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DELLA CITTA’ SVELA IL SUO DOMINIO SU CIO’ CHE RESTA DELLA CAMPAGNA

«L’urbanesimo che distrugge le città ricostruisce una pseudo campagna, nella quale sono perduti sia i rapporti naturali della vecchia campagna sia i rapporti sociali diretti e direttamente messi in questione della città storica».56

Guy Debord

Abbiamo fatto nostra l’ipotesi di considerare la metropoli globale come una intricata rete di flussi e comunicazioni, vasta quanto l’intero pianeta, i cui nodi si concretizzino nelle principali città (dette per l’appunto globali), che fungono

da attrattori di capitali (paragonate ad hub) in circolazione sui mercati

(anch’essi globali o quantomeno transnazionali). Detto questo, non possiamo esimerci dal trascurare ciò che è concretamente presente tra le “maglie“ di tale rete.

Uno stato di morte apparente/Afferma Giandomenico Amendola che «la

civiltà urbana, dopo avere trionfato e avere reso di fatto tutto il mondo città, sembrava prossima alla fine anche per le possibilità offerte dalle nuove tecno- logie di affrancare gli uomini dai vincoli spaziali immettendoli sulle autostrade elettroniche». Ciò ha di fatto contribuito a diffondere una sorta di «visione apo- calittica della morte della città» che secondo il sociologo urbano «è sembrata prevalere grazie anche agli errori ed agli abusi compiuti, in nome della cresci- ta a tutti i costi, su una realtà complessa e fragile come la città».57

«Le notizie sulla mia morte sono state di gran lunga esagerate» scrive

Mark Twain scoprendo il proprio necrologio sui giornali. La stessa cosa deve aver “pensato” la forma urbana, questo corpo pulsante e vivente, agli inizi de- gli anni Ottanta quando, come anche ricordato dalla Sassen, è in effetti forte la

convinzione che la grande avventura urbana del mondo stesse percorrendo il suo personale viale del tramonto: se il cambiamento apportato dall’innovazione informatica e telematica a livello globale ha di fatto reso pos- sibile la trasmissione istantanea di informazioni in tutto il globo, per deduzione diretta avrebbe a sua volta consentito anche una ridistribuzione delle attività produttive58 e quindi degli alloggi sul territorio, contribuendo così allo svuota- mento stesso della città storicamente intesa,59

opinione suffragata anche dal calo demografico registratosi nell’Occidente. In sostanza però, questa pretesa convinzione, più simile ad una mistica da fine-della-città (che va a braccetto con quella della Storia), si era tanto radicata nelle idee quanto poco realizzata nei fatti, e come al solito un’idea, se non supportata dalla concretezza dei fatti stessi, è sorella dell’opinione e lascia il tempo che trova. In altre parole, le i- dee devono essere analizzate come prodotto di fatti materiali.

Ma osservando meglio lo stato delle cose sorge spontanea una domanda; siamo davvero certi che quanto appena affermato sia vero in ogni caso? Non è forse anch’essa un’affermazione esatta e falsa allo stesso tempo? O meglio, non è forse vera — o comunque verificabile — rispetto a determinate condizioni, ma se riferita ad altre perde la sua validità? Forse l’unica maniera per rispon- dere a tali domande ed affrontare in maniera più efficace l’intera questione consiste nel dotarsi inevitabilmente di un efficace metro di misurazione.

La necessità di un sistema di riferimento/Invitiamo pertanto il lettore a compiere una piccola e rapida verifica: ci si connetta a Google Earth — o a qualsiasi altro software che genera immagini virtuali della Terra utilizzando immagini satellitari, fotografie aeree e dati topografici memorizzati in una piat- taforma GIS — e si impostino le coordinate rispetto a una delle tante saskiane città globali del pianeta, o ad una qualsiasi area metropolitana considerata sempre come nodo della rete globale. Avviciniamoci quel tanto che basta per tentare di ottenere, restando entro i limiti dello schermo del monitor, un qua- dro di riferimento plausibile che si rapporti a quella che di fatto è la scala ur- bana della città presa in esame. Ora prendiamolo come modello a cui relazio- nare l’oggetto della nostra analisi, in questo caso l’effettivo ridistribuirsi sul territorio delle costruzioni.

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Di fatto è impossibile negare che, partendo dagli anni Ottanta, si è verificata una massiccia dislocazione e ridistribuzione delle attività produttive (e quindi dei quartieri residenziali per le differenti classi sociali) in quelle zone urbane considerate periferiche rispetto al vecchio perimetro urbano che la città indu- striale aveva raggiunto nell’epoca moderna; questo lo si è visto (e lo si vede tutt’ora) in Occidente, sospinto soprattutto dalla sua corsa alla cosiddetta “de- industrializzazione”, ma anche il resto del mondo non ne è affatto esente.

Bene. Ora riprendiamo in mano il nostro quadro di riferimento preceden- temente adottato. Stavolta, invece di avvicinarci zommando all’oggetto dell’analisi, allontaniamoci da esso allargando gli stessi bordi del quadro; pas- siamo in pratica da una visione locale — o localizzata — ad una visione generale,

globale, ponendoci insomma ad un più alto livello. Mentre si eseguirà l’operazione salta agli occhi un’evidente realtà: come abbiamo detto, notiamo che senz’altro la forma urbana si è dissolta sempre più sul territorio, ma guardando meglio ci si avvede che l’ha fatto gravitando e sviluppandosi attorno alla città storica, sede fisica iniziale dell’accumulazione capitalistica, sorta di polo attrattivo di uomini, capitali e lavoro, vero e proprio hub della rete metro- politana globale.

Attirando capitali circolanti per il globo, produce il suo allargamento sul territorio circostante, sulla campagna, ridotta ormai ad appendice della città, a sua banca del cibo. Il fenomeno è dovuto in particolare a leggi intrinseche al modo di produzione capitalistico e indipendenti dalla volontà degli uomini, ma una spiegazione se si vuole ancor più precisa viene dalle “neonate” teorie della complessità (di cui quella delle reti come abbiamo spigato ne costituisce una parte) e in particolare dal concetto dei “ricchi sempre più ricchi” esposto in maniera brillante da Mark Buchanan.

Un modello fisico di crescita/Egli parte dal modello di crescita del Web:60

«i siti più popolari, quelli a cui portano innumerevoli link, si espandono più in fretta. Più connessioni ha un sito, più ne avrà in futuro. In altre parole, i ricchi diventano più ricchi, ovvero piove sul bagnato. […] Questo ci dice nulla di inte- ressante in merito all’espansione del World Wide Web? Si. Anzi, ci dice quale sia uno dei principi forse più importanti e basilari della struttura di rete in na- tura».61

L’ipotesi è che l’evoluzione delle reti sia collegata al meccanismo del

“ricco sempre più ricco”, ed è proprio di quelle reti cosiddette aristocratiche costituite da particolari hub, in cui vige una sorta di “aggregazione preferen- ziale”, proprio come nella rete metropolitana globale dove particolari città continuano a crescere senza soluzione di continuità. «Nel 1999, i fisici Albert- Làszlò Barabàsi e Réka Albert si proposero di verificare quali conseguenze abbia il meccanismo del “ricco sempre più ricco”. In altre parole si chiesero che cosa succede esattamente quando una rete parte da piccole dimensioni e cresce per aggregazione preferenziale nella maniera più semplice possibile. […] Barabàsi e Albert simularono ripetutamente al computer il processo di crescita, generando innumerevoli reti. A volte cambiavano il numero di ele- menti iniziali, partendo da trentasette o ventisei anziché da quattro; altre ag- giungevano ad ogni passo sette o dodici connessioni, anziché due. Per quanto variassero, constatarono che nessuna delle modifiche era rilevante a lungo termine. Le reti in espansione mostravano sempre la stessa struttura di base: erano tutte piccoli mondi con pochi gradi di separazione. Avevano anche un e- levata aggregazione, con gli hub propri delle reti vere. C’era anche la ciliegina sulla torta. Studiando la distribuzione degli elementi secondo il numero di connessioni, Barabàsi e Albert individuarono la consueta legge di potenza: o- gni volta che il numero di connessioni raddoppiava, gli elementi con quel nu- mero di connessioni diminuivano di un fattore di otto. Dunque il meccanismo del “ricco sempre più ricco” è più significativo di quanto si pensi. Risulta un

motore naturale di rete piccolo mondo […]».62 Buchanan spiega anche come

l’economia attuale sia una “rete piccolo mondo” la cui struttura emerge «per la stessa identica ragione per cui emerge altrove: in forza del principio del “ricco sempre più ricco”. A molti livelli e nei più svariati contesti, questo sem- plice processo e l’inanimato architetto del piccolo mondo. […] Il meccanismo per cui, con il procedere della storia, i ricchi diventano sempre più ricchi, con- duce immancabilmente ai connettori, i quali, avendo tante connessioni, svol- gono un ruolo analogo a quello dei ponti di Granovetter».63

In queste “reti piccolo mondo” cosiddette aristocratiche il caos sembra prevalere sull’ordine che fatica a manifestarsi, come di fatto è nella metropoli globale, la cui struttura sembrerebbe proprio essere “aristocratica” vista la presenza di metropoli-hub che la contraddistingue. E poi adesso, dopo aver

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esposto il principio organizzativo di crescita dei “ricchi sempre più ricchi”, possiamo comprendere meglio come questi particolari hub urbani crescano su se stessi invadendo anche il territorio circostante e contribuendo anche al consumo sempre più massiccio del suolo. Per farlo occorrerà rispolverare la sempre (più) valida teoria della rendita fondiaria marxiana.

Le difficoltà di cognizione della città/«La teoria di rete è così efficace per- ché va al di là di questo o quel contesto, di questa o di quella rete di computer, aeroporti od organismi, per connettersi sui principi organizzativi fondamentali e influenti che agiscono “dietro le quinte”. In natura, spesso non è importante il carattere delle singole componenti di una rete, ma l’ordine generale — o la mancanza di ordine generale — della rete».64

I principi che agiscono “dietro le quinte” dice Buchanan: se poi adesso il “padrone del teatro” è il Capitale, anch’esso prodotto naturale della storia, è facile vedere come tali principi agi- scano in sua funzione, e la teoria della rendita rientra proprio in quest’ottica.

Quando in precedenza consigliavamo di individuare il quadro di riferimento di partenza — per capirsi, quello locale —, chiunque si sarà trovato di fronte ad un problema di non poco conto: in che punto, o meglio a che “altezza” decidere di porre il quadro di riferimento. In pratica la risposta più ovvia sarebbe: dove pare che termini il suolo edificato, e quindi la città, intesa in senso lato. Qui sorge però un problema; anzi a ben vedere il problema è proprio questo: il suolo ci appare edificato senza soluzione di continuità, ciò crea nell’osservatore uno stallo sulla decisione da prendere, e magari alla fine op- terà per adattare il quadro ai, diciamo, “limiti amministrativi” di quella partico- lare città o area urbana. Peccato che tali limiti siano solamente giuridici, vir- tuali in un certo senso, e non influiscono affatto sulla reale distribuzione delle

costruzioni, come sulla loro crescita, che segue altri modelli di sviluppo: al massimo la giurisprudenza in materia e l’intera legislazione urbanistica, lega- te inevitabilmente alla legge del valore, possono tentare di seguire il “corso del denaro” ed adattarvisi, limitandosi ad intervenire “a posteriori” per tentare di regolare il caos anarchico generato dalla gestione capitalistica dei suoli, senza la pretesa di essere fonte di progettualità razionale: «La società che modella tutto ciò che la circonda ha costruito la propria tecnica speciale per elaborare la base concreta di questo insieme di compiti: lo stesso suo territo-

rio. L’urbanistica è presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi logicamente in dominio assoluto, può e de- ve ora configurare la totalità dello spazio come proprio scenario»65 diceva De-

bord.

C’è anche da considerare il fatto che più ci si allarga col quadro di riferi- mento, ossia più si passa quindi ad una visione “alta” (il nostro secondo caso), più ci si accorge che, oltre alla ben nota questione degli hub e delle città come poli d’attrazione e pertanto soggetti a continua crescita, le rispettive zone d’espansione stanno sovrapponendosi l’una all’altra, tendendo a realizzare una sorta di “pavimento”, e restringendo ulteriormente di più gli spazi di quella che un tempo era nota come campagna.

Il fattore “rendita”/E arriviamo dunque alla teoria della rendita fondiaria come manifestazione reale del meccanismo dei “ricchi sempre più ricchi” cosi come esposto da Buchanan. La rendita è plusvalore che, invece di diventare sovrapprofitto, finisce nelle tasche del proprietario immobiliare, il quale rie- sce, per la semplice esistenza della proprietà, a estrarre valore dalla società intera. Mai la teoria della rendita è stata più importante, proprio perché sulla crosta terrestre si è estesa a dismisura la rete delle sterminate metropoli.

La forza-lavoro viene sfruttata nel tempo, si rinnova; il capitale industriale entra in un ciclo dinamico di valorizzazione, si rinnova anch'esso. La rendita invece è accumulo di lavoro morto. Semplificando, essa assorbe valore dal sa- lario dell'operaio e dal profitto del capitalista vendendo i prodotti della terra e impedendo l'accesso al suolo e ai fabbricati se non dietro pagamento della tangente-rendita, sempre più spesso aumentata dalla frenesia speculativa. Il ciclo di rinnovo del suolo (fertilità) e dei fabbricati è dunque infinitamente più lento di quello del rinnovo del capitale e del lavoro nella produzione, tanto che nelle metropoli più antiche convivono testimonianze edilizie di ogni epoca.

Se il nascente capitalismo industriale e la sua classe andata al potere, la borghesia rivoluzionaria, produssero forme urbane in cui forte ed evidente era la matrice razionale che ne era alla base, oggi, nella fase senile del capitali- smo, la razionalità propria di quel tempo ormai passato lascia spazio presso- ché totale all’idealità, proiezione del cervello capitalistico nel tessuto urbano, quindi, più velocemente ancora, economicità ed infine, prodotto estremo del

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pensiero moderno, tecnicità. La città come museo, meglio, cimitero della co- noscenza passata e come grande expo permanente della tecnica capitalistica. Su questo punto già possiamo scorgere un aspetto significativo che contribui- sce a caratterizzare quella che in molti, come Amendola, definiscono città “po- stmoderna”.

È quindi un risultato storico del capitalismo, perché il meccanismo della rendita porta a fissare sempre più capitale nell'immensa quantità di manufatti che coprono il territorio. Le città-hub fungono da attrattori su cui si fissa il ca- pitale. Essendo il ciclo produttivo un fattore dinamico del capitalismo, mentre il suolo e gli immobili sono elementi che si rinnovano molto lentamente, sem- pre più valore, proveniente da profitto e salario, si deve fissare in rendita. La rendita diventa l'intero scenario su cui si muovono i singoli capitali e si concre- tizza nelle metropoli-nodi della rete metropolitana globale.

Oggi tutto ciò è particolarmente evidente nei cosiddetti paesi in via di svi- luppo, in particolar modo nelle metropoli asiatiche, che hanno conosciuto in ritardo rispetto all’Occidente il processo di accumulazione, ma che ora lo stanno vivendo ad una velocità incredibile trovandosi in un contesto di econo- mia globale.

Una città nuova?/Allora quando si parla di diffusione della città sul territo- rio o comunque di ridistribuzione delle costruzioni sullo stesso, in compene- trazione con le aree non urbanizzate, occorre inevitabilmente dire a quale sca- la, a quale quadro di riferimento si sta facendo riferimento (scusate il gioco di parole), in modo da raggiungere una più semplice comprensione della stessa realtà urbana. La città si diffonde sempre più sul territorio attraverso costru- zioni sempre più dislocate sullo stesso, in un certo senso ridistribuite, ma non in modo razionale, armonico, non secondo un progetto cosciente, ma secondo l’”ordine” capitalistico, la cui estetica, che come ogni estetica deve rispondere sempre a qualche ordine soggiacente, è puro riflesso del caos. Se Calvino con le sue Città invisibili ha tentato una sorta di metafora della città postmoderna, per descrivere lo stato reale di alcuni aspetti della stessa va più che bene an- che il vecchio Gadda: «[…] i muri, scialbati di tetraggine, delle fianca ture senza finestra; l’alto e il basso, il va e il vieni, il tira e non l’imbrocchi, e soprattutto “el tri e cinquanta”, “el duu e vontanta” e l’”ah! già che l’è vera! Gh’avevi minga

pensàa!”».66

E se qualcuno può pensare che Gadda sia “vecchio” ecco allora arrivare Rem Koolhaas con la sua cinica verve a rinfrescare lo stesso concetto nascosto però in tecnologica veste: «le strutture spuntano fuori come molle da un materasso, le scale emergenza dondolano in esercizi didattici al trapezio, sonde fuoriescono nello spazio per distribuire laboriosamente quello che di fatto si trova gratis ovunque l’aria, migliaia di metri quadrati di vetro sono ap- pesi a fili come ragnatele, pelli tese racchiudono flaccidi non-eventi. […] Non c’è forma, solo proliferazione…».67

Sulla base di determinate spinte materiali si evince come, sempre a ridos- so degli anni Ottanta, erano in molti a profetizzare la scomparsa della città a vantaggio della campagna, o comunque dei piccoli centri abitati, in prevalenza rurali,nell’ottica di un inevitabile processo di deurbanizzazione,68

cosa poi con- traddetta clamorosamente dalla realtà dei fatti:69

«Le previsioni sul dissolvi- mento della città e sulla crisi della civiltà urbana, per come la conosciamo, non si sono avverate. Nel momento della sua più intensa crisi, la città sembra aver ritrovato la capacità antica di reinventarsi e di rinascere. Molti definiscono questa nuova realtà urbana in formazione la città postmoderna, non per reali convinzioni ma perché, probabilmente non c’è mezzo migliore per descrivere una situazione molto fluida ed incerta del ricorso al contrasto con un passato ben noto e definito. Ciò che, indipendentemente dalle etichette, sembra lar- gamente condiviso è che questa città nuova è ben diversa dal passato e che segna, invece, un mutamento epocale della scena metropolitana. […] Sono molti gli studiosi che si chiedono se, di fronte alla rapidità del mutamento sia strutturale che culturale, non sia superata la stessa nozione tradizionale di cit- tà».70

Questa città nuova che si andava formando ed espandendo è definita da

Amendola “città postmoderna”. Ma siamo sicuri che sia ben diversa dal passa- to? Ripensiamo a quanto accaduto durante le rivoluzioni industriali di fine Ot- tocento: le mura delle vecchie città vengono abbattute e la forma urbana com- pie il primo passo verso quello che sarà l’attuale dominio totale sulla campa- gna, realizzato in principio attraverso grandi prospettive tentacolari che inva- dono il territorio ricoprendolo con manufatti industriali e slum operai, nonché nuovi spazi urbani adibiti alla mostra e al mercato delle merci.

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Ed ora guardiamo al presente; al di là delle innegabili differenze dovute alle diverse fasi di sviluppo capitalistico, anche a livello sovrastrutturale come messo in luce da Harvey, e alle conseguenti trasformazioni estetiche, formali e simboliche (che rimandiamo al prossimo capitolo), è davvero così differente? Non è forse il culmine di quel processo iniziato allora? Non abbiamo forse an- che oggi, e in quantità incredibilmente maggiore e pervasiva, una diffusione della città su una campagna ormai sottomessa? E poi ha ancora un senso il

termine campagna? Questa città nuova insomma non sembra segnare una

rottura rispetto al passato “industriale” (inteso quello proprio dell’epoca co- siddetta moderna), quanto un suo completamento, una sua evoluzione in altra veste.

Abbiamo sostenuto che nella metropoli globale le categorie quali “interno” ed “esterno” decadono non trovando più quella validità che possedevano fino a solo un secolo addietro. Così non è più possibile riferirsi alla campagna come qualcosa di estraneo e distante dalla città, ma al contrario come una sua parte integrante anche se ridotta a pura appendice alimentare. È anch’essa tra le maglie della metropoli, fa parte dello spazio dei flussi dalla quale è attraversa- ta, e anch’essa partecipa al suo funzionamento. Poco prima facevamo l’esempio pel più remoto contadino che è costretto a far dipendere la propria sopravvivenza dai mercati globali. Ma consideriamo ora l’antica questione cit- tà-campagna da un punto di vista strettamente urbanistico, materiale.

La città penetra la campagna polverizzandola/«L’esplosione delle città sulle campagne ricoperte di “masse informi di residui urbani” (Lewis Mum-