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«Slum, semi-slum, super-slum: a questo è giunta l'evoluzione delle città».138

Patrick Geddes

Qualche puntualizzazione semantica/Prima di procedere oltre occorre pun-

tualizzare alcune questioni di natura semantica. Di fatto oggi, appena la parola periferia ci giunge all’uditorio il nostro cervello la elabora e fa sorgere in noi la spontanea domanda: se l’uomo ha dinanzi a sé questa entità vivente definita metropoli globale, presa come spazio e orizzonte di manovra entro la quale relazionarsi, ed essendo tale metropoli globale una rete di città, definite a loro volta globali (considerabili come nodi e hub della stessa), come riesce ad indi- viduare e avanzare un’analisi urbana impostata o filtrata ancora dalle catego- rie quali “centro” e “periferia”? Dopotutto se sono declinate, anzi decadute, quelle di “interno” ed “esterno”, non vediamo come possano essere ancora va- lide le altre due sopradette. Il rischio è allora quello di intercorrere in una con- fusione di natura semantica. Nell’epoca delle reti, alla presenza sia tangibile che virtuale di una struttura metropolitana a rete, orizzontale, estesa su tutto il globo terracqueo, è ovvio che un qualsiasi elemento, urbano o meno, può stare collocato sia in periferia sia in centro, ma pare ancora più ovvio che — non essendo più alle prese con una struttura gerarchico-piramidale urbana come quella elaborata dal Moderno — ciò dipenderà dal punto di riferimento assunto, da cui guarderemo quel dato elemento. Ça depend, quindi. La que- stione va relativizzata.

Ecco allora che quel quadro di riferimento preso in precedenza come strumento di indagine può tornarci di nuovo utile per far chiarezza a riguardo. Le attuale determinazioni materiali ancora faticano a scalzare dal nostro sen- tire comune la vecchia concezione piramidale e verticalista di “centro” e “peri-

feria” tramandataci dal Moderno. Si è ancora catturati dal fatto che, qualunque sia il punto di riferimento, periferia è tutto ciò che sta oltre qualcosa; e questo “qualcosa” è per lo più un “limite fisico”.

Se poi questo “limite fisico” cambia e muta, o si sposta, nel corso del tem- po poco importa: fossimo vissuti all’epoca della rivoluzione industriale a- vremmo indicato con periferia le prime conurbazioni e slum operai e fabbriche sorti oltre le mura abbattute delle vecchie città, ad esempio, anche se non e- rano che l’embrione della periferia che sarebbe venuta in seguito — e, a ben vedere, di questo primo approccio mentale ne sono comunque rimaste delle tracce come dicevamo, nonostante il divario temporale ormai più che secolare. Dopodiché il Capitale, divenuto allora primo motore della crescita urbana, s’è dato la forma fascista, agendo all’interno dei confini nazionali tentando di por- re rimedio, attraverso l’urbanistica (che nasce sull’onda della rivoluzione indu- striale proprio in chiave riformista, ossia agendo a posteriori), ai disastri pro- vocati appunto dalla prima massiccia crescita urbana, senza tuttavia evidenti e definitivi risultati. È proprio col fascismo che si assiste al definitivo trapasso dal dominio formale a quello reale del Capitale sulla società.139

La sussunzione dell’esistente al Capitale è totale, quindi anche la prassi urbanistica. La città continua a crescere, diventa metropoli, e sposta sempre un po’ più oltre il suo limite fisico-urbano. Secondo Ilardi «è la nascita della metropoli a rappresentare la grande rivoluzione spaziale della seconda metà del Novecento: abbatte le mura delle grandi città del Moderno e disegna lo spazio infinito, fluido, immateriale, senza luoghi e senza storia, del mercato globalizzato».140

Come dicevamo, nel frattempo il limite (tangibile, fisico e ur- bano) si è andato allargando sempre più sul territorio, superando anche i rac- cordi autostradali nel frattempo sorti come arterie di circolazione, o come me- tastasi, attorno alle metropoli sempre più grandi, cristallizzazione di lavoro morto accumulato; o, come direbbe Lévi-Strauss, cellule tumorali sul corpo del pianeta. Mentre lo spazio metropolitano s’è fatto uno attraverso la metro- poli globale escludendo ogni “esterno” ed “interno”, oggi quel limite fisico e urbano è così marginale che si è perso tra le sue pieghe e territori, fino a con- fondersi con altri limiti di altri poli urbani più o meno grandi di questa rete me- tropolitana nel frattempo tessuta.

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S’è fatto quindi mutevole, sfuggente, ma tuttavia riconoscibile. Mappabile. E con esso i nuovi territori periferici che inquadra. Riferendosi alla situazione at- tuale, dice ancora Ilardi: «Le periferie […] sono le zone estreme della città, fluide, mobili, poco definite, veri e propri spazi di frontiera che accompagnano la colonizzazione metropolitana del territorio che avanza senza soste. […] Da qui prende forma il territorio metropolitano che va oltre i raccordi e le tangen- ziali […]».141

Tralasciando — per ora — il suo contenuto sociale, sicuramente la

periferia oggi è anche questo. Ma perché allora escludere gli slum, i grands ensambles, le banlieue, le favela, e tutto quello che, sempre secondo una or- mai vecchia mentalità è ancora considerato cintura urbana periferica?

Diciamo subito che nel discorso che avanziamo sulla periferia trovano spa- zio anche e soprattutto i quartieri e le zone urbane residenziali, specificando ovviamente a quale classe sociale sono destinati: altrimenti il rischio è quello di far comprendere nello stesso discorso generico tipologie abitative magari simili per un aspetto - ad esempio proprio per via del fatto che si trovano en- trambe nelle cosiddette periferie, anche se agli antipodi di una stessa area metropolitana — e estremamente diverse per un altro (ad esempio la qualità e il valore della residenza stessa). Scartando i quartieri suburbani tipicamente

yankee come quelli visibili in una miriade di film o serie televisive americane e d’importazione, concentreremo la nostra attenzione esclusivamente sui quar- tieri un tempo noti come “proletari”, allargando il discorso fino ai megaslum

del “Terzo Mondo”: questa è la cintura periferica globale che vogliamo indaga- re. Poi, che sia legale o meno poco importa in quest’ottica. Se oggi sentiamo parlare della banlieue, ad esempio, è normale che il nostro pensiero la associ alla periferia di Parigi, e non certo agli Champs-Élysées. Troppo facile, direte voi. Ma, appunto, questa è solo una semplificazione filtrata da un sentire co- mune che ancora perdura nonostante la struttura a rete che si sta dando il mondo. In realtà la questione è più complessa e articolata.

Ecco allora che sono le stesse città globali ad indicarci come e dove questi territori, considerati ancora nel senso comune come periferici, oggi si artico- lano e prendono il sopravvento, imponendosi coi fatti fino a divenire centrali. Allora l’antica dicotomia tra “centro” e “periferia” resta, ma sotto forme com- pletamente nuove e mutevoli, che prevedono anche la stessa inversione dei

ruoli. Ad esempio, come già accennato in precedenza, la cintura urbana delle

banlieue, pensata in genere periferia di Parigi, può considerarsi più centro di una qualsiasi città o metropoli del cosiddetto “Terzo Mondo” presa nella sua interezza, sia per questioni geografiche che economiche e politiche. O cultura- li. Se stiamo in un contesto globale, fra le maglie di una rete metropolitana globale, in uno spazio che non prevede “esterno” e “interno”, il paragone è più che legittimo.

Allo stesso tempo poi, la banlieue può essere più centro dello stesso “cen- tro storico” parigino, magari per questioni legate alla produzione, o alla popo- lazione. Nel cosiddetto centro ormai non abita più nessuno, specialmente ri- spetto alla banlieue. Solo negozi e scorci per turisti. Nelle banlieue invece c’è il cuore pulsante della città. Non sono marginali anche se, sempre secondo la vecchia concezione spaziale, stanno ai margini. Ma è lì che si concentra la po- polazione, lì che ci sono le machine à habiter con le fabbriche a contorno. E se sono chiuse quelle fabbriche è ancora peggio. Senza contare poi che dopo i fatti del novembre 2005 la banlieue è diventata centrale anche dal punto di vi- sta sociale, nonché mediatico. Ma forse in realtà lo è sempre stata. Questo di- scorso ovviamente non elude neanche il “Terzo Mondo”: lo stesso Mike Davis ammette che «in effetti, le zone suburbane di molte città povere sono in realtà così estese da suggerire la necessità di ripensare la periferialità».142

Nei casi come la banlieue, o gli slum, le favela, ecc., ecco allora che prefe- riamo usare il termine “periferiacentrale”, intendendola in senso lato, proprio per sottolinearne la doppia, mutevole e intercambiabile natura.

Un’altra conferma proviene anche dal semplice fatto che possiamo ritrova- re zone ed aree urbane ben precise, delimitate e riconducibili ad una dimen- sione periferica collocate però nelle zone più interne, centrali, del tessuto ur- bano. Ciò, se da una parte è un dato di fatto consolidato nella composizione urbana delle città americane (dove solitamente le zone più “povere” stanno verso il centro, chiuse verso l’interno),143

oggi lo si evince soprattutto dai tes- suti urbani interni alle saskiane città globali, che ci permette anche di allarga- re il discorso dalle città prese singolarmente ad interi territori e aree geografi- che contribuendo alla demolizione della sempre falsa e moralistica contrap- posizione tra “paesi ricchi” e “paesi poveri”, invece che sul piano sociale, tra

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classi, al di là dei confini nazionali: «L’acuirsi del divario tra gli estremi, evi- dente in tutte la maggiori città dei paesi sviluppati, porta a mettere in discus- sione la nozione di paesi “ricchi” e di città “ricche”. Questo fenomeno suggeri- sce che la geografia della centralità e della marginalità, concepita in passato in termini di dicotomia fra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, oggi si manifesta all’interno delle loro maggiori città. […] La condizione di margina- lità si manifesta in differenti contesti geografici, a seconda della dinamica eco- nomica prevalente. È possibile osservare forme di “periferizzazione” nel centro delle principali città dei paesi sviluppati, in prossimità di alcune aree commer- ciali più costose del mondo».144

Memori di quanto esposto a riguardo della teoria marxiana della rendita, nonché quella assoluta dell’accumulazione capitalistica, vediamo come le città globali, o le megacittà esposte da Castells, reagiscono in conseguenza allo stato di cose attuali. Tali città, è stato dimostrato, sono poli d’attrazione di ca- pitali che circolano per il globo, sui mercati, e che si vanno a fissare là proprio dove sono già storicamente accumulati, appunto le città. I capitali si trascinano dietro gli uomini, intenti a rincorrerli, che giungono il più delle volte dallo stes- so entroterra di queste città globali, o megacittà. Di questa nuova espressione fisica della forma urbana accennata in precedenza Castells dice: «Fungono anche da magneti per l’entroterra, ovvero per l’intero paese o area regionale in cui sono situate. Le megacittà non possono essere considerate solo in ter- mini di dimensioni, ma in funzione del potere gravitazionale che esercitano verso le grandi regioni del mondo».145 Ciò fa si che sia «una forma contrasse-

gnata dai collegamenti funzionali che crea attraverso vaste distese territoriali, tuttavia con notevole discontinuità nello sfruttamento dei suoli. Le gerarchie sociali e funzionali della megacittà sono spazialmente indistinte e mescolate, organizzate in accampamenti recintati e irregolarmente cosparse da sacche impreviste di usi sgraditi. Le megacittà sono costellazioni discontinue di frammenti spaziali, pezzi funzionali e segmenti sociali».146

È qui che si insinua- no crescendo senza sosta e allargandosi sempre più sul territorio, invadendolo con costruzioni d’ogni sorta — specie abitative — a seconda della collocazione geografica assunta. Tale fatto è enormemente visibile oggi nei paesi del “Terzo Mondo”.

Ecco quindi come «[…] non è possibile ridurre il fenomeno della città globa- le a pochi nuclei urbani posti al vertice della gerarchia. Si tratta di un processo che collega servizi avanzati, centri di produzione e mercati in una rete globale, con intensità e scala diverse a seconda dell’importanza relativa delle attività localizzate in ciascuna area in rapporto alla rete globale. All’interno di ogni paese, l’architettura del networking si riproduce a livello regionale e locale, così che l’intero sistema diviene interconnesso su scala globale. I territori che circondano questi nodi svolgono un ruolo sempre più subordinato, diventando talvolta irrilevanti o persino disfunzionali, come, per esempio, le colonias po- pulares (in origine colonie di occupanti abusivi di terreni pubblici) di Città del Messico, che rappresentano circa i due terzi della popolazione della megalo- poli senza giocare alcun ruolo distintivo nel funzionamento di Città del Messico quale centro economico internazionale».147

«Oggi l’emergenza periferie è in realtà un’emergenza della città tutta, un suo stato endemico di crisi. Un autorevole studioso di questioni urbane, Mike Davis, ha commentato il Global Report delle Nazioni Unite sulla situazione de- gli “slums” nel mondo sostenendo che gli slums sono il tipo dilagante di peri- feria, più difficile — ma mica tanto — da rintracciare nell’Occidente europeo e prevalente però in tutta l’Africa, l’Asia, l’America Latina come, per parlare di luoghi a noi prossimi, nei Balcani e nell’Est europeo. Davis ricorda che sono state le politiche del FMI nei confronti del “terzo mondo” a incrementare la fu- ga dalle zone rurali e che il futuro che ci aspetta è un futuro di povertà in e- normi zone urbanizzate. Le cifre della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite sono agghiaccianti. Si parla da qui a vent’anni di un mondo in cui il 90% della povertà sarà urbana e dove il 50% dell’umanità vivrà sotto la soglia di povertà in condizioni urbane degradate».148

«Resta comunque difficile dare un’idea complessiva delle problematiche che ruotano intorno alla realtà delle periferie del mondo quali sono riemerse con forza negli ultimi mesi. Il fenomeno urbano, che secondo Saskia Sassen sarà il fenomeno preponderante nei prossimi cinquant’anni, ha costanti che attraversano continenti e paesi accomunando le geografie più diverse».149

Una legge inesorabile/«Il processo di urbanizzazione del pianeta è stato ancora più rapido di quanto avesse predetto nel 1972 il Club di Roma con il suo

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I limiti dello sviluppo, rapporto notoriamente maltusiano. Nel 1950, le città con una popolazione superiore al milione di abitanti erano ottantasei in tutto il mondo; oggi sono quattrocento, e nel 2015 saranno almeno cinquecentocin- quanta. Le città, in pratica, hanno assorbito quasi i due terzi dell’esplosione della popolazione globale iniziata nel 1950, e attualmente stanno crescendo al ritmo di un milione di unità, tra nuovi nati e immigrati, alla settimana. […] Di conseguenza, le città rappresentano praticamente tutta la futura crescita de- mografica, il cui picco dovrebbe essere toccato nel 2050 con circa dieci miliar- di di persone»,150

dice Davis, che poi continua: «[…] le politiche di deregulation agricola e di disciplina finanziaria imposte dal Fmi e dalla Banca mondiale hanno continuato a generare un esodo del surplus di manodopera rurale verso gli slum urbani proprio quando le città cessavano di essere macchine produt- trici di posti di lavoro».151

Peccato che Davis veda l’FMI come il “male” che im- pone le sue politiche quando è solo un organismo, seppure potentissimo, che risponde però alla volontà anonima e autonoma del Capitale in processo.

L’aumento della popolazione è un dato di fatto. Che il capitalismo in quanto tale c’entri forse qualcosa? La specie umana è andata sempre aumentando, ma solo negli ultimi due secoli ha avuto un’impennata impressionante pas- sando da circa un miliardo di individui della metà dell’Ottocento (“rivoluzione industriale”) ai sei miliardi e oltre attuali; senza contare che, agli attuali ritmi di crescita si arriverà a quota dieci miliardi entro il 2050, come scrive Davis. Una “questione demografica” in astratto non esiste. Semplificando: nella se- zione A della tesi avevamo accennato al processo d’accumulazione originaria attraverso il quale il Capitale si dà un esercito industriale preventivo liberando la forza-lavoro dai vincoli più antichi. Poi, attraverso l’industria, attira a sé tale manodopera liberata di cui ha bisogno per crescere. Inizia e si sviluppa col passare dei decenni l’assorbimento e l’espulsione della stessa dai cicli produt- tivi a seconda delle fasi di contrazione ed espansione della produzione, fino a che — con l’aumentare della produttività — la produzione stessa fa sempre più a meno della composizione organica. Insomma, è l'industria che produce in un primo tempo l'occupazione, ma dall'aumento della forza produttiva degli oc- cupati deriva la conseguente liberazione dal bisogno di forza-lavoro. Ciò che sembra un evento contingente, si rivela in realtà una modifica strutturale. Ec-

co quindi come la sovrappopolazione che si viene storicamente a creare - con- naturata al bisogno crescente di manodopera da parte del Capitale e al con- temporaneo avanzare della forza produttiva sociale — è relativa appunto a que- sto modo di produzione.

La sede — e il risultato — di tale processo sono appunto le metropoli gigan- tesche: i paesi che stanno affrontando alti tassi di sviluppo hanno più bisogno di altri di un esercito industriale di riserva — sovrappopolazione latente, per lo più massa contadina residua: suo movimento potenziale verso il ciclo produtti- vo — e, ammodernandosi, se lo producono spontaneamente. I paesi sviluppati che soffrono della concorrenza di quelli emergenti devono elevare la produtti- vità e ciò provoca disoccupazione che si tenta di assorbire con leggi apposi- te.«Il capitale nutre in sé ad initio il vizio logico, e il limite naturale, d’essere un modo di prodursi della macchina sociale che mentre fonda la propria dinamica in processo sull’integrazione a sé delle energie organiche della specie, è con- dannato ad alimentare irreversibilmente la crescita autonomizzata della mac- china per sé, e a ridurre sempre di più la parte di vita organica integrata al processo, a mano a mano che la parte di vita organica integrata nel processo viene convertita in accumulazione crescente di lavoro morto, ossia viene ad aggiungersi, fatta macchina, alla macchina, incrementandone tanto l’autonomizzazione come la prevalenza quantitativa».152

E allora vediamo come le periferiecentrali delle metropoli reagiscono a ta- le situazione. Oggi, specie dopo la pubblicazione de Il pianeta degli slum di Mi- ke Davis, si tende ad appiattire la stessa parola “slum” automaticamente entro una dimensione che includa esclusivamente le baraccopoli, le favela, le bidon- ville, insomma tutti quegli ambienti urbani spuntati ai margini delle città glo- bali attraverso la pratica dell’autocostruzione spontanea, e quindi illegali, da parte delle enormi masse umane lì attirate. In realtà in questo lavoro di tesi vogliamo intenderli in una dimensione più ampia, alla vecchia maniera, che in- cluda cioè al suo interno anche quanto prodotto in Occidente, in Europa, so- prattutto nella seconda metà del secolo scorso. Vogliamo cioè considerare la parola “slum” secondo un’ottica geddesiana,153 che comprenda sia quanto au-

tocostruito dall’uomo costretto in determinati condizioni d’esistenza che quan- to prodotto, dallo Stato o dai privati, in conformità alla legge, e concretizzazio-

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ne materiale di determinate istanze che in parte abbiamo già visto e che ora andremo ad approfondire.

La banlieue e i grands ensembles come paradigma dello slum europeo e

occidentale/«Una raccolta di saggi sui grands ensambles pubblicata da un gruppo di ricerca dell’Università Paris VIII si è posta la questione della legitti- mità cioè di un confronto tra realtà urbane di paesi lontani e con storie molto diverse, come la Francia, la Corea del Sud, l’Italia, la Polonia, l’Algeria, la Bul- garia. Certamente la visione comparativa ha i difetti della generalizzazione e della de contestualizzazione, ma il pregio di far risaltare le caratteristiche co- mune e il diffondersi di tendenze parallele»,154

spiega Franco La Cecla. Gene- ralizzare, astrarre dalla complessità del reale. È proprio quello che abbiamo voluto fare attraverso l’analisi di quel processo irrefrenabile di ammassamen- to umano e urbano sintetizzato e schematizzato — attraverso Marx — nella leg- ge della miseria crescente, il meccanismo strutturale alla base dei fenomeni qui discussi.

Da questo punto di partenza ora possiamo vederne i risvolti dialettici e so- vrastrutturali, mettendo «in luce come nel caso delle periferie una medesima ideologia modernista abbia attraversato frontiere e cortine di ferro, ma anche oceani e catene montuose imponendo una visione compatta della questione delle abitazioni». Ne abbiamo dato già una precisa sistemazione storica nella