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«Io sono un cineocchio. Io sono l’occhio meccani- co. Io, macchina, vi illustro il mondo come io solo posso vederlo. Io mi libero, da oggi e per sempre, dall’immobilità umana, io sono in continuo movi- mento, io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, striscio sotto di essi, vi monto sopra, io mi muovo fianco a fianco col muso di un cavallo in corsa, io irrompo, a piena velocità, nella folla, io corro da- vanti ai soldati in corsa, io mi lascio cadere sul dorso, io mi levo in volo con gli aeroplani, precipi- to e risalgo, in volo con corpi che precipitano e ri- salgono».208

Dziga Vertov

«Immaginatevi un film hollywoodiano sulla Bibbia. Una città da qualche parte in Terra Santa. Scena di mercato: da destra a sinistra comparse avvolte in stracci colorati, pellicce, vestiti di seta entrano nell’inquadratura vociando, ge- sticolando, roteando gli occhi, litigando, ridendo, grattandosi la barba, con le parrucche che gocciolano colla, affollandosi al centro dello schermo agitando bastoni, pugni, rovesciando bancarelle, travolgendo animali… La gente grida. Sta vendendo qualcosa? Predica il futuro? Invoca gli dèi? Borse vengono strappate, criminali catturati (o aiutati?) dalla folla. Sacerdoti predicano la pa- ce. Bambini scorrazzano in un sottobosco di gambe e di vesti. Animali lanciano il loro grido. Statue si rovesciano. Donne urlano (minacciate? In estasi?). l’agitazione della folla si fa oceanica. Ondate si frangono. Ora togliete l’audio: silenzio — un gradito senso di sollievo — e fate scorrere il film all’indietro. Uo- mini e donne, ora muti ma ancora visibilmente in agitazione, balzano

all’indietro: chi guarda non percepisce più solo corpi umani ma inizia a notare spazi tra l’uno e l’altro. Il centro si svuota; le ultime ombre abbandonano il ret- tangolo dell’inquadratura, probabilmente a malincuore, ma per fortuna non possiamo udirli. Il silenzio ora è rafforzato dal vuoto: l’immagine mostra ban- carelle vuote, frammenti calpestati. Sollievo… è finita. Questa è la storia della città. La città non esiste più. Ora possiamo uscire dalla sala…».209

Come non citare tale spassoso paragone formulato da Koolhaas in una tesi che indaga il divenire della forma urbana attraverso le correlazioni col divenire del cervello sociale? E che si propone di indagare ancora più a fondo il riflesso della metropoli globale — l’attuale forma urbana — nella cinematografia con- temporanea — espressione parziale del cervello sociale? Non ci siamo proprio trattenuti dal farlo, anche perché ci offre una scusa per introdurre il discorso metropoli globale-cinema. Ecco che allora ci permetteremo di criticare quanto scritto da Koolhaas per l’occasione.

Perché sostenere che la città non esiste più, che oggi è scomparsa lascian- do al suo posto solo una scena vuota di rottami? E quei corpi che l’animavano? Dove sono finiti? E se la città non esiste più, cosa è rimasto al suo posto? La verità è che Koolhaas desidererebbe che le cose stessero davvero così, e con la sua metafora sembrerebbe quasi prefigurare non semplicemente la sus- sunzione totale dell’uomo, dei corpi nella loro interezza al Capitale — già avve- nuta nel passaggio tra dominio formale e dominio reale sulla società — ma an- che della loro “immagine residua”, fino alla definitiva evanescenza e scompar- sa dell’essere. Cosa che nella realtà si traduce nella resa del corpo dell’uomo ad appendice — il corpo vivo, organico, è comunque necessario all’estrazione di plusvalore, linfa vitale del Capitale — ed all’annichilimento dello spirito ridotto a pura immagine, fantasma che pian piano si dissolve e svuota: da ciò la facol- tà di operare sul corpo urbano come più e meglio aggrada.210 Il trionfo del morto sul vivo. Tuttavia, proprio le contraddizioni insite nel meccanismo d’accumulazione stanno rianimando questi corpi-appendice assopiti, con effet- ti sempre più visibili, concretizzati in seno ai giganteschi snodi metropolitani.

E allora ci sentiamo in bisogno di ribadire a Koolhaas, che la città è ancora qui, pulsa e freme più viva che mai, anche se materialmente è solo cristalliz- zazione e accumulo di lavoro morto. È come un organo, vivo, anzi: troppo vivo,

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perché la sua vitalità costruttiva è — oggi — analoga a quella di un cancro, e ciò la porta a divorare in continuazione se stessa e quelle poche aree geografiche che ancora tentano di sfuggire all’imposta religione del costruire. Ma al mo- mento tale aspetto, causato dal blocco esercitato dall’economia politica, è tra- scurabile: vi torneremo in seguito, nel sequel.

Guardiamo allora all’altra forma di vitalità della città, alla sua popolazione. Ripartiamo allora dai corpi biologici che come molecole sociali si muovono in- contrandosi o scontrandosi, o alienandosi, sui tessuti del corpo urbano. Corpo urbano che non è semplice scena o contenitore distaccato dell’azione, ma pro- tagonista, co-protagonista e alfine anche regista di quanto vede accadere in sé, correlando la sua massiccia presenza all’azione dell’uomo, interagendo con il suo corpo, i suoi gesti, fino a determinarli.

Ad un certo punto della metafora Koolhaas parla di una situazione alta- mente caotica, dove tutti si agitano sulla scena rendendola partecipe dell’azione. Ecco, questo è il momento in cui ci pare gusto premere momenta- neamente il tasto “pausa”, o ancora meglio il tasto “ralenty” (conservando la dinamicità del divenire), per poter cogliere al meglio il momento che forse più autenticamente ci restituisce la situazione metropolitana attuale. È proprio quel tratto di pellicola che coglie bene la città, non quello che rimane al termi- ne, dopo. Dopo cosa, poi? Un dopo ancora non c’è stato, ancora siamo — ricor- darsi delle “teorie della complessità” — in una situazione di caos. Ovviamente quanto qui scritto è una libera interpretazione dell’immagine metaforica for- mulata da Koolhaas; magari se ne potrebbero dare altre e differenti (è eviden- te ad esempio che il centro dello schermo sia per lui il corrispettivo del centro urbanamente inteso dove prima la massa si accalca per poi fuggirne disper-

dendosi), ma abbiamo comunque voluto estrapolarne un senso più ampio e

consono al nostro obiettivo di fondo.

Come lo strumento cinema opera sulla forma urbana/Come Koolhaas ha

restituito la sua visione della città attraverso un immagine cinematografica, lo stesso faremo noi nelle pagine che seguiranno. Le nostre armi saranno, come detto, alcune produzioni cinematografiche contemporanee (successive al 1989, anno preso da noi come spartiacque temporale) che, tenendo presente quanto scritto in tutte le pagine di questa seconda sezione di tesi, in una maniera o

nell’altra sono riuscite a farsi riflesso della metropoli globale, a registrarne le caratteristiche e i dinamici mutamenti degli spazi e dei territori urbani in essa compresi. Finanche ad anticiparli.

Attraverso la molteplicità di punti d’osservazione tra loro più o meno corre- lati, l’immagine filmica indaga sulle condizioni dell’habitat urbano, della città. In primo luogo il cinema mette in scena la città, la descrive, ne parla, effettua uno sguardo analitico della spazialità urbana, diventa strumento di conoscenza del testo urbano. L’occhio della macchina da presa guarda la città attraverso un’angolazione che non è presente nel modo di rappresentazione classico a cui l’urbanistica e l’architettura si riferiscono: la mappa, la cartografia o il di- segno di architettura sono ancora visioni che incorporano solo alcuni aspetti dell’universo urbano, in particolare quelli suscettibili di misurazione nonché quantificazione.

«Il desiderio di vedere unitariamente la città molto spesso prevale, o quan- tomeno precede, quello di viverla. Questo antico e diffuso desiderio di impos- sessarsi visivamente e cognitivamente della città trova, però, risposta sempre meno facilmente. La crisi della città sembra essere anche una crisi di imma- ginazione della città. I vecchi paradigmi sembrano aver raggiunto il limite di rottura dopo decenni di continui adattamenti. L’ordine urbano non è facilmente rinvenibile, del resto, solo per mancanza di punti di vista e per la difficoltà di prendere la distanza dall’oggetto. È, per usare un concetto di Sennet, la crisi dell’occhio: tanto di quello colto dello scienziato quanto di quello semplice ma esperto del cittadino. Anche sul piano puramente esperienziale non esistono mezzi collaudati ed attendibili per unificare nell’immagine e nel senso la città. Di visioni o progetti totalizzanti come la torre, il panorama a volo d’uccello, il quadro dei vedutisti o le immagini dei pittori rinascimentali non ne esistono più. Gli strumenti tradizionali si rivelano inadeguati. La grande metropoli con- temporanea sfugge allo sguardo d’insieme, si sottrae alla possibilità di essere appresa dalla persona grazie a una torre, ad un colle o semplicemente alla fa- tica di un pittore. Quando la costruzione dell’insieme è possibile grazie a nuove tecnologie come le foto satellitari, il risultato è spesso inutilizzabile: una mac- chia cromaticamente suggestiva ma priva di qualsiasi significato. Dall’altra parte c’è la pratica di vivere la città dal basso, c’è l’esperienza elementare del

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pedone che, cieco nei confronti della complessità urbana che resta per lui o- paca, esperisce la città senza però disporre di strumenti adeguati alla sua comprensione totalizzante».211

Se un modello si può trovare è quello del jazz che, come notava Ejzenš- tejn, è l’unica metafora efficace della città contemporanea per aver sostituito il canovaccio al plot. Questa capacità di rappresentazione della città nuova con- temporanea e del suo mondo frammentario e discontinuo del jazz la ha al pari del cinema, considerato tradizionalmente, da Benjamin in poi, arte urbana per eccellenza, per la sua abilità di cogliere l’effimero, il segmentato, l’eventuale, lo spontaneo della città».212

È il cinema a mette assieme le diverse anime della città, la microfisica del- lo spazio e le grandi dimensioni territoriali, sia quando esso testimonia dell’ordine della realtà, sia quando osa al limite dell’impossibile, e magari as- surge a simbolo. In secondo luogo l’immaginario cinematografico reinventa, attraverso la manipolazione della spazio-temporalità della città, un nuovo te- sto urbano nel film, costruendo una scrittura di immagini: esse possiedono la qualità di rinforzare l’esperienza reale e di performare l’immaginario individu- ale e collettivo, mettendolo però, come diceva Leroi Gourhan riferendosi agli audiovisivi in genere, sui dei binari che ne limitano la capacità di interpretazio- ne ossia costringendolo sul solo dato visibile. E costringendo a sua volta l’elaborazione immaginifica nella dimensione dello scarto tra ciò che è dentro e ciò che resta tagliato fuori i margini dell’inquadratura, ovvero «nella relazio- ne fra ciò che si vede e ciò che non si vede» (Jean-Louis Comolli).

Ma il film costituisce un’esperienza totale dello sguardo piuttosto che del

pensiero: un viaggio nelle cose attraverso il gesto di vedere. Dietro lo sguardo di ogni film-maker c'è un mezzo (medium), un dispositivo cinematografico che consente di osservazione e rielaborazione del reale, una capacità di pensare per immagini in movimento, per percetti dinamici. Attraverso il linguaggio del- le immagini il dispositivo cinematografico, correlato all’uomo che lo impiega, individua un modo di nominare il mondo, selezionando alcuni particolari, sot- tacendone altri e oggettivando nel fotogramma anche ciò che compare incon- sapevolmente all’interno della inquadratura.

Se all’inizio della sua storia, o in alcuni casi durante il suo percorso, il ci- nema si è configurato come strumento di documentazione e testimonianza fi- lologica del reale, è divenuto ben presto luogo della sperimentazione e della rielaborazione delle immagini del reale, a questo punto inteso in senso lato. Il montaggio ne è l’aspetto più evidente. Lo abbiamo visto ad esempio l’opera dei film-maker sovietici Vertov e Ejsenštejn, espressione di un nuovo simbolico at- traverso cui decifrare e sintetizzare il reale. E magari prefigurarlo. Ciò ha dato la possibilità al cinema di ridisegnare lo spazio della rappresentazione, di ri- comporre ciò che è stato parcellizzato attraverso una processualità diegetica che costruisce una visione della realtà oggettiva. Possiamo allora dire che il dispositivo cinema riflette il mondo reale mettendolo in forma. In altre parole ciò che cambia è il gesto che porta al medesimo risultato: la realtà, o una real- tà che ovviamente può essere anche immaginata, pre-vista; ed è in tal senso che si rapprenderà nella forma più consona che la esprima. Le tecnologie in- formatiche, ad esempio, consentono di realizzare immagini credibili seppur non esistenti, permettono di assistere ad un evento impossibile che appare pe- rò convincente; l’attuale epoca digitale, dei nuovi media elettronici e digitali, implementa in maniera incessante sempre nuovi algoritmi che progressiva- mente rendono ripetibile dal punto di vista visivo il mondo naturale.

Nelle pagine che seguiranno non si è semplicemente voluto fare una ras- segna di quei film che in modo o nell’altro hanno contribuito ad imprimere sul- la pellicola le più diverse location urbane fino a creare una sorta di carnet o bussola d’orientamento che possa tornare utile di tanto in tanto, e dove ogni film è considerato a sé, senza alcun collegamento con l’altro. Quello che si è cercato di costruire è un discorso logico e evolutivo tutto incentrato su un'uni- ca direzione e dove i film stanno in correlazione tra loro e rispetto all’obiettivo — anche se per comodità verranno presentati ognuno a sé, con la propria scheda, posti in ordine alfabetico. Essi sono il mezzo attivo e dinamico di cui ci serviamo per avanzare e rendere al meglio la nostra analisi della metropoli contemporanea presa nei suoi differenti aspetti.

Da questo punto di vista quindi, e come suggerisce il sottotitolo di questo capitolo, non escludiamo affatto tutte quelle pellicole che, non mostrando o trattando in maniera diretta l’argomento “metropoli”, ne danno lucide inter-

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pretazioni per via indiretta. Magari attraverso metafore o simbolismi, attraver- so immagini che le racchiudono, insomma non semplicemente la metropoli

per come si mostra sullo schermo ma la metropoli per come viene immagina-

ta, specie nella sua tensione verso un futuro: «La città del cineasta non è solo il visibile della città. È possibile, anzi, che proprio questo scarto in rapporto al visibile sia la dimensione peculiare del cinema. Composizioni, luci, velocità, segni. La città è un sistema di corrispondenze: essa si concentra su un certo numero di effetti di “cinegrafia urbana”; si riassume in un florilegio d’intensità significanti. Essa fa segno» (Jean-Louis Comolli).

Detto questo, abbiamo scartato quelle pellicole che si limitano a produrre magari delle ottime scenografie che però rimangono puramente tali, non en- trando in profonda tensione dinamica con i corpi che vi si muovono.

Altra cosa di cui non abbiamo tenuto conto sono i cosiddetti generi cinema- tografici. Indipendentemente da quali che siano di pellicola in pellicola, il con- cetto di metropoli così come filtrato dalle pagine precedenti è sempre centrale e diventa talvolta scenario imprescindibile, se non addirittura elemento carat- terizzante dell’azione filmica: in quanto contesto ambientale entro il quale i personaggi si muovono e agiscono, esso fornisce le coordinate spaziali della narrazione e indica i punti di riferimento visuali necessari alla comprensione dello sviluppo dell’azione. In molti dei film che seguiranno lo spazio — urbano o meno — appare sempre in forma problematica; caratteristica di tali film è in- fatti quella di mostrare per poi rielaborare.

Quello che abbiamo fatto è stato poi escludere a priori le eventuali pellicole d’animazione; non per qualche pregiudizio — ovvio — ma perché in esse manca uno degli elementi fondamentali di cui si compone la nostra tesi: il corpo u- mano, vivo. Certo, neanche il corpo in carne ed ossa dell’attore sulla pellicola è vivo ed umano, ma resta sempre un’immagine residua di sé impressa sulla pellicola; un’immagine residua che ha alla base il gesto intrinsecamente uma- no dell’interpretazione e della rappresentazione calata nello spazio tridimen- sionale (anche se si dovesse trattare di una scena in chroma key girata in uno dei tanti studi hollywoodiani). «Fatalmente la più figurativa fra le arti (a questo serve la nota impressione di realtà) il cinema privilegia ancora la figura, il cor- po umano, di cui offre ai giorni d'oggi la rappresentazione più compiuta»(Jean-

Louis Comolli). Se nelle pagine precedenti non abbiamo dato troppo peso e spazio d’analisi all’uomo — sia inteso nella sua dimensione sociale che indivi- duale (comunque correlata) —, ai corpi umani gettati nei meandri metropolitani e ai loro comportamenti è perché abbiamo preferito discuterne in merito alle singole pellicole di seguito analizzate, in modo da darne una visione più detta- gliata e puntuale a seconda del caso o dei casi esposti dal film stesso.

Infine, due veloci parole su un genere — anche — cinematografico quale il

cyberpunk, essendo i suoi contenuti alla base diverse pellicole trattate. Il cyberpunk come riflesso della scienza e della tecnica nella produzio- ne artistica…/Tutte le nuove scoperte nei differenti campi scientifici condotte a partire dalla seconda metà del secolo scorso non possono non stimolare l’immaginazione e la creatività umana, specie se messe in relazione con un presente fatto di sfruttamento capitalistico e quindi di asservimento generale dell’uomo al sistema delle macchine, nonché di crescita urbana senza limiti concreti. È sull’onda di tali realtà scientifiche e sentimenti diffusi nella società che andava globalizzandosi che prende corpo il cosiddetto movimento Cyber- punk.213

Le sue origini sono da rintracciare non solo nelle scoperte scientifiche dell’epoca, ma anche tra le pieghe della letteratura anglo-americana fiorita durante gli anni Sessanta del Novecento214 e ovviamente nelle serie televisive

sempre americane.215

Essi ci guidano in un mondo di corporalità mutanti, di codici immaginari, di ricercate contaminazioni tecnologiche, in cui il concetto di uomo, si offusca fino a scomparire, o meglio si supera per evolversi in un concetto superiore, più esteso e completo, il cyborg, ibrido biotecnologico dove l’uomo si confonde con la macchina e dove persino la facoltà stessa di pensare sfuma tra le due parti, cosi come sfuma ogni preteso e limitante antropocen- trismo.216

Uno dei maggiori temi del Cyberpunk è il rapporto che emerge tra l'essere umano e la tecnologia, che tende ad esprimersi prioritariamente nel rapporto con il corpo fisico dell’uomo, non esclusa la mente, che forma un tutt’uno con esso. Il corpo umano cessa in questo modo di essere qualcosa di immutabile e diventa un elemento modificabile e tecnologico. Un corpo cyborg

diviene sinonimo di libertà conquistata, simbolo del bi(sogno) di un'umanità che nella tecnologia ha trovato il modo di sorpassare la sua neotenia innata. Il

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cyborg non genera dualismi tra corpo e mente, naturale ed artificiale, ma anzi è il prodotto della stessa natura umana.

…e come negativa proiezione futura delle contraddizioni presenti/A

questo punto però occorre precisare quella che è la vera essenza del movi- mento Cyberpunk, o almeno ciò che lascia intendere più facilmente. Cos’è che lo contraddistingue maggiormente? Abbiamo detto il rapporto fra l’umano e il tecnologico. Bene, ma nelle storie che narra, siano esse letterarie o cinemato- grafiche, questo rapporto tende ad essere osservato in negativo. Esso preferi- sce cogliere il lato catastrofico di tale rapporto; a conti fatti questa visione è più che normale: estremizzando i caratteri del presente in cui l’uomo è co- stretto a vivere e proiettandoli in un qualche futuro, il risultato che si ottiene è determinato dalla paura di vedersi ridotti come schiavi delle stesse macchine, resesi autonome, dotate di volontà propria e rivoltose contro il genere homo. È difficile pensare altrimenti per un movimento nato in seno al sistema di mac- chine capitalistico, di cui l’uomo è o ingranaggio o appendice.217

Quindi le ope- re cyberpunk estremizzano quello che già c’è nella nostra realtà quotidiana, proiettandolo idealmente più oltre nel tempo e possono esserci di prezioso a- iuto e fornirci alcune chiavi di lettura con cui affrontare la nostra indagine sugli attuali spazi metropolitani del pianeta, siano esse metafore o allegorie, siano nuovi termini sotto cui inglobare gran parte delle realtà urbane del presente.

La questione del controllo/Ancora una precisazione. Alla luce di quanto