto a fargli credito». Donde la supposizione – più che plausibile secondo Burke – che il riavvicinamento diplomatico dipendesse dalla necessità per gli Usa di una «efficace tutela dei suoi interessi nell’Estremo Oriente, di fronte all’espansione giapponese»118 in territorio cinese.

Le parole del Sottosegretario lasciavano intendere, dunque, che l’amministrazione era prossima ad intavolare trattative con i sovietici. Roosevelt, però, volle che i cattolici e la stessa Santa Sede venissero in qualche modo coinvolti nel progetto di riconoscimento diplomatico, o che, perlomeno, fossero rassicurati sul fatto che la questione relativa alla libertà di culto nell’Urss non sarebbe stata assolutamente tralasciata. A tal riguardo, Cicognani inoltrò a Pacelli la traduzione in italiano del discorso pronunciato dallo stesso Roosevelt alla cena di chiusura del Congresso delle Catholic Charities svoltosi a New York il 4 ottobre 1933. In quell’occasione, riferendosi implicitamente al caso russo, il Presidente