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IL RIFLESSO MENTALE, URBANO, ARCHITETTONICO E SOCIALE DEL POSTMODERNISMO

«La retina è il punto di vendita: vedere è compra- re. Nel moderno capitalismo da casinò la cittadi- nanza è una carta di credito, la democrazia un gioco d’azzardo».95

Michael Sorkin

Facciamo una puntualizzazione su questo termine: “postmoderno”. Negli ulti- mi due decenni del secolo scorso era entrato così tanto nel lessico comune da venir usato per indicare qualsiasi cosa non trovasse ragion d’essere rispetto ai canoni di pensiero e agli schemi forniti in precedenza, appunto, dal Moderno. Ogni cosa sembrava essere post, tanto che Giovanni Lindo Ferretti cantava «qualcuno è post senza essere mai stato niente»,96

come a ribadire che dietro a quella parola in realtà c’era una manchevolezza di fondo che tuttavia non ne invalidava l’uso. Comunque sia, «per quanto il concetto di postmoderno possa essere approssimativo, “passato da un complicato neologismo a un cliché ab- bandonato senza essere riuscito a conseguire la dignità del concetto”, gli va riconosciuto il merito di avere costituito uno dei principali strumenti per riflet- tere sulle grandi trasformazioni sociali e culturali che stiamo attraversando».97

Forse converrebbe limitarsi a darne una definizione “in negativo”, ossia come quell’insieme di caratteri che non trova ragion d’essere nelle categorie del Moderno e delle epoche precedenti.

Abbiamo già discusso in merito alla nascita di ciò che spesso viene indicato come postmoderno in architettura e in urbanistica, ne abbiamo messo in luce già alcuni aspetti, ci siamo avvalsi di Calvino e de Le città invisibili per com- prenderne meglio l’essenza. Tuttavia, dice Amendola, ancora oggi si incorre nella «difficoltà del linguaggio a fornire gli strumenti per descrivere la nuova città. […] sono necessarie, più che mai, le metafore e ne servono di nuove»,98

problema da noi risolto proprio analizzando la forma umana nel suo divenire storico, collocandola nella sua dinamica secondo quel paragone correlato al corpo umano biologico e al cervello sociale, tematiche di fondo di tale lavoro di tesi che ormai dovrebbero essere ben chiare.

Ora, stando ben ancorati al presente, cerchiamo di entrare in maniera più specifica negli spazi della metropoli globale per come definita in precedenza, ripartendo proprio dalle analisi urbane della Sassen: «L’architettura e l’ingegneria civile hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire i nuovi ed espansi scenari urbani per le esigenze organizzative dell’economia globale. È, questa, un’architettura intesa come infrastruttura abitata. La molto discussa omogeneizzazione del paesaggio urbano in queste città è la risposta a due si- tuazioni diverse, una delle quali è il mondo consumistico con i suoi tropi omo- geneizzati che contribuiscono ad ampliare e a standardizzare i mercati tanto da consentir loro di globalizzarsi. Il fenomeno va distinto dall’omogeneizzazione derivante dalle esigenze organizzative dell’economia globale: ultramoderni quartieri di uffici, aeroporti, alberghi, servizi e complessi residenziali per una forza lavoro strategica. L’architettura e l’ingegneristica hanno inventato e prodotto simili ambienti all’avanguardia e hanno fornito i vo- caboli visivi fondamentali per rimodellare significative porzioni di queste città. Tale rimodellamento risponde alle necessità collegate al fatto di dover ospita- re queste nuove economie e le culture e le politiche che da esse derivano. Questo ambiente omogeneizzato destinato ad accogliere le funzioni più com- plesse e globalizzate è maggiormente simile a un’”infrastruttura”, anche se non nel senso tradizionale del termine. Né è semplicemente un codice visivo finalizzato a segnare un alto stadio di sviluppo, come viene tanto spesso postu- lato in molti commenti sull’argomento e sostenuto da molti urbanisti. È ne- cessario andare oltre i tropi visivi e l’effetto omogeneizzante, indipendente- mente da quanto illustre possa essere l’architettura. La chiave del problema sta allora nel capire ciò che abita questo ultramoderno paesaggio urbano o- mogeneizzato ricorrente di città in città. In tutte queste città scopriremo molta più diversità e molte più specializzazioni particolari di quanto facciano pensare i paesaggi urbani di recente creazione».99

Questo, in sintesi, il punto di parten- za e d’arrivo del presente capitolo.

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Lo sprawl urbano, o della città diffusa/Di certo la forma urbana attuale è venuta mutando negli Stati Uniti e solo successivamente è dilagata globalmen- te in maniera pressoché spontanea, ossia seguendo semplicemente l’anarchia intrinseca del mercato a cui risponde, anch’esso globale. Tentiamo allora di tracciarne una generica evoluzione schematica. In principio erano le edge ci- ties, le cosiddette città di margine, sorte a punteggiare lo spazio suburbano degli USA circa appena vent’anni fa;100

ma tali organismi urbani rappresentano solo un aspetto parziale del fenomeno. Precedentemente al il loro affermarsi infatti si era già diffuso sul territorio lo sprawl, reso poi celebre come cultura

dal movimento Cyberpunk. Come già accennato, tradizionalmente con tale ne- ologismo si intende sottolineare l’invasione della campagna da parte dello spazio antropizzato della città, come se le costruzioni di cui quest’ultima si compone invadessero come tanti microorganismi un tessuto biologico. Ne de- riva quel pulviscolo urbano e antropico senza soluzione di continuità tra città e campagna di cui abbiamo già accennato, dove l’una si confonde nell’altra in maniera caotica, negando le caratteristiche positive di entrambe. Non solo, il termine “sprawl” preso alla lettera significa anche “stravaccamento urbano” e con esso vengono indicate le zone d’espansione d’una città che invadono il pa- esaggio amalgamandosi con esso, spesso fino a fondersi con un altro tessuto urbano cresciuto nelle vicinanze e a pavimentare l’intero suolo. L’intera costa est degli USA e l’immediato entroterra sono considerati un più che valido e- sempio di sprawl, questo tappeto urbanizzato e tenuto insieme dalla fitta rete stradale che connette ogni suo punto. Anche se pare aver fatto il suo tempo, tale concettoha contribuito comunque a rendere più riconoscibile e largamen- te identificabile gran parte di questa nuova forma urbana, attraverso di esso in un certo senso ri-semantizzata.

Lo sprawl, definibile anche come città diffusa, non ha tardato a prendere piede in tutto il resto del mondo, pur tuttavia trovando al di fuori dei confini americani quell’ostacolo, tuttavia facilmente sormontabile, rappresentato dai “luoghi storici”, di cui al contrario l’America è libera. Sovrapponendosi ad essi spesso mercificandoli, mummificandoli in un processo di museificazione o svuotandoli delle loro antiche funzioni, oppure insinuandosi tra di loro, in que- gli spazi dove in un non troppo lontano passato resisteva ancora la campagna,

la città diffusa ha contribuito a quell’omogenizzazione estetica del paesaggio dai contenuti però fortemente eterogenei. Visibile un po’ dappertutto nella pe- nisola italica, dove lontano dai grandi centri urbani domina una provincia non più rurale e non ancora pienamente urbana, tale fenomeno fa apparire i centri storici come tante isole perse nel mare di questo avanzante tessuto antropico; uno spazio frattale del più grande spazio metropolitano globale, lontano dai grandi nodi della rete mondiale ma comunque compreso e incastrato tra le sue maglie, attraversato dai suoi flussi, materiali e virtuali che siano, auto- strade e tecnologie informatiche. Una realtà connessa e allo stesso tempo di- sconnessa, che si lascia semplicemente attraversare, uniformata dal mercato e dalla merce. E da tutto ciò che ne consegue sul piano urbano.

Ma il cosiddetto sprawl non risparmia neppure il “Terzo Mondo”: «Il risulta- to di questa collisione tra rurale e urbano in Cina, in gran parte del Sudest a- siatico, in India, in Egitto, e forse anche in Africa occidentale è un paesaggio ermafrodito, una campagna parzialmente urbanizzata che secondo Guldin po- trebbe essere “un nuovo significativo percorso di insediamento e sviluppo u- mano […] una forma né rurale né urbana, ma una miscela dei due caratteri in cui una fitta rete di transazioni lega grandi nuclei urbani alle loro regioni cir- costanti”».101

I non luoghi/«La rivoluzione spaziale provocata dal mercato globalizzato ha, dunque, rappresentato una radicale trasformazione della percezione dello spazio […]. La tecnologia, l’informatica, la comunicazione […] hanno ampliato fino al limite estremo questa percezione».102 La realtà in fermento scombina

dunque i pensieri e produce confusioni semantiche, guidando anche il pensie- ro dei singoli che posti di fronte ad essa la interpretano cercando di coglierne le peculiarità in trasformazione. L’essenza intrinseca e la stessa cultura gene- rata dallo sprawl ben si accompagnava a quel concetto etnologico e urbano emerso di gran lena negli anni Novanta: i non luoghi. «I non luoghi, secondo la definizione di Marc Augé (1992), sono gli spazi della circolazione delle persone e dei beni, della mobilità continua, del flusso ininterrotto delle presenze; sono quelli delle stazioni ferroviarie, degli aeroporti, delle multisale cinematografi- che, ma anche dei mezzi di trasporto, dei grandi centri commerciali e dei mu-

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sei sono gli spazi che non hanno identità, non promuovono relazioni sociali, non hanno spessore storico».103

La Città Generica/L’evoluzione dei concetti di sprawl e di non luogo per certi versi sembrerebbe essersi incarnata nei concetti di Città Generica e Jun- kspace, figli di quello che attualmente potremmo considerare la punta di dia- mante ideologica del firmamento dei cosiddetti archistars:104 Rem Koolhaas.

Se oggigiorno gli architetti sentissero il bisogno di un nuovo “guru” che li illu- mini, ebbene l’olandese sarebbe forse la persona più adatta. Giornalista, scrit- tore prolifico e in seguito riciclatosi nella disciplina architettonica, è riuscito a trarre una frizzante interpretazione che sembra scritta di pugno e con lirico cinismo dallo stato di fatto della forma urbana attuale: «La città contempora- nea è come l’aeroporto contemporaneo (“tutti uguali”)? È possibile definire te- oricamente questa convergenza? E in caso affermativo, a quale configurazione ultima tende?».105 Inizia così, ponendo al lettore e a se stesso queste domande, La Città Generica, un suo piccolo phamplet che «appare come una serrata re- quisitoria sul destino della città occidentale. Se, da una parte, la Città Generica

è, infatti, la città che si è eroicamente liberata “dalla schiavitù del centro” e “dalla camicia di forza dell’identità”, “spezzando l’asfalto dell’idealismo con il martello pneumatico del realismo”, dall’altra essa è la città definitivamente

sedata, il “luogo di sensazioni deboli e rilassate”, il trionfo di una “terribile quiete” che si compie tramite l’evacuazione della sfera pubblica, [mentre il]

Junkspace esplora la natura “architettonica” della Città Generica: il suo Dna spaziale».106

Dice Koolhaas: «Se [la Città Generica] invecchia non fa che autodistrugger- si e rinnovarsi. È ugualmente interessante o priva di interesse in ogni sua par- te. È superficiale come il recinto di uno studio cinematografico hollywoodiano, che produce una nuova identità ogni lunedì mattina. […] La Città Generica è nata in America? È tanto profondamente non originale che la si può soltanto importare? Comunque sia, oggi la Città Generica esiste anche in Asia, in Euro- pa, in Australia, in Africa. La definitiva fuga dalle campagne, dall’agricoltura, verso la città non è un movimento verso la città come la intendevamo: è un movimento verso la Città Generica. […] La Città Generica è frattale ripetizione infinita del medesimo, semplice modello strutturale».107

Insomma, la Città Generica koolhaasiana è figlia di una brillante, libera e lucida interpretazione di quello che ognuno può cogliere guardando una foto- grafia, magari anche dal desktop del proprio computer, che raffiguri una pano- ramica su qualsiasi angolo densamente urbanizzato del mondo. Una visione quasi «a volo d’uccello».108

E come tale resta una piacevole ma superficiale lettura. Non entra tra le maglie della stessa, non scende sui suoi territori che la segnano e, come vedremo, la rendono conflittuale. Soprattutto non dice nulla di concreto su ciò che la vive e rende viva, la popolazione. Semplicemen- te non se ne preoccupa. Ma in fondo non era affatto questo l’obiettivo di Kool- haas, quanto quello di delinearsi ancora di più come autentico “spirito guida” del gota dell’architettura contemporanea resa spettacolo. Ed è proprio questo che a molti non va giù, come a Franco La Cecla, che gli rimprovera, forse con toni troppo moralistici, il suo estremo “cinismo realista” che rasenta a volte il menefreghismo rispetto alla piega presa dall’architettura spettacolarizzata e mercificata, resa marchio, brand pubblicitario: «[…] Koolhaas, uomo intelligen- te e cauto, in fin dei conti un progettista ambizioso, usa la vecchia arma del “siamo realisti” per convalidare lo status quo, insomma se ne lava le mani nel- la maniera più elegante».109

Il realismo per Koolhaas è conformarsi a questo presente fatto di mercato, e solo a lui risponde, allontanandosi quindi da tutte le problematiche che lo stesso pone e lavorando per quelle che Castells chiama “élite dominanti”. Ec- co che l’olandese allora, dopo Haussmann e Le Corbusier, è forse la nuova in- carnazione di quello spirito di cui il capitalismo, nella sua versione costruttri- ce, ha sempre preteso. Incarna alla perfezione lo Zeitgeist del momento. Ma a differenza di Corbu, Koolhaas almeno non spaccia al popolo (sarebbe meglio dire al pubblico televisivo, visti i tempi) velleitarie illusioni su fantomatici do- mani luminosi da vivere in città radiose mai viste né abitate da nessuno. Vero, è un realista che lavora per lo status quo. E tanto gli basta. Perché in fondo oggi è proprio questa l’autentica funzione dell’architettura, la professione che ne deriva, il progetto stesso; e La Cecla è costretto ad ammetterlo (senza però arrendersi a tale situazione) a malincuore. È la definitiva sussunzione dell’architetto e del progetto all’estetica, alle regole, alla stessa volontà del mercato.110

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chiavelli della situazione allora il Capitale è il suo principe, che gli impone quel linguaggio sempre e comunque incentrato su un fondamentale comandamen- to: costruire. Comunque costruire. Per l’estetica si vedrà. Quella del Junkspa- ce, quasi un postmodernismo architettonico elevato al massimo grado che tro- va la sua vittoria sui resti del modernismo, ad esempio potrebbe andar più che bene.

Da questa situazione generale appena descritta, cristallizzata nella figura e nelle teorie di Koolhaas, apprendiamo come sia caduto anche l’ultimo velo di dosso all’illusoria pretesa di controllare e pilotare lo sviluppo della forma ur- bana.

La vacuità di ogni pretesa pianificatrice e regolatrice/Oggi la metropoli distrugge e costruisce sé stessa in continuazione, diventa un magma moleco- lare dove le costruzioni singole perdono i legami armonici con il tutto. Può sembrare esagerato dire che tale situazione venutasi a creare col processo di autonomizzazione più volte ricordato eluda la capacità d’intervento degli uomi- ni e delle amministrazioni pubbliche, ma sta di fatto che l'aggregazione dei manufatti, anche in presenza di piani regolatori, avviene per contiguità ma non per continuità, gli edifici sorgono con criteri utilitaristici e speculativi immedia- ti. Secondo Ilardi «la privatizzazione radicale degli spazi pubblici, la crescita incredibilmente rapida di immensi quartieri che si addensano regolarmente intorno a faraonici centri commerciali, una distesa senza fine di capannoni in- dustriali, l’apparire prodigioso di queste nuove “paperopoli” che sono gli out- let, un tessuto stradale circostante che insegue affannosamente i nuovi inse- diamenti e dunque in perenne trasformazione testimoniano la crisi del model- lo tradizionale dello sviluppo urbano che vedeva la città evolvesi attorno ad un centro secondo modalità progettuali che riflettevano il delicato equilibrio tra funzioni sociali e interessi economici. Non c’è amministrazione, storia o pae- saggio che tenga o che abbia la forza di guidare l’espansione metropolitana. Una città legale ma spontanea sta ridisegnando gli spazi urbani estremi: lega- le perché è in regola con le leggi, spontanea perché le leggi sono in regola con il mercato».111

Se la città del Moderno si barcamenava (pur fra mille contraddizioni) nell’intento di salvaguardare quel precario equilibrio di cui parla Ilardi, ora la

metropoli contemporanea, percepita unicamente come mezzo di valorizzazio- ne di capitale, semplicemente lo rimuove, quasi ritenendolo superfluo, se non dannoso. Ovvio che tutto ciò non può che produrre conseguenze sul piano so- ciale e sui soggetti che lo animano. Ma il tema, se così si può indicare, affasci-

na anche Koolhaas che spiega come questa nuova entità urbana venutasi a

creare sulla spinta di precise determinanti, definita come detto Città Generica, «rappresenta la definitiva morte della pianificazione urbanistica. Perché? Non perché non sia progettata: in realtà enormi universi complementari di buro- crati e di imprenditori edili bruciano inimmaginabili flussi di energia e di dena- ro per completarla: allo stesso costo le sue pianure potrebbero essere semi- nate a diamanti, i suoi campi fangosi pavimentati d’oro… Ma la scoperta più pericolosa e più esilarante è che la pianificazione non fa alcuna differenza».112

L’estetica urbana e architettonica del capitale fittizio/Se i fattori che oggi agiscono sulla forma e sull’organizzazione della metropoli sono quindi da ri- cercarsi nei meccanismi del modo di produzione capitalistico, è altrettanto ve- ro che appaiono, nella cosiddetta città postmoderna, come esteticamente e simbolicamente rinnovati, sempre rispetto al periodo che si è soliti indicare con Moderno. Ne abbiamo già in parte discusso attraverso il lavoro impostato da David Harvey sulla cosiddetta “accumulazione flessibile” e il “capitale sim- bolico”, ovvero quel capitale che, estremamente virtuale, procede alla propria valorizzazione attraverso nuovi canali quali che possono essere le mode, i de- sideri, le posizioni sociali, il consumo come prima necessità dell’esistenza. In- somma l’estetica ideale espressa dal capitale fittizio.113

«Alcuni fattori che agiscono oggi sulla forma e sull’organizzazione della cit- tà sono in larga misura quelli consueti, quali, per esempio, il mercato immobi- liare, le esigenze di valorizzazione del capitale e il consumo di massa. Questi fattori tradizionali a contatto con i principi organizzativi “nuovi” della città po- stmoderna assumono, però, logiche e percorsi per molti aspetti inediti. Il mer- cato immobiliare, la cui spinta è sempre massiccia, si iscrive anch’esso, as- sumendo modalità nuove, nella complessità del nuovo geroglifico urbano dove dominano desideri e bisogni, paure e aspirazioni. Si stabiliscono sinergie e nuovi adattamenti per cui il capitale è costretto ad adottare nella ricerca di nuovi spazi strategie e vocaboli insoliti […]. Le strategie di valorizzazione im-

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mobiliare ricorrono in maniera incredibilmente più forte che nel passato a strumenti come il gusto o la distinzione sociale. Sullo sfondo restano però ben presenti, anche se talvolta opachi, la logica del mercato e le strategie delle grandi corporation. […] Sottesa all’apparente caos formale e strutturale della metropoli contemporanea c’è ancora la logica dell’accumulazione e dell’asimmetria delle relazioni sociali. Il panorama media, sia simbolicamente che materialmente, tra la differenziazione socio-spaziale del capitale del mer- cato e l’omogeneità socio-spaziale suggerita dal luogo. La nuova stagione dell’immaginario rafforza e, soprattutto, è rafforzata dalla logica della concor- renza».114 È anche nel fenomeno della gentrification che possiamo scorgere

tali meccanismi.

Il fenomeno urbano e sociale della gentrification/L’incessante processo mosso dall’economia politica di distruzione e costruzione della metropoli fa- gocita indistintamente ogni sua parte. Nel fare ciò non risparmia neanche quelle più “vecchie”, ossia quelle, potremmo dire, interne ai nuclei urbani più consolidati e durevoli, più stratificati nel tempo, né gli insiemi umani che ov- viamente li vivono. E questo forse è uno dei caratteri che più denotano la co- siddetta fase postmodernista delle discipline urbanistiche e architettoniche: intendiamo il loro operare con precisione sul corpo urbano e sociale della me- tropoli attraverso interventi e operazioni progettuali mirate ad una rivalutazio- ne e rivitalizzazione di tutti quei quartieri che,115

osservati attraverso un’ottica intrinsecamente economicistica ma esteticamente “alla moda”, sono ritenuti improduttivi ma densi di quel fascino estetico che tanto fa presa sui gusti della nuova borghesia rampante, e pertanto passibili di rivalutazione e recupero ur- bano.116

Tale processo è visibile soprattutto nelle metropoli d’Occidente da quando, «terminata la fase dell’espansione, a partire dagli anni ’80, la città ha imboc- cato la strada della crescita attraverso la trasformazione dell’esistente. È ini- ziata la stagione, tuttora in atto, del riuso e della rimessa in valore di vecchie parti della città secondo principi diversi che in passato: valorizzazione delle diversità, recupero delle testimonianze del passato, ricerca del genius loci e delle basi spaziali dell’identità degli abitanti, legame del bello con la funziona-