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«La scienza si fa con i fatti come una casa si fa con i mattoni, ma l’accumulazione dei fatti non è scienza più di quanto un mucchio di mattoni non sia una casa».1

Henri Poincaré

Un piccolo ripasso/Prima di procedere nella nostra indagine sull’evoluzione urbana della metropoli globale raccontata dal cinema contemporaneo, nonché la connessione dialettica tra loro, occorre per un momento riallacciarsi a quanto detto in precedenza nel prequel. In esso, sulla base di ricerche ed e- splicazioni tratte sia dalla filosofia che dalla scienza (sia contemporanee che del passato), abbiamo esposto al lettore lo stretto legame che mette in rela- zione il processo di ominazione dell’uomo, la sua neotenia innata e di conse- guenza l’applicazione cosciente del bagaglio tecnico-scientifico di cui si dota e fa uso nel corso del suo divenire e attraverso il quale opera al raggiungimento della sua piena umanità.

Pertanto abbiamo sostenuto che l’insieme in divenire uomo-industria — di marxiana memoria — ha origini lontanissime, preistoriche, ed è un processo pienamente naturale, nel senso che è proprio della natura dell’uomo: attra- verso l’industria esso si naturalizza, nel senso che vi si pone in relazione dia- lettica, e la natura a sua volta si umanizza.2

Soprattutto con la parola uomo non intendiamo semplicemente l’individuo, ma l’individuo-sociale, ovvero la comunità, la società: l’ uomo-specie. A questa primordiale unità fra uomo, in-

dustria e natura (la Gemeinwesen delle origini) coincide la connessione di ogni singolo aspetto della vita umana rispetto ad un altro, e di questi al tutto, rap- presentato da una concezione dell’esistenza che non concepisce separazioni di qualunque sorta, prima fra tutte quella fra la vita da una parte e il lavoro, la conoscenza e la tecnica dall’altra.

Se le società preclassiche ancora conservano il sentimento di tale unità primordiale — vale a dire che non operano una separazione all’interno della conoscenza e delle attività pratico-produttive — col tempo si perde l’approccio globale alla conoscenza fino alla separazione totale dell’uomo dalla sua indu- stria; separazione che va crescendo man mano che il processo di autonomiz- zazione del valore dai bisogni umani si fa sempre più netto.

Il bisogno di correlarsi al tutto/Staccandoci da quel lontano passato, pro- prio a metà del secolo scorso — in pieno dominio reale del Capitale sulla socie- tà — assistiamo al rifiorire di più visioni unitarie che rigettano la separazione tra il lavoro dell’uomo, la natura e la sua intera dotazione tecnico-scientifica, considerata fino a poco tempo prima altro. Ciò equivale ad evidenziare la sem- pre evidente neotenia della nostra specie. Si sviluppano rami della scienza e della conoscenza umana che seppur differenti tra loro convergo e si incentra- no tutti su un unico aspetto: la fusione fra l’evoluzione biologica e sociale della specie umana e il corrispondente sviluppo tecnico e strumentale, ovvero sulla vera natura dell’uomo-industria.

Si pensi per esempio alla cibernetica che studia i fenomeni di autoregola- zione e comunicazione e i problemi del controllo, della ricorsività e dell’informazione, sia negli organismi biologici che nei sistemi artificiali e della loro correlazione — di cui Norbert Wiener è stato il padre moderno; o alle ulti- me ricerche nel campo delle neuroscienze, delle biotecnologie, dell’ingegneria genetica.

Se un tempo l’intera dotazione tecnico-scientifica dell’uomo veniva giusta- mente considerata come una sorta di proiezione esterna del proprio corpo, oggi, nella società delle reti informatiche, possono considerarsi anch’essi veri e propri organi umani. È il corpo stesso dell’uomo e la propria mente che di- venta concretamente parte di un tutto più vasto. Chi oggi potrebbe fare a meno di Internet, questo vero e proprio cervello sociale anch’esso neotenico (poiché

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ancora tutto da sviluppare), memoria dinamica della specie già fonte incredibi- le di conoscenza non privatizzata? Non le aziende e la produzione capitalistica tutta, le cui transazioni dipendono pienamente da esso, né tantomeno il singo- lo individuo che in esso e attraverso esso trova un’espansione delle proprie

possibilità d’azione.

Il corpo umano e la mente estesa/Facciamo per un momento un passo in- dietro, alla seconda metà del Novecento, e concentriamoci un poco sul lavoro di Gregory Bateson. Anch’esso uno dei padri della moderna cibernetica, filoso- fo e scienziato difficilmente collocabile entro una ben definita categoria delle scienze (così come della filosofia) tanto che molti definiscono la sua opera di natura olistica, ha condotto un potente lavoro di ricerca sul concetto di mente estesa. Nel suo libro principale, Mente e natura, Bateson si chiede che senso ha porre dei confini alla mente. E per confini intende non quelli relativi alle sue potenzialità, ma ai limiti fisici che la rendono una unità. Spieghiamoci meglio. Egli fa un esempio semplice e illuminante: dove finisce - si chiede - la mente di un cieco? Forse nella mano che impugna il bastone? Nel manico del basto- ne? Oppure nella punta del bastone? Una volta che, come in questo caso, il ba- stone è diventato uno strumento essenziale che la persona utilizza per perce- pire il mondo circostante, esso diviene parte integrante di questa persona: mente e bastone costituiscono un sistema unico e inscindibile. Perché, allora, limitare la mente al solo corpo “di carne”?3

Bateson ha dedicato la propria vita alla ricerca della “struttura che connet- te” l’uomo agli altri organismi viventi e gli organismi viventi all’ambiente. Per Bateson l’”io” non è separato dagli “altri” e dal contesto, tutto è interconnesso, interdipendente. L’uomo è parte del tutto, ne è una componente fondamentale, un tassello dell’universo biologico. È questa per Bateson la mente, ovvero la

struttura che connette, l’uomo (parte) con la natura (tutto), l’uomo con la pro- pria industria, il particolare al generale, fino all’intera biosfera. Non fenomeni separati ma concatenati: «Siamo stati abituati a immaginare le strutture, salvo quelle della musica, come cose fisse. Ciò è più facile e comodo, ma natural- mente è una sciocchezza. In verità, il modo giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla "in primo luogo" (qualunque cosa ciò voglia dire) come una danza di parti interagenti e solo in secondo luogo vinco-

lata da limitazioni fisiche di vario genere e dai limiti imposti in modo caratteri- stico dagli organismi».4

La specie umana come natural-born cyborg/Proviamo a servirci di tale

concetto: se la struttura che connette è la correlazione tra le parti di una sola unità, allora è possibile sostenere che sia valida anche per ogni parte che la compone. Quindi, se riferita solo alla specie umana (parte del tutto rappresen- tato dalla biosfera), non è l’insieme degli organi biologici e di quelli tecnologici gli uni accanto agli altri (contiguità), ma l’insieme integrato con l’ambiente an- tropomorfizzato così delle metropoli come delle campagne (o di ciò che ne re- sta insomma), e degli ormai pochi spazi incontaminati per capirsi (continuità).5

Oramai l’uomo è questo e non ha più alcun senso considerarlo come sepa- rato dalla propria industria, dalla tecnica che ne deriva. Sarebbe come pensar- lo separato da se stesso, o nudo. Se Marx è fra i primi ad occuparsi della ma- teria in questione — e ciò fa di lui forse il primo cibernetico della Storia — oggi il concetto è maggiormente chiarito da Andy Clark6

che per l’occasione ha anche coniato un neologismo come sinonimo di uomo: “natural-born cyborg”.7

«La risposta a domande come “chi siamo?”, “che cosa siamo?”, rimane fondamen- talmente invariata: siamo il trucco più grande della natura, costruiti per vivere un flusso ininterrotto di cambiamenti fisici e mentali».8

Sembra di leggere il vecchio Marx: l’uomo come espediente della natura per darsi memoria, cono- scenza e intelligenza attraverso l’industria, quindi industria come soluzione umana dello sviluppo della natura e nella natura.9 Tutto ciò è quindi «il riflesso

di quanto c’è di più profondamente umano: l’abilità di creare una serie infinita di strumenti e tecnologie che espandono la mente»,10

la batesoniana struttura che connette le singole parti col tutto.

Quindi anche le metropoli sono parte di questo tutto, in un processo conti- nuo; questo ci consente di rafforzare ancora il concetto di città globale e farlo evolvere dal significato che gli attribuisce la Sassen, accennato nel prequel e su cui successivamente ritorneremo.

Dualismi e contraddizioni da far saltare/«In primo piano, è ormai

l’essere. L’essere della specie e dunque dell’individuo, indissolubilmente, qua- le prospettiva finalmente concreta, definitivamente sfuggita alle scatole spec- chianti dei miti religiosi e ai labirinti delle moralità filosofiche, da quando lo

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sviluppo dei mezzi di produzione, a partire dai mezzi di produzione della specie come tale e del suo mondo, ha raggiunto il suo fine storico, quello di conqui-

stare la totalità della biosfera come habitat (Umwelt) naturale (al di là

dell’alienazione alla natura) e quello di garantire potenzialmente la sopravvi- venza biologica (al di là dell’alienazione al lavoro, alla miseria, e al profitto)».11



Ma cosa succede allora, in pieno dominio reale del Capitale sulla società, quando una parte prende il sopravvento sull’altra dominandola? Quando lo stesso Capitale e l’asfittica società attuale bloccata dalle catene dell’economia politica soffocano la forma urbana nelle condizioni che andremo ad analizza- re? Quando ancora sono vive e forti quelle alienazioni prima dette da Giorgio Cesarano? È uno dei punti fondamentale della nostra esposizione: parallela- mente all’evoluzione del cervello sociale, ovvero della capacità mnemonica e della conoscenza accumulata dalla specie umana, è andata evolvendosi la forma urbana. Fuoriuscendo dalla scatola cranica dell’individuo, la memoria — attraverso il linguaggio — si è dapprima esteriorizzata per via orale tra differen- ti individui e comunità, poi si è fissata, man mano che da una scala locale si passava ad una globale, in un sistema di relazioni e realizzazioni, contribuendo tra le altre cose alla nascita dell’urbanesimo. Nella Sezione A del presente la- voro abbiamo tracciato a grandi linee l’evoluzione della forma urbana dalle o- rigini fino alla fine del secolo scorso, sostenendo col supporto di potenti con- tributi che essa sia paragonabile al corpo umano almeno fino alla rivoluzione industriale, in seguito alla quale non sarebbe stato più possibile mantenere tale paragone: cosi come il cervello biologico individuale si era evoluto in quel- lo sociale, cosi la città era evasa dalla “prigionia” delle vecchie mura per proiettarsi sul territorio circostante con i suoi prolungamenti prospettici e ten- tacolari talmente pervadenti da essere paragonati ad una metastasi cancero- gena, nella metafora già citata di Lévi-Strauss.

«Dalla fine del secolo XVIII l'integrazione spaziale assume un carattere confuso. L'umanizzazione dello spazio terrestre si realizza a un ritmo rapido sotto la spinta dell'industrializzazione. L'universo naturale è stretto in una rete di ferrovie e di strade che determina un tipo di sviluppo particolare paragona- bile a quello di microrganismi che invadono un tessuto. La città diventa un “agglomerato” di edifici utilitari in cui le arterie sono tracciate secondo le ne-

cessità. Si realizzano così immensi spazi umanizzati in modo inumano, in cui gli individui subiscono il duplice effetto di venire disintegrati dal punto di vista tecnico e spaziale. I due imperativi fondamentali del benessere nell'attività creatrice e nell'inserimento socio-spaziale sembrano sfuggire completamente nel corso del secolo in cui le crisi sociali raggiungono il punto culminante. Questa evoluzione anarchica continua ancora e fa ancora sentire le sue conse- guenze in molti centri urbani».12

Questo è quanto scrive Leroi-Gourhan al ter- mine degli anni Settanta del secolo passato. Purtroppo non è riuscito per tem- po a studiare pienamente il grande sviluppo delle nuove tecnologie informati- che fiorito non molti anni dopo la sua morte. Con il loro impatto decisivo, oltre- tutto, sul piano spaziale (in generale) e urbano (in particolare), hanno contri- buito, e stanno tutt’ora contribuendo, ha cambiare il modo di pensare la stessa forma urbana. Al momento però tale trasformazione del pensiero sbatte con- tro gli argini materiali e ideologici di questo presente, anche se è proprio al lo-

ro interno che potenzialmente maturano le condizioni di una loro rottura.

Spieghiamoci meglio.

La preparazione di un “salto”?/«Verso la fine del II millennio dell’era cri- stiana numerosi eventi di portata storica trasformarono il panorama sociale della vita umana. Una rivoluzione tecnologica, incentrata sulle tecnologie dell’informazione, cominciò a ridefinire, a rapidi passi, la base materiale della società. Le economie di tutto il mondo diventarono globalmente interdipen- denti, introducendo un nuovo tipo di relazione tra economia, stato e società, in un sistema a geometria variabile».13 Questo è quanto ci dice Manuel Castells.

Ciò che sostiene pare essere oggettivamente giusto, anche se è insufficiente a spiegare “come” tutto ciò sia avvenuto. Citando il fisico Richard Feynman, è proprio porsi la questione del “percome” — e non del “perché” — che fa di un metodo d’indagine un metodo scientifico.

Che il mondo si stia preparando al prossimo “salto” rivoluzionario di cui parlavamo all’inizio della prima sezione della tesi? Dalle parole di Castells sembrerebbe di si; anzi, è convinto che ci sia già stato: «”Il gradualismo”, ha scritto il paleontologo Stephen J. Gould, “cioè l’idea che tutti i cambiamenti devono essere uniformi, lenti e costanti, non è mai stato un comandamento immutabile. Rappresentò piuttosto un pregiudizio culturale comune, in parte

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una risposta del liberalismo ottocentesco a un mondo in rivoluzione. Ma conti- nua a influenzare la nostra interpretazione presumibilmente oggettiva della storia della vita [...] La storia della vita, per come la intendo io, è costituita da una serie di stati stabili, punteggiata a intervalli da eventi maggiori che si veri- ficano con grande rapidità e che servono a determinare l’epoca stabile suc- cessiva”. Io parto dal presupposto […] che alla fine del XX secolo abbiamo vis- suto uno di questi eccezionali intervalli della storia, un intervallo caratterizzato dalla trasformazione della nostra “cultura materiale” grazie all’agire di un nuovo paradigma tecnologico incentrato sulle tecnologie dell’informazione».14

Castells cita Gould. Del resto lo abbiamo fatto anche noi all’inizio del presente lavoro, citandolo insieme ad altri scienziati, come René Thom (il “padre” della “teoria delle catastrofi”), per sostenere con più forza e ragione le solide basi della nostra analisi tesa a ricercare nel metodo dialettico e deterministico la propria struttura. Ma a ben osservare più che citarlo lo parafrasa riducendo la sua dimostrazione scientifica della discontinuità evolutiva a un cambiamento tecnologico che, seppur importantissimo, ancora non ha prodotto quel “salto” qualitativo che Castells sembra invece voler indicare alla fine del XX secolo.

Infatti, dicendo che il “salto” è esploso alla fine del secolo scorso, e che ora ne stiamo raccogliendo i frutti, forse vede nella sua testa come un fatto ormai consolidato (“l’epoca stabile” di cui parla Guold) quello che invece probabil- mente è ancora solo l’embrione di un qualcosa dalle enormi potenzialità anco- ra tutte da sviluppare, e non semplicemente sul piano tecnologico; però, dob- biamo dargliene atto (e questa non sarà la prima volta visto che lo citeremo spesso nelle prossime pagine), è senz’altro vero che si sta tutt’ora material- mente e potenzialmente preparando un cambiamento epocale, rivoluzionario. Ma il cosiddetto “salto”, per essere rivoluzionario, deve comportare il completo rivolgimento di tutte le categorie del presente, o la loro negazione, in un futuro che ne sia l’antitesi, e non limitarsi ad una differente tecnica rispetto al passa- to, fine a se stessa. E questo “salto”, tra la fine del secolo scorso ed oggi, non c’è stato nonostante l’avvento della nuova tecnologia che Castells definisce dell’informazione.

Ovviamente questa ha comportato importanti cambiamenti su diversi piani, tra cui quello urbano, che fra poco andremo ad esaminare, ma non di certo un

cambiamento che possa definirsi appunto come rivoluzionario. Ciò non vuol

dire di certo sminuire Internet, la Rete e l’intero apparato di queste nuove tec- nologie che sono oggi la punta di diamante di quello che abbiamo chiamato

cervello sociale. Come sostenuto, esse preparano potenzialmente un futuro, pertanto occorre considerarle in potenza, per quello che potrebbero essere, per i risultati che potrebbero produrre (e che già in alcuni casi mostrano con- cretamente); insomma come un solido trampolino di lancio per compiere il ve- ro “salto” qualitativo, rivoluzionario, al momento negato dalle catene economi- che e politiche della presente forma di produzione capitalistica. Ma su tali ar- gomentazioni torneremo nel sequel. Per ora accontentiamoci di studiarne gli effetti immediati sul piano urbano e sociale, inerenti a questo presente. Per farlo occorre capire appunto come queste nuove tecnologie sono nate e so- prattutto quale modello di funzionamento seguono. Se lo facciamo è perché pare sia lo stesso che vi è alla base della struttura della forma urbana che sta al momento trasformando il volto del mondo, in bilico tra il caos attuale e un nuovo ordine pronto ad emergere, al momento soffocato.

Uno sguardo sulla “complessità”/Detto questo, se vogliamo intravedere

qualcosa di profondamente innovativo ed ancora in fase di gestazione la nostra attenzione non va direttamente puntata sulle nuove tecnologie dell’informazione, quali Internet, il World Wide Web, ecc., ma sulle recenti teo- rie scientifiche riguardanti la loro organizzazione e il loro funzionamento. Non tanto quindi sull’oggetto della teoria in sé quanto su ciò che opera alle spalle dello stesso e lo fa funzionare attraverso correlazioni e collegamenti.

È nel campo della “teoria della complessità”, del caos, delle reti, della ca- pacità di auto-organizzazione dei sistemi che bisogna allora frugare se si vuole comprendere al meglio le trasformazioni del presente. In tale campo la ricerca non è che agli inizi, ma il primo passo al suo interno è stato comunque mosso e finalmente si incomincia a trattare anche il fatto sociale non come frutto dell’indeterminismo, dell’idealismo, dell’individualismo, della volontà, del “li- bero arbitrio” (cose che un paese come l’Italia conosce fin troppo bene, soffo- cato com’è sotto il peso nefasto della filosofia crociana) ma come rispondente a precise determinanti sociali, al materialismo dialettico, per cui è «possibile individuare leggi matematiche e modelli significativi nel mondo umano. Come

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ha osservato una volta lo scomparso politologo Herbert Simon, lo scopo della scienza “è scoprire una significativa semplicità in mezzo a una complessità di- sordinata”. Negli ultimi cinque anni sociologi, fisici, biologi e altri ricercatori hanno trovato numerose, impensate correlazioni tra il funzionamento della so- cietà umana e quello di altre entità apparentemente non connesse, come la cellula vivente, l’ecosistema globale [e quindi la forma urbana], Internet o il cervello umano. […] molte delle complessità intrinseche alla società umana non sono in realtà correlate con la complessa psicologia degli uomini, in quan- to seguono un modello che è lo stesso anche in diversi altri contesti in cui gli esseri umani e la loro coscienza non hanno alcun ruolo».15

«[La teoria della complessità] getta uno sguardo nuovo sui sistemi fisici, biologici, sociali o economici. È un approccio unificato che individua le grandi costanti della natura di cui parlavo in precedenza, e ne mette in evidenza le generalità. La sistemica […] era un procedimento descrittivo, pedagogico, che permetteva di comprendere meglio la complessità. Il nuovo approccio propone mezzi per agire sulla complessità. Esso tenta di spiegare come si realizza la transizione tra un’organizzazione di un livello dato e quella in cui essa fornisce gli elementi di costruzione».16

In sostanza il vecchio approccio riduzionista car- tesiano viene superato e inglobato in un quadro più ampio che, oltre a indagare sulla natura delle parti del sistema, permette soprattutto di vederne proprio le correlazioni e quindi la dinamica globale.

La natura è ricca di fenomeni apparentemente diversi tra loro, come la forma urbana (con l’intero ecosistema), il cervello umano, Internet, l’economia mondiale, ecc. Sono tutti esempi di sistemi complessi che presentano alcune proprietà fondamentali “di fondo” non dipendenti dalla natura dei singoli ele- menti«Nella loro architettura, le reti sociali risultano quasi identiche al World