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L’irraggiungibile Versailles

La guerra terminò l’11 novembre 1918 con la stipula dell’armistizio di Compiègne. La capitolazione tedesca era stata preceduta dall’abdicazione del Kaiser Guglielmo II e dalla proclamazione della Repubblica di Weimar (9 novembre). L’Impero Austro-ungarico, invece, si era arreso già il 4 novembre, siglando l’armistizio di Villa Giusti col Regno d’Italia. Vinta la guerra, l’Intesa fu chiamata a “costruire la pace” a Versailles, in una Conferenza che sarebbe durata sei mesi, dal gennaio al giugno del 1919. I negoziati avrebbero dovuto portare, almeno in teoria, alla realizzazione effettiva del disegno di Wilson. A dispetto dei suoi proclami, però, furono i soli vincitori, inizialmente riuniti in un Consiglio dei Dieci, a sedersi al tavolo delle trattative. Wilson vi prese parte personalmente divenendo il primo Presidente della storia degli Stati Uniti a recarsi in Europa durante il proprio mandato e a trascorrere un periodo così lungo fuori dal paese.

Wilson anticipò di oltre un mese rispetto all’apertura della Conferenza il suo arrivo in Europa. Al fine di concordare con gli alleati una strategia comune da seguire al tavolo delle trattative, fece tappa prima in Francia, poi in Inghilterra ed, infine, in Italia. Proprio la visita in quest’ultimo Paese, programmata per gli inizi di gennaio 1919, rappresentò per la Santa Sede l’ennesima occasione per convincere il Presidente a rivedere l’articolo 15 del Patto di Londra e discutere una soluzione della “questione romana”. Il 29 novembre 1918, il vescovo Patrick Hayes, in procinto di essere nominato arcivescovo di New York, comunicò a Bonzano di aver mobilitato alcune delle personalità più influenti dell’area newyorkese, tra cui il giudice della Corte Suprema, Victor Dowling, il deputato Thomas Smith, Morgan O’Brien, Nicholas Brady, John D. Ryane, da poco dimessosi dalla carica di Secondo Assistente Segretario alla Guerra, e, perfino, il Governatore eletto Alfred Smith. Tutti riconobbero l’opportunità di un incontro tra Wilson e Benedetto XV, assicurando che «proper representation will be made in the right place»199. Dowling disse che avrebbe inviato tramite il direttore del Comitato per le attività di guerra dei Knights of Columbus, William Mulligan, una lettera al colonnello Edward House, consigliere di fiducia del Presidente; anche Al Smith e il Senatore del Massachusetts, David Walsh, si impegnarono «to make know how important the matter is

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politically»200. Ricevuti gli apprezzamenti del Delegato Apostolico per il discorso tenuto alla Lega delle Donne Cattoliche, il cardinale di Boston, William Henry O’Connell, si disse contrariato dall’esclusione vaticana, rimarcando come l’Associated Press si fosse dimostrata «far more intent upon reporting what distinguished prelates have to say in superlative adulation of the President than in anything concerning the Holy See»201. Alludendo all’eccessiva deferenza nei confronti del Presidente, egli si riferiva, con ogni probabilità, all’appello di Gibbons del 27 novembre. «As an American as well as a Catholic, as one who is bound to you by the bonds of patriotism as I am bound to the Holy Father in the bonds of religion»202, il cardinale aveva chiesto al Presidente di fare visita al pontefice una volta giunto a Roma. Un simile gesto di apertura nei confronti del rappresentante della più grande forza morale rimasta al mondo, avrebbe – per Gibbons – rafforzato l’immagine di Wilson, «the one who raised the late war from the plane of national jealousies into the plane of idealism and made it a conflict and a struggle for justice»203. A tale richiesta, tuttavia, il Presidente rispose in modo lapidario limitandosi a dire che avrebbe tenuto presente il suggerimento204. Per Gibbons quella fu l’ennesima, e stavolta definitiva bocciatura; la dimostrazione del fatto che il cardinale non avesse alcun ascendente su Wilson; ma, più in generale, anche la prova che per gli Stati Uniti il ruolo del pontefice dovesse essere limitato alla sola sfera spirituale, senza rivendicazioni di carattere politico.

Seppur controvoglia, Wilson accettò comunque di incontrare Benedetto XV. Quando, nella prospettiva del viaggio in Italia, si era delineata la possibilità di una visita al papa, il Presidente aveva impulsivamente rifiutato. Tra le forze che egli intendeva mobilitare a sostegno del suo progetto di pace non figurava la chiesa cattolica, oppure, se mai ci fosse stata, avrebbe senz’altro avuto un ruolo marginale. Le sue difficoltà a relazionarsi col Vaticano, d’altronde, non erano mai state solamente confessionali. Infatti, se, da presbiteriano, aveva sempre seguito con diffidenza l’espansione dell’elemento cattolico, come leader politico non intendeva, nota Danilo Veneruso, «subire la concorrenza di una democrazia alimentata dal cristianesimo quale era stata delineata nella proposta di pace di Benedetto»205. Inoltre, come ebbe a dire Bonzano agli inizi di dicembre, il Presidente «era stato male

200 Ibidem. 201

Ivi, f. 145rv, O’Connell a Bonzano, Boston s.d. (ca. 3 dicembre 1918).

202 Ivi, f. 123, Gibbons a Wilson (copia), Baltimora 27 novembre 1918. 203 Ibidem.

204 Ivi, f. 129, Wilson a Gibbons, Washington 30 novembre 1918. 205

D. Veneruso, La Conferenza di pace di Parigi nel contesto dei tentativi di Wilson e Lenin di costruire aree ad estensione mondiale, in La Conferenza di pace cit., p. 59.

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impressionato dal fatto che al Sig. Enrico Davison, Presidente della Croce Rossa Americana, quando fu in Roma, non fosse stata concessa l’udienza pontificia»206.

A fargli cambiare idea fu, con ogni probabilità, il suo consigliere personale, Joseph Tumulty, il quale suggerì pragmaticamente di valutare con attenzione l’influenza che il papa avrebbe potuto esercitare sulle popolazioni europee in favore delle sue idee207, prima di rinunciare. L’udienza, la prima in assoluto di un Presidente statunitense in carica, ebbe luogo in Vaticano il 9 gennaio 1919. Di essa, tuttavia, non v’è quasi alcuna traccia nei documenti ufficiali Usa, né tantomeno tra le carte degli archivi vaticani, a dimostrazione del fatto che si trattò, contrariamente alle aspettative della Santa Sede, di un colloquio privo di contenuti significativi, durante il quale Wilson non volle andare oltre i convenevoli di sorta, evitando di affrontare ogni questione relativa agli imminenti negoziati di pace208.

Incassato l’ennesimo rifiuto da parte di Wilson a supportare le proprie richieste, la diplomazia vaticana provò comunque ad introdurre nei colloqui di Parigi l’argomento dell’indipendenza dallo Stato italiano. Diversi furono i personaggi che, seppur vanamente, si adoperarono in tal senso. Anche in questo frangente, la Chiesa statunitense ebbe un ruolo primario. Subito prima che la Conferenza aprisse i battenti, il 17 gennaio, Gasparri chiese, tramite Bonzano, ai cardinali O’Connell e Gibbons di tradurre in francese per l’arcivescovo di Malines-Bruxelles, Mercier, un messaggio del tipo: «sottoscrizione in favore degli orfani di guerra procede benissimo»209. In base ai codici usati dalla Santa Sede per far pervenire i propri desiderata a Versailles, tale telegramma convenzionale – spiegò Gasparri – significava il conferimento al primate belga del mandato «di domandare al Congresso della pace in nome cotesti [sic] Cardinali, Episcopato e cattolici di America la sovranità territoriale del Papa»210. La speranza che il porporato, il quale godeva di enorme prestigio tra i vincitori, avesse potuto smuovere le acque per quanto riguardava la situazione internazionale del Vaticano si rivelò, tuttavia, illusoria, infrangendosi contro il muro di disinteresse levatosi nel corso delle trattative parigine. Il 25 marzo, infatti, Mercier scrisse sia a Wilson, sia a Clemenceau, chiedendo loro di concludere il negoziato con un rito religioso nella cattedrale di Notre Dame e di invitare tutti i cardinali delle nazioni alleate. Successivamente, in maggio, informò Gasparri della sua mossa accludendo una risposta del Presidente francese che offriva un tiepido sostegno.

206 ASV, DASU, titolo V, pos. 63 b/2, f. 126, Bonzano a Gasparri, Washington 6 dicembre 1918.

207 FRUS, 1919, The Paris Peace Conference, Vol. I, Tumulty a Wilson, Washington s.d. (ca. 18 dicembre 1918),

p. 150.

208 «Visit to Pope caused no hostile criticisms […] it had no political significance»: questo il commento reso

dall’ambasciatore Usa in Italia, Nelson Page, due giorni dopo la visita di Wilson in Vaticano. Ivi, Page a Wilson, Roma 11 gennaio 1919, p. 154.

209

ASV, DASU, titolo V, pos. 63 b/3, f. 148, Gasparri a Bonzano (cifrato), Vaticano 17 gennaio 1919.

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Questi, però, riferì anche di essere stato informato dal colonnello statunitense, Edward House, che c’erano ben poche speranze di coinvolgere Wilson in un «progetto di carattere religioso e cattolico»211. Di qui, le sue esitazioni a recarsi a Parigi senza garanzie da parte americana. House, consigliere di fiducia del Presidente, aveva, del resto, già espresso a padre Francis C. Kelley di Chicago la sue perplessità in merito alle intenzioni di Wilson a discutere la “questione romana” con Mercier, giudicandola, soprattutto in virtù delle profonde divisioni religiose interne, un fatto estraneo agli interessi statunitensi212.

Durante la primavera del 1919, segnali decisamente più incoraggianti vennero, invece, dalla delegazione italiana a Versailles. «The combination of Prime Minister Orlando’s territorial ambitions and civil unrest in Italy – ha notato, infatti, Peter D’Agostino – opened a new door to papal aspirations»213. In seguito al ben noto scontro di aprile con Wilson sulla questione dei territori adriatici di Istria e Dalmazia, Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino abbandonarono provvisoriamente la Conferenza chiedendo il sostegno della Santa Sede per l’acquisizione della città di Fiume ed impegnandosi, come contropartita, a velocizzare la soluzione della “questione romana”. Per la prima volta, il governo liberale – storicamente intransigente nei confronti delle richieste di indipendenza del pontefice – accettava di discutere concretamente dello status giuridico del Vaticano. Avviati da Kelley e dal marchese Giuseppe Brambilla, consigliere della commissione di pace italiana, i negoziati proseguirono con l’incontro, agli inizi di giungo, tra lo stesso Orlando e l’arcivescovo Bonaventura Cerretti, incaricato direttamente da Gasparri di recarsi a Versailles. Complice l’ostracismo di Vittorio Emanuele III, le trattative per la soluzione della “questione romana” avrebbero tuttavia subito un pesante battuta d’arresto con la caduta del governo Orlando (19 giugno)214; così come, del resto, si sarebbero rivelati inutili i tentativi condotti da Gasparri e dalla gerarchia ecclesiastica statunitense di indurre Wilson a rivedere le proprie posizioni in merito alla situazione fiumana nei mesi che seguirono il Trattato di pace del 28 giugno 1919.

Il 23 febbraio 1920 Gasparri – che non aveva mai del tutto interrotto il negoziato con Nitti – esortò la Delegazione Apostolica di Washington a pressare Wilson affinché questi assumesse un «atteggiamento più favorevole verso l’Italia mettendo in evidenza che altrimenti pace interna Italia [sic] sarebbe gravemente compromessa con gravi ripercussioni in tutta

211

ASV, AES, Guerra Europa, Vol. XV, fasc. 23c, Mercier a Gasparri, Malines 14 maggio 1919.

212 Cfr. F.C. Kelley, The Bishop Jots It Down, Harper, New York, 1939, p. 266, riportato in J.T. Ellis, The Life of

James Cardinal Gibbons cit., Vol. II, p. 280.

213 P. D’Agostino, Rome in America cit., p. 126. 214

Su cui si veda F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla conciliazione, Laterza, Bari, 1966, in particolare pp. 43-71.

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Europa»215. Bonzano si rivolse, quindi, a chi riteneva maggiormente funzionale a tale scopo; a quei membri dell’episcopato, cioè, che, diversamente da Gibbons, risiedevano nelle principali metropoli della costa atlantica e che, per questo, potevano vantare migliori contatti con l’amministrazione federale. Le risposte furono pressoché immediate. L’arcivescovo Dennis Dougherty di Philadelphia informò Bonzano di aver parlato con un intimo amico del ministro della Giustizia, Mitchell Palmer; Patrick Hayes di New York, invece, disse che avrebbe assistito alla cerimonia di nomina del nuovo Segretario di Stato, Bainbridge Colby, per esporgli il problema216. Essi, tuttavia, dovettero ben presto riconoscere che quello non era di certo il momento migliore per trattare col Presidente.

Una volta giunto a Versailles, Wilson capì che sarebbe stato arduo mettere in pratica tutti i punti del programma enunciato nel gennaio 1918. Gli alleati, soprattutto la Francia, anteposero i propri interessi particolari ai principi universalistici wilsoniani, dimostrandosi intransigenti sul fatto che la Germania dovesse essere “punita” per aver determinato la guerra. Protagonista consapevole di un negoziato che spesso sembrò sul punto di fallire, il Presidente Usa sperimentò la necessità di individuare delle formule compromissorie necessarie per ricomporre dissidi talvolta molto aspri. Il Trattato del 28 giugno rappresentò, in sostanza, il risultato di tale mediazione. Sul piano interno, tuttavia, furono proprio i termini di tali accordi e le modalità attraverso cui essi furono raggiunti a rendere Wilson maggiormente vulnerabile. Le obiezioni all’accordo di Parigi erano diverse, ma – nota Del Pero – «avevano un comune denominatore nella denuncia delle limitazioni alla sovranità degli Stati Uniti imposte dalla partecipazione alla Società delle Nazioni»217. Oltre ai repubblicani internazionalisti che, guidati dal senatore Henry Cabot Lodge, controllavano sin dalle elezioni di mid term entrambi i rami del Congresso, e alla minoritaria ma “chiassosa” frangia isolazionista degli intransigenti William Borah e Hiram Johnson, anche una parte dell’intellighenzia liberal contestò l’operato di Wilson a Parigi. Protrattasi nei mesi successivi agli accordi di pace, tale contrapposizione – espressione, tra l’altro, di uno scontro istituzionale tra una presidenza che aveva accresciuto le sue prerogative e un Congresso desideroso di ripristinare quell’equilibrio di poteri venuto inesorabilmente meno durante la guerra – si acuì in vista delle elezioni presidenziali del 1920.

Fu proprio perché considerava quelle elezioni come una sorta di grande referendum sulla Società delle Nazioni, quindi, che nel settembre del 1919 Wilson decise di intraprendere un

215 ASV, DASU, titolo V, pos. 101, f. 3, Gasparri a Bonzano, Vaticano 23 febbraio 1920.

216 Ivi, ff. 6-7, Dougherty a Bonzano, Philadelphia 25 febbraio 1920, e, in pari data, Hayes a Bonzano, New York

(ff. 8-9).

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lungo tour nel Paese con lo scopo di ribadire la necessità di approvare il Trattato di pace ed entrare a far parte dell’organizzazione di cui egli stesso era stato l’ideatore. Alla fine del mese di viaggio, però, il Presidente, già debilitato da problemi cardiaci, fu colpito da un infarto che ne paralizzò una parte del corpo e ne danneggiò la vista, costringendolo ad abbandonare la contesa politica nel momento determinante. Com’è noto, nel novembre 1919 e poi definitivamente nel marzo 1920, il Senato degli Stati Uniti non ratificò né il Trattato di pace, né l’adesione alla Società delle Nazioni218.

In un frangente tanto delicato, contraddistinto, almeno fino a quando le condizioni fisiche lo permisero, dalla tenace difesa della propria strategia di politica estera, Wilson non prese in considerazione né di rivedere le sue posizioni sulla “questione adriatica”, né, tantomeno, di andare incontro alle aspirazioni territoriali del Vaticano. I suoi contatti con l’esterno erano rigidamente regolati da sua moglie e Joseph Tumulty e il solo parlargli divenne impresa ardua, spesso perfino per i collaboratori più stretti. Ad ogni modo, le poche indiscrezioni trapelate erano tutt’altro che rassicuranti per la Santa Sede. Alcuni amici di Washington avevano lasciato intendere a Dennis Dougherty che Wilson sarebbe stato irremovibile su Fiume219. «Nothing could be done […] Wilson is practically powerless, and the others, namely England, France and Italy, know it just as well as we do»: questo, invece, fu il commento dell’arcivescovo di Chicago, George Mundelein, che suggerì a Bonzano «to remain inactive»220. Lo stato di confusione all’interno del Partito Democratico era tale – egli aggiunse – «that no one knows what to do and no one has the courage to take any steps»221. Pochi giorni dopo aver ricevuto la comunicazione di Mundelein, lo stesso Delegato Apostolico, che fino a quel momento aveva confidato nella possibilità di influenzare le decisioni dell’amministrazione, ebbe conferma dall’ammiraglio William Benson che Wilson non avrebbe gradito sapere che il Vaticano, attraverso l’episcopato locale, stesse facendo pressione sul suo staff 222.

Tuttavia, né Wilson, né il Partito Democratico sarebbero stati ancora a lungo gli interlocutori della Santa Sede. Già indebolito politicamente dalle elezioni di mezzo termine del 1918 e segnato fisicamente dal tour dell’autunno dell’anno seguente, il Presidente aveva ormai perso il controllo sull’esecutivo. L’inflessibilità e lo zelo, talora esasperati, con cui si era battuto a difesa degli esiti della Conferenza di Versailles finirono col rafforzare il vasto fronte degli

218 Su questi aspetti si veda il dettagliato volume di J.M. Cooper Jr., Breaking the Heart of the World. Woodrow

Wilson and the Fight for the League of Nations, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 2001, soprattutto pp. 158-97, 330-75.

219 ASV, DASU, titolo V, pos. 101, ff. 10-1, Dougherty a Bonzano, Philadelphia 27 febbraio 1920. 220 Ivi, f. 17r, Mundelein a Bonzano, Chicago 28 febbraio 1920.

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Ivi, f. 17v.

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oppositori, pronti a fare leva sulla mai del tutto sopita “eurofobia” dell’opinione pubblica, presentando sia il Trattato di pace, sia la Società delle Nazioni come il simbolo dell’asservimento del Paese agli interessi degli inaffidabili Stati europei. La disfatta dei democratici alle elezioni presidenziali del 1920 fu la prova di quanto la gente fosse ormai stanca del roboante idealismo wilsoniano. James Cox e il candidato alla vicepresidenza, Franklin Delano Roosevelt, puntarono sulla riproposizione del disegno internazionalista di Wilson, ma furono battuti con ampio scarto dal candidato repubblicano Warren Harding che, invece di ulteriori sacrifici “eroici” in patria e all’estero, promise alla nazione di sanare le ferite – invero, più psicologiche che materiali – che la guerra aveva determinato.