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crescita urbana e il distacco del cinema dalla metropol

Il fascismo come realizzazione del dominio reale del capitale/L’avvento del fascismo contribuisce a soffocare i contenuti più eversivi delle avanguardie, a ripiegarle su lidi più conformi al nuovo corso mondiale uscito dalla sconfitta rivoluzionaria. Il fascismo qui è da intendersi in senso lato, ampio, e tuttavia l’unico dialetticamente ammissibile. Di fatto non è riconducibile semplicemen- te a singoli periodi di governo di questo o quel particolare paese, non è una po- litica economica passeggera che dura un ventennio condita da varie sovra- strutture ideologiche. È l’organizzazione (a scala nazionale ma generalizzato a tutte le nazioni capitalistiche) che si dà il capitalismo per far fronte alla crisi dello stesso e iniziare la sua fuoriuscita dai propri precedenti limiti coincidenti con quelli angusti della sola sfera dell’economia politica;227

porre sotto con- trollo l’economia attraverso lo Stato, impadronendosene; tendere all’eliminazione delle classi e delle normali lotte intestine e aperte che ne conseguono per via giuridica e corporativa, per decreto insomma, realizzando nella pratica una sorta di “contratto sociale” rousseauiano, una democrazia sociale avente come vertice ideologico la nazione.228

Detto in altre parole, è attraverso il fascismo che il Capitale passa dal do- minio formale al dominio reale229

sul corpo sociale e su quelli biologici, su ogni sua forma di vita, attuando la «generalizzazione del dispotismo di fabbrica all’intera società».230 Il Capitale muove quel definitivo passo verso la totale au-

tonomizzazione dall’uomo, rendendolo appendice e dominandolo nel corpo e

nello spirito. Inizia la colonizzazione della stessa vita umana e da avvio alla suo divenire comunità fittizia che lega a sé gli uomini in un rapporto totale di valo- re.231 In questo senso il fascismo è la forma del capitalismo giunto “alla frutta”, potenzialmente estinto, che cerca attraverso lo Stato di regolamentarsi e sal- varsi dall’inevitabile crisi in cui s’è cacciato.

In questo senso sono pertanto da considerare fascismi non le sole Germa- nia e Italia, ma anche gli Stati Uniti, l’URSS e le democrazie occidentali dei “fronti popolari”, nonché il Giappone. Anche gli stati precedenti di matrice so- cialdemocratica, come la repubblica di Weimar, sono da considerati tali: di fat- to i programmi riformisti proposti ma incapaci ad attuare saranno poi realizza- ti con successo solo dai fascismi dittatoriali seguenti, loro riflesso dialettico.232

Attraverso delle schematizzazioni semplificatrici vediamo che la loro struttura economica e sociale è la medesima, così come i loro interventi statali applicati a mo’ di cura, al di là delle ovvie sfumature politiche, semantiche o ideologiche di cui si ammantano. Anche nell’estetica architettonica delle loro sedi di pote- re, ad esempio, si equivalgono: tutte queste nazioni tendono ad un banale e- clettismo classicista nelle intenzioni tendente a rinnovare la memoria retorica di un lontano passato. E poco importa se alcune di loro non l’hanno mai vissu- to. Comunque, i fascismi, dotandosi di uno Stato decisionale forte ed efficace, si propongono di prendere sotto controllo anche la crescita urbana delle me- tropoli, cercando di regolarne l’espansione e porvi rimedio attraverso differenti politiche urbanistiche a riguardo: «quando il capitale perviene al dominio rea- le, lo Stato diviene impresa specializzata con l’incarico di razionalizzare l’anarchia della società».233

La standardizzazione della vita e l’estetica della fabbrica/Facciamo un piccolo passo indietro. Bisogna anche considerare il fatto che l’uscita dal pri- mo conflitto mondiale e le distruzioni arrecate alle città provoca un’emergenza abitativa non indifferente che spinge gran parte del mondo architettonico a impegnarsi nella ricerca di abitazioni famigliari economiche, facili e rapide da realizzare, occupanti il minor spazio disponibile, standardizzate: è in questi anni che si gettano le basi teoriche e pratiche per quell’”inscatolamento degli uomini” che dominerà la maggior parte delle costruzioni architettoniche e ur- bane della seconda metà del secolo, e che discuteremo più avanti. A riguardo

degli alloggi minimi in periodo di emergenza abitativa «gli studi di Alexander Klein sono a questo proposito esemplari».234

Anche le già citate correnti architettoniche riconducibili alla neue sachli- chkeit e all’esprit noveau operano in larga parte negli anni Venti. Entrambe trovano la loro origine nel determinismo dei processi reali, proprio come le forme delle loro architetture, la cui estetica è dettata dalla fabbrica, dai pro- cessi di lavorazione, dalla serializzazione, dal taylorismo e fordismo, dai tempi di produzione. Da questa base comune, si sviluppa in seguito un’ampia varietà di punti di vista, sostenuti e motivati in maniera reciproca dai molti protagoni- sti del tempo sia tramite differenti adesioni ideologiche o scelte politiche sia da differenti idee sul rapporto fra l’arte e l’architettura stessa.

La neue sachlichkeit tedesca, che ideologicamente guarda all’URSS come la terra in cui sarebbe possibile sperimentare totalmente la nuova architettu- ra sbocciata dalla fabbrica (terra da cui sarà bandita negli anni Trenta per in- compatibilità col realismo sovietico imperante), pretende che la stessa archi- tettura sia interamente sottoposta alle ragioni e alle leggi quantitative della produzione edilizia, votata all’internazionalismo dello stile, oggettiva come la tecnologia che ne era la base, meccanizzata come la società del tempo a cui si rivolgeva. Vedono nella tecnica asservita all’economia un qualcosa di oggetti- vamente rivoluzionario, in un confusione ideologica che trova nella fordizzazio- ne della produzione e della vita una sorta di socialismo, o meglio, un america- nismo socializzato, socialista.235

Da tali posizioni non possono certo applaudire per l’esprit nouveau, di cui Le Corbusier è il principale rappresentante. Egli fondamentalmente ritiene che l’arte non dovrebbe soccombere o addirittura essere espulsa dalla progetta- zione architettonica. Pertanto rivendica, accanto al concetto di machine à habi- ter (per i suoi contenuti condiviso grosso modo anche dalla neue sachlichkeit), quello di machine à émouvoir (macchina a emozionare), che rivendicava il fon- damento artistico perenne dell’architettura al di là e al di sopra di ogni tecnica, vecchia o nuova che fosse.236

Questa visione porta allo scontro di cui sopra, avvenuto alla fine degli anni Venti. In realtà lo scontro è pressoché ideologico: le correnti di pensiero, an- che interne fra i diversi gruppi, sono molte, e molte sono le etichette che si

danno, ma tutte traggono giustificazione dalla moderna industria. Anche lo stesso esprit nouveau, che considera l’estetica non solo come prodotto indu- striale, ma anche come processo di ricerca individuale ed intellettuale, dettato dall’ego dell’architetto. Ma il punto che più le accomuna fra loro, e allo stesso tempo le separa dalle precedenti avanguardie, è dato dal fatto che le due cor- renti, ed il Movimento Moderno in generale (il movimento architettonico a cui appartengono ricercante l’estetica nella funzionalità dell’opera), non puntano alla trasformazione della società, nei suoi contenuti e quindi nelle forme, quanto della sua veste solamente. Ad esempio come espresso dallo stesso Le Corbusier in Architettura o rivoluzione, capitolo finale del suo pamphlet Vers une Architecture del 1921 intriso da un economicismo a dir poco triviale: lo svizzero, lamentando il ritardo con cui l’estetica nata dalla fabbrica tarda a permeare le abitazioni degli operai, dopo molte righe dal sapore retorico e morale su lavoro e famiglia arriva a sostenere che basta dare una casa, e quindi una città, modellata sui canoni architettonici e urbani da lui propugnati per far si che tutti siano felici e contenti, evitando per di più nientemeno che una possibile rivoluzione.237

L’esperienza della città-giardino e dei suoi derivati tra speranza e de- generazione/Torniamo ad occuparci della crescita metropolitana e delle mi- sure avanzate per il suo contenimento facendo ancora un ulteriore passo in- dietro, necessario, ai primi del Novecento. È a ridosso di quegli anni infatti che prendono corpo le prime concrete proposte urbanistiche miranti a risolvere l’ormai insostenibile problema. Dopo Haussmann infatti, e fino al termine dell’Ottocento, la forma urbana non è interessata da processi di innovazione nel campo della pianificazione, ma continua la sua crescita incontrollata, e- spandendosi sul territorio che la circonda, senza ostacoli.

Di conseguenza, ad inizio Novecento si manifestano le prime reazioni in op- posizione ai disastri urbani provocati dall’espansione tentacolare delle metro- poli, in particolare in Gran Bretagna, dove tenta di prendere piede una legisla- zione relativa alle attrezzature, ai servizi urbani e alle abitazioni della classe più colpita dalle conseguenze dell’urbanesimo. Alla nera città-ciminiera di ini- zio Ottocento risponde un secolo dopo la verde città-giardino. Vengono propo- sti due nuovi metodi di insediamento, che per la verità rispondevano più alle

voglie e ai desideri della piccola borghesia che alle cosiddette masse proleta- rie: la Garden City di Ebezen Howardappunto e la Cité Industrielle di Tony Gar- nier.238 Ma le loro “buone intenzioni” falliscono ben presto. «Entrambi [Howard

e Garnier], in altri termini, sembravano condividere implicitamente l’illusione, ognuno a modo suo, che, superata la fase di sviluppo incontrollato e selvaggio delle forze produttive, fosse oramai possibile recuperare l’equilibrio urbano e territoriale che la rivoluzione industriale e l’urbanesimo avevano infranto, e anzi costruire un nuovo e più significativo equilibrio, reso possibile dal pro- gresso tecnico stesso».239

La fase di sviluppo incontrollato e selvaggio delle forze produttive però non è mai stata superata nonostante vari tentativi (come il fascismo). I progetti di Howard e Garnier nascono sbagliati in partenza per- ché, pensati per una società (ed un’economia) in equilibrio, non tengono conto delle reali condizioni poste dal modo di produzione, nel contesto del quale si trovano ad operare.240

Anzi, divengono nel giro di breve tempo, proprio sull’onda di quella sete costruttiva incontrollata del Capitale, l’opposto di ciò che desidera combattere ed eliminare: crescita suburbana a macchia d’olio, speculazione, lottizzazione, alta densità abitativa, dormitorio per lavoratori pendolari verso i centri maggiori.241

Una periferia suburbana come ce ne sono tante.

Comunque il modello fa subito scuola, e nel 1934 ispirerà anche la Broada- cre City di Frank Lloyd Wrigh, sorta di città idealizzata, orizzontalista, dove ad ogni famiglia è concesso un acre di terra su cui costruire la propria casa ed isolarsi così dalle altre.242

Un caso particolare: höfe e siedlungen/Se non lo Stato sarà il Comune ad intervenire massicciamente sulla gestione del corpo urbano come nel caso viennese.243

L’amministrazione socialdemocratica e riformista si lancia in un ambizioso programma edile-urbanistico, convinta anche di smentire l’impossibilità di risolvere il problema della casa per via riformista sostenuta a suo tempo da Engels attraverso affitti che, secondo l’amministrazione, incida- no minimamente sui salari.244 Peccato che questi diminuiscano regolarmente

di fronte alle elevate tasse imposte ai proprietari terrieri e immobiliari, capita- listi detentori dei mezzi di produzione dove lavora chi andrà ad occupare quelle case. Le tasse, che costituiscono il capitale impiegato per la costruzione di

nuovi alloggi, sono in pratica lavoro non pagato ai lavoratori viennesi che indi- rettamente si pagano la casa. La politica del bastone e la carota insomma.245

La tipologia abitativa di tali alloggi è racchiusa nella parola tedesca höfe, letteralmente: corti, ampi spazi verdi parzialmente attrezzati con servizi es- senziali come lavanderie, bagni e asili, circondati e chiusi su ogni lato dalle imponenti masse dei blocchi abitativi pensati per centinaia, se non migliaia di famiglie. In verità il modello degli höfe è scelto in seguito ad un’avvincente di- scussione politica, ideologica e architettonica: da un lato i sostenitori di questa struttura residenziale e dall’altro i promotori delle siedlungen. Gli höfe, al con- trario di queste ultime, non presentano novità tipologiche e costruttive; sono sostanzialmente tradizionali e ciò è visibile dalle strutture portanti in muratu- ra, dalla disposizione interna degli ambienti negli appartamenti e dai materiali usati. È evidente che difettano di ricerca architettonica. Soprattutto non hanno la pretesa di cambiare la forma della città o di ipotizzarne una nuova; al con- trario, si incastonano silenziosamente nei terreni liberi della periferia, e, come tante fortezze dal sapore “medievale” chiuse su se stesse, mostrano alla città i loro fronti compatti.246

Il rivale tipologico ed ideologico degli höfe viennesi è, o meglio, sono le te- desche siedlungen, sviluppatesi maggiormente nella città di Francoforte. An- che qui prevale l’edilizia sovvenzionata. A rendere particolarmente significativo il caso di Francoforte è l’applicazione sistematica dei nuovi principi tecnologici e costruttivi messi a punto in quegli anni. Ogni siedlungen è un laboratorio in cui si sperimentavano nuovi schemi urbanistici e tipi edilizi, «sia pure a scapito dell’economicità delle realizzazioni, i cui affitti risultavano infatti inaccessibili, nella maggior parte dei casi, agli strati meno abbienti della popolazione».247

Le

siedlungen, a differenza degli höfe, hanno una carica ideologica architettonica più evidente. I suoi propugnatori (in particolare Ernst May e Martin Wagner) considerano ancora l’architettura e la progettazione urbana come discipline indipendenti dal contesto materiale, capaci con la loro azione di decidere o mutare, a seconda dei casi, da sole la città e l’assetto del territorio.248

La sie- dlungen si compone di una lunga serie di case uni-famigliari in linea, rettilinea o meno, a seconda del sito su cui sorgevano. Ogni casa affaccia su di un picco- lo giardino, rigorosamente orientato lungo la direzione Nord-Sud. Gli spazi in-

terni dell’abitazione ruotano intorno alla cucina, con bagno esterno e una netta separazione delle stanze-giorno da quelle per la notte.

Nel corso degli anni venti la tipologia tedesca della siedlungen ha una maggiore diffusione su quella austriaca, o meglio viennese, degli höfe, che ri- mane una sorta di esperienza urbana locale. Il modello tedesco, accettato dai CIAM (congressi internazionali d’architettura moderna, organismi simili a “parlamenti” del Movimento Moderno) come orizzonte logico delle loro propo- ste, all’inizio degli anni Trenta entra in difficoltà, sia per la crisi economica di quegli anni sia per l’avvento del regime nazista da un lato, nonché per il rifiuto ideologico da parte dello Stato sovietico dall’altro.

Le città italiane di nuova fondazione: forse un caso unico nel suo gene- re/Anche le vecchie città italiane riprendono a crescere; interi quartieri ven- gono costruiti nei pressi dei nuovi capoluoghi di regioni e provincie istituiti dal governo. Lo storicismo e la teoria del diradamento nei centri storici di giovan- nonniana memoria lascia il posto alle politiche urbanistiche haussmanniane

che giungono ad essere praticate in Italia con un po’ in ritardo rispetto al resto del continente (come del resto gli effetti della rivoluzione industriale) e si con- cretizzano nella politica urbana di Marcello Piacentini, il quale sostiene gli sventramenti di alcuni centri storici, lo sviluppo delle città a macchia d'olio, l'apertura di viali radiali, l’affiancamento della città antica alla moderna (ne è un esempio il quartiere dell’Eur), l’espulsione dei proletari dal centro storico verso nuovi quartieri periferici, contribuendo alla ridistribuzione del corpo so- ciale sul territorio romano.249

Tuttavia anche in Italia si diffondono i contenuti del Movimento Moderno (qui da noi indicati come Razionalismo italiano) provenienti in particolare dal centroeuropea. Milano è la città che più ne subisce l’influenza, e raccoglie con giovanilistico entusiasmo questo nuovo spirito architettonico che è nell’aria. Il contagio non lascia indifferente neanche Carlo Emilio Gadda, che schernisce i risultati della nuova architettura definendoli Rettangoluzzi Razionali.250

I Ra- zionalisti italiani (riassumibili nella corrente milanese - Gruppo 7 - e in quella romana) non sono liberi come i loro colleghi europei dal retroterra storico in cui operano, ma si trovano presto costretti a dover fare i conti col bagaglio cul- turale architettonico italiano, che affonda le sue radici nella classicità antica;

un buon compromesso sarà raggiunto dalla corrente romana del razionalismo italiano durante gli anni Trenta, nelle città laziali di nuova fondazione.

Vale la pena quindi aprire una piccola parentesi al riguardo delle città fon- date ex-novo dal regime fascista in Italia, nel basso Lazio, forse, sotto un certo punto di vista, un episodio unico nel mondo. Realizzatore pratico dei pro- grammi sociali e assistenziali statali propugnati dalle vecchie socialdemocra- zie di inizio secolo, il fascismo italico, attraverso il controllo corporativo pres- soché totale sull’economia nazionale, promuove prima la bonifica delle paludi dell’Agro Pontino romano, dopodiché avvia la costruzione di cinque nuove città, degni manifesti edificati della miglior ricerca architettonica ed urbana del ra- zionalismo italiano, con venature sia metafisiche, evidenziate anche dalle om- bre lunghe dei porticati, che futuriste, anche se queste ultime trovano riscon- tro per lo più nel mito della velocità, ovvero nella rapidità dei lavori di cantiere. Littoria (oggi Latina), Sabaudia, Pontina, Aprilia, Pomezia: sono edificate dal ‘32 al ‘39, ognuna richiede meno di un anno di lavori. In realtà il programma del regime prevede la realizzazione di numerose new-towns sparse un po’ su tutto il territorio nazionale, ma il secondo conflitto mondiale bloccherà il loro sviluppo.251

La spinta alle bonifiche e all’edificazione di nuovi centri urbani là dove prima c’erano le paludi viene dalla necessità da parte del regime di trova- re delle condizioni economiche favorevoli all’aumento della popolazione italia- na e, allo stesso tempo, dall’esigenza di arrestare la migrazione continua dei contadini dalle campagne alle città, con conseguente ingrossamento e sovraf- follamento delle stesse. Le cinque nuove città elencate in precedenza devono evitare proprio tale esodo: mentre prima il contadino che migrava in città ab- bandonava la terra e la falce, e quindi la propria condizione rurale, in cambio di un martello e di un lavoro da salariato, ora, forse per la prima volta nella storia dell’urbanistica, si inurbano contadini che rimangono tali. Ciò è larga- mente fattibile in quel particolare periodo storico grazie all’economia guidata posta sotto il controllo dello Stato.

Le nuove città sono moderni centri urbani, ma conservano un forte senso di richiamo al mondo rurale, stimolato in parte dalla stessa propaganda di regi- me. Queste città, pur rappresentando una commistione tra tradizione ed inno- vazione, non sono tanto distanti dal razionalismo internazionale (nel luglio del

1933, durante il IV congresso dei C.I.A.M, gli architetti italiani affrontano il te- ma della bonifica), ma comunque, tentando uno spostamento dell’idea di mo- dernità dalla mitteleuropa al bacino del Mediterraneo, se ne distaccano, cer- cando una via più intima e maggiormente legata alla tradizione classica nazio- nale, cosa che in quegli anni riesce benissimo al giovane architetto comasco Giuseppe Terragni.

Le new-towns italiane non andranno incontro al totale fallimento degli stessi presupposti, come alcune di quelle britanniche del secondo dopoguerra, come vedremo. Esse sono il risultato di un’attenta politica economica che cer- ca di prevenire il problema del sovraffollamento, non risolverlo di conseguen- za.

Due parole sul Terzo Reich e sull’URSS/Dalla Germania nazista il Movi- mento Moderno emigra in blocco all’estero portandosi dietro le sue teorie sul- la casa e sulla città, inconciliabili con la retorica ideologica del nazismo. Tutta- via è curioso notare che il regime non disprezza affatto l’estetica determinata dalla fabbrica purché questa sia impiegata appunto per costruire la fabbrica stessa, il luogo di lavoro, mentre trova intollerabile che la famiglia tedesca possa allevare la sua prole in una “macchina ad abitare”: allora via con l’heimatstil, il regionalismo, il neo-medievalismo e giù di lì. Per quanto riguar- da lo stile ufficiale dello Stato è d’obbligo citare Albert Speer, giovane architet- to rampante al servizio del führer che traduce in materia le fantasie dello stesso e il sogno del Reich millenario in un tripudio di «neo-classicismo gre- co-alemanno, con pilastri dorici scanalati, marmi, scalee, e dovunque statue allegoriche, aquile, croci uncinate».252

Guardiamo ora all’URSS. Passata l’euforia dei primissimi anni autentica- mente rivoluzionari, a prevalere maggiormente sul terreno pratico sono però le esperienze architettoniche ancora legate in qualche modo al passato e ai suoi contenuti; gran parte degli sforzi teorici e pratici sono assorbiti dalla ri- cerca sulla casa per famiglie operaie. Si comincia a discutere di abitazioni per l’operaio e non per l’uomo al di là delle classi sociali. Ciò si fa sempre più fre-