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«Ognuno fa del luogo in cui è collocato il terreno della sua insurrezione: l’importante è non appa- garsene, l’importante è che ogni luogo bruci, ogni luogo della propria vita come ogni luogo della non-vita di tutti. A questo devono ridursi tutti i ruoli: al fuoco della passione che li brucia […]».182

Giorgio Cesarano, Gianni Collu.

Dice La Cecla: «Strano come il tema delle periferie sia all’ordine del giorno nel dibattito di questi anni. Se non ci fossero state le rivolte di fine 2006 [in realtà di fine 2005, ma poco cambia] nelle banlieues parigine, con migliaia di auto- mobili date alle fiamme, la mobilitazione delle forze di sicurezza francesi, le leggi speciali e l’amplificazione sulla stampa internazionale, la questione sa- rebbe rimasta ancora per lungo tempo in un cassetto».183

In realtà la polverie- ra rappresentata dalle periferie centrali dormiva sonni agitati dall’ansia di bru- ciare ormai da parecchio tempo, e qualche fuoco l’aveva pure prodotto, anche se forse troppo poco intenso per arrivare a conquistare gli onori di una crona- ca giornalistica fin troppo distratta. S’è dovuto fare di più.

Ma andiamo con ordine, ripartendo proprio dalle città globali. «Le grandi città dei paesi altamente sviluppati», dice la Sassen, «sono i luoghi dove i pro- cessi di globalizzazione assumono forme concrete, localizzate. In queste for- me localizzate, in buona parte, consiste la globalizzazione. Allora possiamo pensare alle città come al luogo in cui le contraddizioni create dall’internazionalizzazione del capitale si appianano o esplodono in conflitti aperti. Se consideriamo inoltre che nelle grandi città si concentra anche una proporzione crescente di fasce svantaggiate […] possiamo constatare come le città siano divenute il terreno strategico di una serie di conflitti e di contraddi- zioni».184

Bene. A questo punto chiariamo che cosa si intenda per polarizzazione. Serviamoci ancora della fisica: si ha polarizzazione quando gli elementi di un "campo" o "sistema" si dispongono secondo orientamenti particolari intorno a due poli opposti. Consideriamo allora la società intera come appunto un “cam- po”, concretizzato materialmente in seno allo spazio metropolitano globale, e gli individui che la compongono come tante molecole sociali che interagiscono tra loro formando reti più o meno estese ed effetti concreti sul piano materia- le.

I meccanismi dell’attuale società non fanno altro che esasperare gli estre- mi della stessa che, sollecitati, si dispongono attorno ai suddetti poli sociali. Tutto ciò — che ritroviamo anche spiegato dal punto di vista fisico nelle attuali “teorie della complessità” sempre ad opera del “nostro” Mark Buchanan185

— non avviene per “caso” o come reazione a qualche politica sbagliata del gover- no di turno, ma trova la sua ragion d’essere in profonde cause oggettive. Non

politiche o da ricercarsi nell’estetica dell’abitare o figlie di qualche moda o

comportamento “postmoderno”, ma principalmente economiche. Come ab-

bondantemente spiegato, la marxiana legge della miseria crescente, che non è un opinione ma esprime in sintesi un processo reale, produce una sempre più marcata polarizzazione sociale a cui consegue un’ulteriore frammentazione e polarizzazione dello spazio metropolitano frantumato in territori altamente conflittuali.

Considerando le cause economiche non ci riferiamo semplicisticamente al- la disoccupazione sui generis, o ad un “abbassamento del reddito” a cui ri- spondere moralisticamente o ad un’altrettanto generica emarginazione e non integrazione dei cosiddetti esclusi. La disoccupazione e l'isolamento degli e- sclusi esistevano anche in passato, solo che riflettevano i cicli economici al- ternati di boom e crisi. Adesso sono un fenomeno endemico e quindi nasce un

nuovo gruppo sociale, quello degli esclusi per sempre, specie in Occidente: la sovrappopolazione stagnante o consolidata, ossia entro il ciclo produttivo ma fuori dai parametri che regolano. Il riflesso di questa realtà nella mentalità di quella che potremmo ancora definire “piccola borghesia” ha subito fatto na- scere teorie sugli "inclusi" ed "esclusi": teorie sulla "fine del lavoro", che non partono affatto dalle considerazioni di Marx sulla sovrappopolazione relativa,

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ma da constatazioni puramente empiriche sull'avvento dell’epoca del lavoro immateriale, con tutto ciò che ne consegue: fine della lotta di classe, “moltitu- dini”, “imperi”, ecc.

Quindi diciamo subito che consideriamo la polarizzazione sociale sotto il segno di classe: su un polo sta la classe borghese (rappresentante fisico del Capitale) che, anche se qualcuno oggi trova desueto tale sostantivo, tiene ben saldo il suo potere; sull’altro chi è schierato contro — non muovendo dalle idee

ma dalla condizione — e non ha rappresentanze di sorta entro il sistema (i “dannati fisici” del Capitale). È su tale polo quindi che cresce e ribolle la mas- sa dei senza-riserve, il nuovo proletariato che sa di non dover rivendicare un lavoro che non c’è e mai più ci sarà, e lo sa per esperienza diretta, materiale, non per coscienza o cultura politica.186

Ovvio poi che i confini tra i due poli sono sfumati ma, come dimostrano i recenti fatti sociali, basta poco per renderli più netti.

Come dicevamo, considerando la società come un insieme molecolare e gli individui appunto come molecole sociali interagenti, ciò che possiamo osser- vare con interesse maggiore è il fenomeno generale che sta dietro alla pola- rizzazione sociale e di conseguenza il suo riflesso sul territorio metropolitano, non la psicologia che copre e segue tali azioni conflittuali, specie se relegata ad ogni gruppo di individui o addirittura al singolo individuo. Considerando l’individuo in sé, i suoi comportamenti, ciò che pensa e soprattutto anteponen- dolo alle determinazioni del mondo fisico che lo smuove non andremmo più lontano di un articolo di giornale.187

Innanzitutto occorrerebbe capire che tali scontri nascono in una condizione materiale figlia del troppo sviluppo, non del sottosviluppo come ancora crede qualcuno, e da questo punto di vista la rivolta delle banlieue è allora emblema- tica: una rivolta non spontanea ma organizzata, e organizzata proprio attraver- so la rete delle nuove comunicazioni tanto declamate da Castells, in tale senso

postmoderna. Una rivolta globale, aperta, universale, che usa le reti e la socie- tà informazionale per darsi dialetticamente un’organizzazione a distanza fino ad un agire locale che rende conflittuale il territorio. Una rivolta che non riven- dica nulla e i simboli della pretesa integrazione (ma come può integrare una società in disgregazione che li esclude da principio?) li brucia.

Dopotutto la legge della miseria crescente è ormai dimostrata anche dalle istituzioni che guidano il mondo. Il rischio è quello di ritrovarsi, dialetticamen- te, tutto quanto da sempre considerato “Terzo Mondo” in casa. L'ONU avver- te: a causa dell’attuale crisi economica, non congiunturale, l'Occidente è a ri- schio di "favelizzazione". Parigi, Londra, Madrid, Los Angeles, stanno iniziando ad affrontare problemi che erano tipici dei paesi del “Terzo Mondo”. Solo negli Stati Uniti la crisi dei mutui ha lasciato due milioni di persone senza casa e al- trettanti la perderanno nel corso del 2009. Nell'Unione Europea il 16% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nelle periferie dei grandi centri ur- bani, a fianco dei vecchi slum costruiti con orgoglio dal capitalismo di mezzo secolo fa, i grandsensambles, stanno risorgendo le baraccopoli.188

Questo stato di cose è endemico e non è modificabile da qualche decreto governativo che nulla può di fronte ad un precipitare sistematico della situa- zione che, è evidente, si è estesa al mondo intero.

Le maschere e i veli sono ormai caduti. Della vecchia società e della sua ideologia prodotta dal Moderno è rimasto ben poco: stanno sparendo o svuo- tandosi tutti i suoi ammortizzatori ideologici e sociali, quali i partiti, le parroc- chie, i sindacati, insomma tutte quelle istituzioni che tendevano a smorzare una condizione d’esistenza che produceva rabbia e frustrazione, incanalarla fino a farla scemare in mille canali d’integrazione verso e nello Stato e, più in generale ancora, allo stato di cose presenti. Anche se a ben vedere qualcuno che faccia da mediatore sociale lo Stato ancora lo trova, sempre secondo la vecchia politica del bastone e della carota: come le ONG ad esempio, il cui o- perato è denunciato da Davis come “imperialismo morbido”. Specie nel “Terzo Mondo”, queste organizzazioni si dimostrano essere veri e propri cavalli di Troia del Capitale, facendo da mediatori e cuscinetto tra le parti in gioco, sosti- tuendosi spesso allo Stato stesso: gli organismi di controllo internazionali co- me la Banca Mondiale (che intascano la fetta più grande dei profitti che ivi ri- cavano attraverso l’imposizione delle loro politiche non senza conseguenze sul piano urbano) e le varie borghesie locali (che raccolgono i rimanenti profitti la- sciando ai “poveri” le briciole).189

Anche la prassi biopolitica, come spiegata in precedenza, non ce la fa ad assolvere al proprio compito e si lascia scavalcare dal più vecchio metodo di-

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sciplinare, che riemerge inevitabilmente. Dice Foucault: «lo “stabilimento pa- noptico” supererà la forma del blocco disciplinare disseminando e automatiz- zando l’esercizio del potere, in modo che questo non appaia più aggiunto “dall’esterno, come una costrizione rigida o come qualcosa di pesante sulle funzioni che investe, ma sia in esse sottilmente presente per accrescerne l’efficacia”. (M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. Einaudi, Torino 1976, p. 225) Ma nella vicenda dell’architettura e dell’urbanistica moderna», continua Catucci, «il ritorno all’immagine di un blocco disciplinare si ha ogni volta che la gestione della città viene pensata in base a una situazione di emergenza, cosicché anche i motivi della sicurezza, quando vengono ricondotti allo stato d’eccezione dell’incombenza di un pericolo mortale per la convivenza civile, tornano ad essere sottoposti al centralismo di un’autorità politica che riattiva, con le sue dinamiche, le categorie territoriali dell’antico principio di sovrani- tà».190

Quando i vecchi metodi non bastano più ecco che la polizia non è più

quell’”arte del bon governo della società in ogni suo parte” (police) così come inteso ancora fino al Settecento; 191

non può neanche più essere cristallizzata in una pratica biopolitica che forgia anche una particolare composizione urba- na, con i suoi regolamenti circa l’igiene o la distanza tra i complessi edili così come intesa192

ma torna ad agire sul territorio in forma del suo aspetto a noi più familiare, in assetto antisommossa, disciplinandolo con la forza perché è lì che si produce lo scontro, perché è lì che si dispiega la catena del valore, «che si estrae plusvalore dai corpi incatenati al lavoro».193 Quando e se ancora c’è.

Se endemicamente non c’è, come non c’è più quell’alto margine di plusvalore da redistribuire attraverso i mille canali dello stato sociale su quelle aree ur- bane sensibili, tutto rischia di bruciare, non solo metaforicamente. La masche- ra democratica è appunto solo una sovrastruttura che cadendo svela l’intrinseca struttura fascista, come l’abbiamo intesa e esposta nella prima sezione di tesi, quindi anche come connubio tra riformismo sociale e la difesa armata dello Stato.194

Anche la Cia sembra prendere atto della situazione e prepararsi di conseguenza: «”Alla fine degli anni novanta l’insostenibile cifra di un miliardo di lavoratori rappresentanti un terzo della forza lavoro del mondo, in maggioranza nel Sud, erano disoccupati o sottoccupati”. […] non esiste al-

cuno scenario ufficiale che prefiguri il riassorbimento nella corrente principale dell’economia mondiale di questa vasta massa di forza lavoro in surplus».195

Tale situazione è globale, non riguarda una metropoli in particolare ma l’intera metropoli globale, ovviamente con i suoi nodi come principali teatri delle operazioni che si dispiegheranno concentrandosi tra le pieghe degli slum

e dei megaslum: «”Il futuro della tecnica bellica,” scriveva il giornale dell’Army War College, “sta nelle strade, nelle fogne, negli edifici multipiani, nella incon- trollata espansione delle case che formano le città frammentate del mondo… La nostra recente storia militare è punteggiata di nomi di città — Tuzla, Moga- discio, Los Angeles [!], Beirut, Panama, Hue, Saigon, Santo Domingo — ma questi scontri sono stati solo un prologo, mentre il dramma vero e proprio de- ve ancora venire”. […] l’urbanizzazione della povertà mondiale ha prodotto “l’urbanizzazione della rivolta” […]».196

Le nuove mura delle comunità separate/Ora passiamo a vedere come lo

spazio metropolitano reagisce alla polarizzazione sociale e allo scontro che può conseguirle. Da qualche decennio a questa parte stanno prendendo forma sul territorio, contribuendo a frammentarlo e polarizzandolo ulteriormente, nuovi modelli urbani come tanti esperimenti pilota per la città futura, in realtà già presente: «Il vero elemento di mutazione è costituito dalla privatizzazione dello spazio in nome della sua difendibilità e dal suo esito più macroscopico costituito dalla nascita di una nuova città: la città difesa o analogica all’interno di quella ritenuta pericolosa».197

Il “maestro” che impartisce tale lezione di urbanistica sono ancora una vol- ta gli Stati Uniti che in fatto di sperimentazioni urbane di tal genere, cresciute al crescere della polarizzazione sociale (gli USA hanno il secondo più alto tas- so di Gini198

al mondo, dopo il Brasile), ha battuto tutti sul tempo. È negli states

che di fatto prendono forma quelli che Ilardi chiama «i nuovi castelli medieva- li»,199

o Amendola le «comunità-fortezza»,200

riconducibili entrambi all’altro “mito” americano — oltre alla Frontiera, ai grandi spazi aperti, ai paesaggi na- turalistici, alla strada. Un “mito” in realtà del tutto opposto a quello fondato sulle categorie precedenti. Stiamo parlando del “creating defensible space”, ossia la possibilità di creare un quartiere residenziale in cui lo spazio risulti difendibile dall’interno verso l’esterno; un quartiere, spesso militarizzato, en-

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tro cui ricercare una sorta di senso di protezione e sicurezza, separandosi dall’altro, dal prossimo, chiuso al di fuori, quasi nel tentativo di evitare l’ansia d’accerchiamento proprio sapendosi accerchiati ma allo stesso tempo protetti. «Ciò che spinge verso questa privatizzazione difensiva dello spazio è la consa- pevolezza che la criminalità non appartiene solo ai ghetti ma che essa può es- sere ricreata in qualsiasi momento nella crescita della città»,201 ci spiega A-

mendola. La prassi basata sulla creazione dello spazio difendibile «si è diffusa a macchia d’olio nelle zone suburbane delle grandi città americane creando un panorama segmentato nel quale si è di fatto dispersa la dimensione pubblica della città».202

Oggi l’evoluzione naturale di tali quartieri recintati e sorvegliati da mura e apparati tecnologici all’avanguardia sono le gatedcommunities e i cosiddetti

CID (common interest developments, urbanizzazioni di interesse comune).

Prendiamo in considerazione quest’ultimi, visto che sono organizzati attorno ad un “progetto condiviso” fra molti. Progettati in ogni loro parte, chiusi su se stessi e isolati dall’ambiente che li circonda, questi quartieri si basano sulla compenetrazione tra spazio privato e quello d’uso comune (servizi e attrezza- ture) articolato proprio a seconda di quell’interesse condiviso dalla comunità che lì abita, di cui il loro stesso nome ci informa; lo spazio comunemente inte- so “pubblico” non esiste, perché di conseguenza non ce n’è bisogno. Una legge interna, spesso autonoma o comunque in parte svincolata da quella dello Sta- to, ne regola il funzionamento e l’organizzazione.

Tale fenomeno urbano, partito circa trent’anni fa in sordina, oggi ospita ben più di trenta milioni di americani e continua a proliferare senza sosta rappre- sentando un fenomeno tutt’altro che marginale, da non sottovalutare anche perché offre differenti punti di vista sotto i quali inquadrarlo. Ad esempio, non è una dimensione urbana per soli ricchi, come si è portati spesso a credere, ma risponde con prezzi immobiliari accessibili anche alla middle-class ad una forte domanda di mercato. Ciò che salta prontamente agli occhi sono le sue più evidenti caratteristiche, che qua elenchiamo senza la pretesa di riferirle per intero ad ogni CID, visto che in realtà sono molto differenti tra loro: un’operazione di speculazione immobiliare; un trionfo del “privato” contro il “pubblico”; una reazione di chi può pagarsi un “pacchetto urbano” del genere e

con esso un intero “stile di vita” (che appunto è estremamente vario a seconda del tipo di comunità presa in esame) alla povertà e criminalità esterna, e ai lo- ro pericoli; una separazione dall’altro, specie se considerato diverso, magari anche etnicamente. Una comunità chiusa nella propria paura, bisognosa di ri- trovare quel senso di sicurezza che più non percepisce nei tessuti aperti della

normale forma urbana. O anche solo desiderosa di un luogo in cui poter prati- care un modello di vita che magari, oltre i cancelli che la separano dalla socie- tà dello Stato, non riesce a trovare; ecco allora che ne formula un surrogato in scala ridotta, ma ad essa funzionale, per l’occasione.

Tutti questi aspetti costituiscono una visione sicuramente veritiera, ma tut- tavia parziale. Perché se milioni di individui defezionano o cercano comunque di smarcarsi dalla società e dal controllo dello Stato per rifugiarsi insieme a quelli che sentono loro affini in tali organizzazioni urbane (anche se altrettanto autocontrollate e sorvegliate della società lasciata alle spalle) diventando una vera e propria massa la spiegazione non può essere ricercata solo nel bisogno di sicurezza, pur sentito, rispetto a coloro che hanno lasciato al di fuori di quelle mura. Forse c’è qualcosa di più profondo.

Riprenderemo il discorso attraverso alcuni film e nelle conclusioni del se- quel. Per ora rimaniamo strettamente sulla fotografia della situazione. «La ri- cerca di sicurezza e isolamento è ossessiva e universale»,203

e non contraddice affatto quanto detto in precedenza sullo spazio dei flussi che struttura la so- cietà contemporanea, ma anzi ne dimostra il rovescio della medaglia, il dato evidente quando si è in presenza di dualismi di classe. È lo stesso Castells a dimostrarlo: «La segregazione è attuata attraverso la localizzazione in luoghi diversi e il controllo di sicurezza sugli spazi aperti solo all’élite. A partire dai vertici del potere, e dai suoi centri culturali, viene organizzata una serie di ge- rarchie sociospaziali simboliche, così che i livelli inferiori del management possano rispecchiarsi nei simboli del potere e impossessarsene mediante la costruzione di comunità spaziali di second’ordine, che a loro volta tenderanno a isolarsi dal resto della società in una successioni di processi di separazione gerarchica che, insieme, equivalgono alla frammentazione socio-spaziale. Al limite, quando le tensioni sociali si acuiscono, e le città decadono, le élite si rifugiano dietro le mura delle gatedcommunities, le comunità chiuse e recin-

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tate che si sono diffuse in tutto il mondo alla fine degli anni Novanta, dalla Ca- lifornia meridionale al Cairo e da San Paolo a Bogotà».204

Come dicevamo all’inizio, Davis ci informa che tali tipologie urbane stanno infatti prendendo piede anche nei paesi del “Terzo Mondo”, dove «la segrega- zione urbana non è uno status quo congelato quanto un’incessante guerra so- ciale in cui lo stato interviene regolarmente in nome del “progresso”, dell’”abbellimento” e perfino della “giustizia sociale per i poveri” per ridise- gnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, dell’élite dei proprietari di case e dei pendolari delle classi medie. Come nella Parigi degli anni sessanta dell’Ottocento […] la ristrutturazione ur- bana tende ancora a massimizzare simultaneamente il profitto privato e il con- trollo sociale. L’odierna scala di rimozione della popolazione è immensa: ogni anno centinaia di migliaia, a volte milioni, di poveri — tanto inquilini legittimi quanto occupanti abusivi — vengono espulsi con la forza dai quartieri del Terzo mondo. I poveri urbani, sono nomadi, “transitanti in un perpetuo stato di ricol- locazione”. […] Nelle grandi città del Terzo Mondo, il ruolo coercitivo del Pa- nopticon di “Haussmann” viene svolto da agenzie di sviluppo destinate specifi- camente a questo; finanziate da prestatori esteri come la Banca mondiale e immuni dai veti locali, il loro mandato consiste nello sgomberare, costruire e difendere isole di cybermodernità in mezzo a necessità urbane insoddisfatte e al generale sottosviluppo».205

«Certamente di antichi quartieri dorati ne resta- no […] ma il nuovo trend globale che si è affermato dai primi anni novanta è la crescita esplosiva dei sobborghi esclusivi chiusi, alle periferie delle città del