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I Cinque punti della Ricerca-Formazione docenti per lo sviluppo della professionalità docente

Nel documento Idee per la formazione degli insegnanti (pagine 50-53)

prolegomeni tra istituzione e sapere

5. I Cinque punti della Ricerca-Formazione docenti per lo sviluppo della professionalità docente

Cristiano Corsini*

* cristiano.corsini@uniroma3.it.

diffuse nel gruppo di docenti. In questa sede restituisco quelle più ricorrenti senza alcuna pretesa di rappresentatività statistica, dato che il campione, seppu-re piuttosto numeroso, non è probabilistico, e dunque non può esseseppu-re esclusa la possibilità che la mia azione formativa si concentri proprio su gruppi di docenti particolarmente carenti rispetto a certi contenuti.

Rispetto alla valutazione delle competenze emerge con frequenza la con-trapposizione tra conoscenze e competenze, con la propensione a concepire le seconde in funzione antagonistica rispetto alle prime. A questo si accompa-gna la tendenza a concepire la didattica per competenze nei termini di rifiuto e abbandono della lezione frontale. Se la negazione del ruolo che le conoscen-ze possono giocare nello sviluppo di competenconoscen-ze riecheggia un luogo comune estremamente diffuso nelle discussioni più superficiali e disinformate sulla te-matica, la consuetudine a interpretare la lezione frontale come mero ostacolo allo sviluppo di competenze può essere considerata una spia dell’incapacità di concepirla come una opzione didattica da scegliere tra le altre sulla base degli obiettivi che chi insegna via via si pone. Non si vede per quale motivo una didat-tica per competenze ben progettata debba escludere totalmente momenti di in-segnamento frontale piuttosto che alternarli con altre strategie di inin-segnamento.

Un altro diffuso luogo comune relativo alla valutazione delle competenze è la tendenza a considerare le prove strutturate (come i test INVALSI) il mezzo più adatto per accertarne lo sviluppo. Da questo punto di vista, come emerge dalle discussioni che avvio già nel corso dei primi incontri, esercita il suo peso il fat-to che la normativa e l’opinione pubblica assegnano effettivamente a tali prove il compito di valutare le competenze, producendo un corto circuito tra i richia-mi alla dimensione sociale, attiva, situata, dinarichia-mica, metacognitiva ed emotiva del concetto di competenza e l’impiego di strumenti che, per definizione, sono standardizzati e forniscono informazioni su alcune conoscenze e alcune abilità che possono incidere sullo sviluppo di competenze, ma non ne costituiscono una misura valida. Il fatto che il risultato delle prove INVALSI rappresenti un obiettivo dell’insegnamento – va considerato nel Rapporto di Autovalutazione come esito raggiunto dalle scuole – sembra portare scuole e docenti (“dobbia-mo ottenere buoni risultati alle prove e sviluppare competenze”) a sacrificare gli elementi del costrutto di competenza didatticamente fecondi sull’altare di una misurabilità la cui validità è data per scontata, con conseguenze poco ras-sicuranti dal punto di vista della progettazione e della prassi educativa. Viene così disincentivato il ricorso a compiti di realtà e autentici, che prevedono l’im-piego creativo di conoscenze e abilità in situazioni problematiche e richiedono soluzioni cooperative e complesse, ma non garantiscono il livello di affidabilità e confrontabilità dei risultati assicurato dalle prove oggettive e perseguito dal Sistema Nazionale di Valutazione.

In relazione al secondo argomento, ovvero alla valutazione formativa, i pro-blemi che riscontro più spesso sono relativi a un processo valutativo concepi-to nei termini di ottemperanza a compiti burocratici di natura certificativa e/o al suo impiego come premio o punizione finale. Spie di questa visione sono la propensione a confondere valutazione e voto e quella a intendere la valutazio-ne formativa come valutaziovalutazio-ne sommativa in itivalutazio-nere (“applico la valutaziovalutazio-ne formativa durante il quadrimestre, quando metto voti che poi considero nella media finale”). Una parte consistente di risposte rivela dunque la tendenza a de-finire “valutazione formativa” un percorso valutativo costituito da una serie di valutazioni sommative, una sorta di via crucis che ha come posta in palio la sal-vezza o la condanna e accompagna studentesse e studenti verso la ratifica di un giudizio finale che spesso miracolosamente trasforma in sufficienza una serie di insufficienze senza che il livello di sufficienza venga effettivamente raggiunto.

Si tratta di una serie di valutazioni in itinere sommative e tombali, gravi ma non serie, che di formativo non hanno nulla, perché non danno forma né ai processi di apprendimento di studentesse e studenti né alle scelte didattiche operate da chi insegna. Dalle risposte emerge dunque una generalizzata ritrosia a concepi-re la valutazione come strategia didattica: essa tende a esseconcepi-re vissuta e attuata come fine dei processi di apprendimento e insegnamento (e le viene pertanto riservato un posto finale dell’anno o dell’unità didattica) piuttosto che come loro mezzo di regolazione e orientamento (con un conseguente posizionamento mediano). D’altra parte, la diffusione di questa visione è attestata dalle indagini sulle concezioni della valutazione, un filone di ricerca (Harris & Brown, 2009;

O’Shea, 2020) che identifica tre principali concezioni valutative dei docenti. La valutazione viene intesa

1. come misurazione, accountability e controllo di apprendimenti, docenti e scuole;

2. come adempimento formale;

3. come processo di indagine che consente di migliorare l’apprendimento, svi-luppando strategie metacognitive in chi apprende e regolando la didattica di chi insegna.

Solo la terza visione, che comporta un attivo coinvolgimento di studentes-se e studenti nel processo valutativo e si incentra sull’uso di feedback analitici, tempestivi e rigorosi, ha evidenziato associazioni positive con i livelli di ap-prendimento già a partire dalle prime indagini sull’efficacia scolastica.

Il discorso sulla valutazione nelle settimane di emergenza Covid-19 è stato in questo senso molto indicativo. Nell’impossibilità di “bocciare”, la ministra ha tenuto a ribadire che se uno studente è da cinque merita cinque,

riecheggian-do quel “se un compito è da quattro, io gli riecheggian-do quattro” che valse una lettera da Barbiana. Durante l’emergenza, tra i docenti, le riflessioni sulla validità della valutazione – sul senso complessivo del giudizio all’interno del rapporto edu-cativo – sono state marginali rispetto a quelle sull’affidabilità, legate alla ne-cessità di controllare che il feticcio voto fosse attribuibile a compiti svolti senza ricorsi a “trucchi illegali”, con tanto di soluzioni grottesche (studenti costretti a mostrare costantemente volti e mani alla videocamera mentre rispondevano), aventi l’unico merito di far emergere, nella forzata distanza, l’assurdo normal-mente sommerso dall’irriflessa routine della presenza.

Infine, le risposte dei corsisti alla domanda “cosa ti aspetti da questo cor-so, cosa non vorresti trovare?”, possono essere grossolanamente suddivise in fiduciose e disilluse. Qui mi soffermo sulle seconde, perché danno il senso di un malessere che serpeggia nel corpo docente e che è imputabile a certe scelte formative. Tra le più diffuse, ci sono risposte come: “Non ne posso più di cor-si di 30 ore tutte frontali sull’importanza di abbandonare la lezione frontale”.

Qualche collega nella formazione iniziale e in servizio ha fatto scelte simili, che attestano errori di contenuto (la lezione frontale, si è visto, non va abbandonata, ma relativizzata come scelta possibile sulla base di determinati obiettivi) e ri-velano una certa difficoltà a venire a patti con la necessità di praticare quel che si predica. Altre risposte attestano esperienze formative concepite come eroga-zione di ricette o mezzi: “Non dateci strumenti che poi non useremo”. Con ogni probabilità, in occasione di formazioni precedenti, sono state spacciate soluzio-ni semplici e standardizzate a problemi complessi e situati, come sempre sono quelli educativi. Sono state prescritte rubriche, prove standardizzate o prove di realtà senza che il gruppo di docenti le costruissero e le percepissero come pos-sibili soluzioni ai problemi posti dalla prassi educativa. Perché? Forse perché la formazione docenti è prassi troppo spesso irriflessa almeno quanto quella scola-stica o universitaria, e difficilmente si apre a una autentica verifica della propria efficacia, e perché si svolge talvolta in condizioni che mal si accordano con le esigenze di una didattica attiva e laboratoriale (difficile spiegare altrimenti la progettazione di laboratori destinati a più di 100 persone). Sta di fatto che le la-cune che riscontriamo nel corpo docente non possono essere affrontate con una formazione che riproduce i modelli didattici che pretende di modificare.

Nel documento Idee per la formazione degli insegnanti (pagine 50-53)