• Non ci sono risultati.

Un’occasione mancata?

La conclusione del conflitto e l’esito dei negoziati di pace generarono un forte senso di delusione nell’opinione pubblica statunitense. Il progetto di rifondazione del sistema internazionale su basi democratiche – per la cui realizzazione Wilson aveva giustificato l’intervento nella contesa – era naufragato dimostrando come, per quanto immensamente distruttiva, la “grande” guerra non fosse riuscita a catalizzare una volontà di rottura netta con il passato. Esauritasi la fase di entusiasmo patriottico, negli Usa si iniziò, così, a riflettere sulle contraddizioni strutturali dell’universalismo wilsoniano, in particolare sulla palese discrepanza tra i tanto declamati propositi palingenetici e gli esiti, decisamente più modesti, della mediazione con gli alleati europei. Il wilsonismo e, con esso, l’esperienza bellica, iniziarono ad essere percepiti come una parentesi negativa, una deviazione dal normale corso della storia statunitense. L’errore – si ripeteva nei dibattiti dell’epoca – era stato quello di anteporre presunti obblighi internazionali agli interessi specifici degli Stati Uniti, illudendosi di poter estendere sul piano politico-diplomatico attraverso la Società delle Nazioni quella

leadership economico-finanziaria di cui la guerra era stata la piena consacrazione223.

Interpretata dalle tre amministrazioni repubblicane che si succedettero consecutivamente alla guida del Paese dopo il Primo conflitto mondiale come un ritorno alla “normalità” pre-bellica, l’esigenza di prendere le distanze dal wilsonismo si sarebbe tradotta, com’è noto, in un atteggiamento decisamente più temperato e meno assertivo in politica estera; un nuovo afflato internazionalista ma conservatore, impropriamente giudicato isolazionista, che, da un lato, era

223 Per una riflessione sui limiti dell’universalismo wilsoniano si vedano, tra gli altri, L. Ambrosius,

Wilsonianism. Woodrow Wilson and His Legacy in American Foreign Relations, Palgrave Macmillan, New York, 2002, pp. 125-34 e W.R. Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Garzanti, 20052 (ed. or. Special Providence. American Foreign Policy and How It Changed the World, Knopf, New York, 2001), pp. 200-8.

62

alimentato dal desiderio di oblio della guerra, ma, dall’altro, faceva propria la convinzione che fosse necessaria l’attivazione di meccanismi che ne impedissero il ripetersi.

Al termine di un conflitto che aveva sancito l’affermazione degli Stati Uniti come maggiore potenza globale, a Wilson non si rimproverò l’enfasi posta sui temi del disarmo, della libertà dei mari o dei diritti di neutralità – rivendicazioni, queste, classiche dell’internazionalismo statunitense alle quali il Presidente, con sua retorica, aveva dato voce224. Se ne contestò, piuttosto, lo stile radicale di un discorso che tendeva ad erodere vie intermedie ingessando il dibattito interno, e che, soprattutto puntava a sovraesporre il Paese a livello internazionale vincolandolo permanentemente a organismi collettivi di sicurezza. Di qui la scelta, durante gli anni Venti, di agire – come, del resto, gli Usa avevano sempre fatto prima della Grande guerra – in maniera indipendente nella costruzione di quell’ordine internazionale liberale congruente con i propri valori ed interessi che Wilson aveva vanamente rincorso225.

Anche nei rapporti con la Santa Sede l’accantonamento del wilsonismo e dei suoi eccessi stilistici comportò il ritorno alla normalità pre-bellica, laddove questa significava indifferenza a livello diplomatico ed ostilità ideologica e culturale in termini confessionali. L’atteggiamento di Wilson nei confronti del Vaticano, infatti, fu, per molti aspetti, assolutamente organico ai canoni ideologici e discorsivi della cultura wasp; così come, del resto, il rifiuto di riconoscere al pontefice un ruolo di mediazione negli affari internazionali rappresentò una sostanziale riproposizione della scelta di congelare i rapporti con la Sede apostolica a seguito dell’unità d’Italia. Eppure, Wilson durante la guerra spinse tali radicati convincimenti ben oltre i limiti usuali. Dietro il suo viscerale anti-papismo – palesatosi inequivocabilmente nella risposta alla Nota di Benedetto XV dell’agosto 1917 – c’era molto di più sia della personale, ed, invero, comune a molte delle amministrazioni statunitensi, repulsione verso gli immigrati cattolici, sia della critica alla linea filo-tedesca della Santa Sede. C’era, in sostanza, l’idea di una incompatibilità di fondo tra il proprio disegno di rifondazione del sistema internazionale e quello di Benedetto XV, altrettanto universalista nella sua vocazione. Prescindendo dalle assonanze e dalle similitudini presenti nei suoi Quattordici punti e nella Nota ai Paesi belligeranti del papa, Wilson rigettò l’ipotesi stessa che il Vaticano potesse concorrere alla missione esistenziale della quale egli credeva gli Stati Uniti fossero stati investiti.

224 Sull’uso della retorica in Wilson, cfr. J.K. Tulis, The Rhetorical Presidency, Princeton University Press,

Princeton, 1987, pp. 117-44.

225 T. Guinsburg, The Triumph of Isolationism, in American Foreign Relations Reconsidered, 1890-1993, a cura

di G. Martel, Routledge, London, 1994, pp. 90-105, definisce l’atteggiamento degli Usa nel decennio post-Primo conflitto mondiale come internazionalismo indipendente.

63

Da questo punto di vista, quindi, la Grande guerra allineò tutti gli storici motivi di antagonismo e di inconciliabilità fra la repubblica stellata e la Santa Sede, proiettandoli, per la prima volta, se si eccettua la breve parentesi della guerra ispano-americana, dal periodo del Risorgimento italiano, sull’intricato terreno delle relazioni internazionali. Malgrado gli sforzi di influenzare la politica statunitense si fossero dimostrati infruttuosi, il Vaticano trasse alcuni importanti insegnamenti dall’infausta vicenda bellica. In primis, che avrebbe dovuto rivolgersi altrove, e soprattutto con maggiore pragmatismo rispetto alla linea di Benedetto XV, per risolvere la “questione romana”; in secondo luogo, che per ricucire lo strappo con la Casa Bianca era necessario rinsaldare i rapporti con la gerarchia ecclesiastica degli Stati Uniti, al cui interno stava progressivamente emergendo una nuova leadership, meglio integrata nel circuito politico locale e più propensa, perché, diversamente dalla generazione di Gibbons, formatasi a Roma, a condividere le strategie vaticane.

Si inaugurava, quindi, un decennio di transizione, al termine del quale, nonostante la recrudescenza del fenomeno nativista negli Stati Uniti, la Santa Sede e la repubblica nord- americana avrebbero mosso i primi, seppur impercettibili, passi verso un miglioramento delle proprie relazioni.

64