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1 Teorie

Ut pictura poesis; pictura muta poesis; poesis pictura loquens: sono queste le for- mule canoniche con cui il Rinascimento definisce le molteplici relazioni poste da quell’incontro tra poesia e pittura che, lungi dal proporsi come specificità dell’Umanesimo, condizionata dall’estemporaneo fervore intellettuale del- l’epoca verso classici quali Simonide e Orazio, attinge a percezioni e cono- scenze di vecchia data, profondamente radicate nella cultura antica e medie- vale. Se questo è vero, è comunque altrettanto vero che, rispetto alle acquisi- zioni attestate e ripercorse dalla tradizione culturale europea, le equiparazio- ni classiche tra le due “arti sorelle” si arricchiscono tra Quattrocento e Cin- quecento di una nuova germinazione del parallelo, quella tra la retorica e l’ico- nologia, scienza quest’ultima – l’anacronismo terminologico mi par giustifi- care l’intento di una designazione pragmatica del fenomeno culturale – squi- sitamente rinascimentale.

Lo snodo del transito verso la modernità del parallelo tra le due princi- pali discipline umane è notoriamente rappresentato dal trattato De pictura di Leon Battista Alberti (del 1436)1, con la sua innovativa concezione del pitto-

re non più come artigiano, o praticante, ma artista, un vero e proprio “intel- lettuale” ante litteram; in tale concezione, l’attività dell’artista non è più li- mitata alla fase di esecuzione materiale dell’opera, e l’indagine critica investe l’intero percorso, prima quello ideativo della mente e poi quello compositi- vo della mano. Artista e non solo artigiano, il pittore moderno deve essere fornito di una solida formazione umanistica, addirittura di un sapere enci- clopedico; dovrà insomma dimostrarsi “pittore dotto”, formula che ricalca trasparentemente la nozione umanistica di doctus poeta2. Il punto d’incontro tra doctus pictor e doctus poeta avviene significativamente sul terreno della lingua e della retorica: già Petrarca, nei due dialoghi del primo libro del De remediis utriusque fortunae (esattamente nel De tabulis pictis e nel De statuis), aveva applicato alle arti visive una terminologia relativa a categorie messe a punto nelle teorie stilistiche degli umanisti; e viceversa, un continuo impre- stito di voci pittoriche – “colore”, “forma”, “lineamenti” – andava invaden-

do il vocabolario letterario. Tale contaminazione reciproca di parole non po- teva non condurre, gradatamente, a una embricazione di concetti, ragion per cui, quando Alberti, alla fine del suo trattato, definisce gli scopi che deve por- si il pittore, attinge dichiaratamente alla classificazione ciceroniana del doce- re, delectare, movere. E anche la struttura del De pictura, che, a differenza di altri trattati contemporanei, non è dialogica, ma argomentativa, risente visi- bilmente della ripartizione ciceroniana del discorso: exordium, narratio, con- firmatio, peroratio, con l’unica esclusione della confutatio3, non essendo in forma di dialogo.

La trattazione dell’arte pittorica da parte di Alberti non è meno influen- zata dalla retorica classica nel contenuto: «Picturam in tres partes dividimus, quam quidem divisionem ab ipsa natura compertam habemus: circumscrip- tio, compositio, receptio luminum» (p. 53), dove non è difficile ravvisare un parallelo con le prime tre parti della retorica del discorso, ossia inventio (l’ideazione del soggetto), dispositio (la delimitazione dei piani), elocutio (equivalente alla ripartizione di luci e ombre). Tale parallelo si manterrà, con variazioni terminologiche, nelle teorie cinquecentesche, per esempio nel Dia- logo della Pittura intitolato l’Aretino di Lodovico Dolce: «Tutta la somma della pittura, a mio giudicio, è divisa in tre parti: invenzione, disegno e colo- rito»4; oppure nel Dialogo di pittura di Paolo Pino: «Per farvela meglio in-

tendere, [la pittura] dividerò in tre parti a modo mio: la prima parte sarà di- segno, la seconda invenzione, la terza e ultima il colorito»5. La difficoltà di

adattare le altre due parti della retorica classica, memoria e actio, viene par- zialmente risolta, per esempio da Raffaello Borghini, aggiungendo l’“attitu- dine” (che sembra recuperare l’actio) e la categoria dei “membri”, che pur non risolvendo il dilemma di un trasferimento in campo artistico dell’irridu- cibile memoria, ricompone però integralmente il modello discorsivo delle cinque parti6.

Tuttavia, la più profonda e autentica traslazione tra dimensione pittorica e dimensione letteraria avviene là dove Alberti introduce nel campo artistico il concetto di historia: giacché una considerazione del dipinto nei termini del- la diegesi significa spostare l’analisi dall’organizzazione formale del rappre- sentante (la tela) al contenuto semantico del rappresentato (il soggetto tema- tico); significa incentrare l’argomentazione non tanto sull’oggetto plastico, quanto sul discorso che lo commenta; e quando si sostituisce al primato del- la forma quello del racconto – ovvero di ciò che il quadro è capace di “rac- contare” all’osservatore – non si può fare a meno di introdurre contestual- mente, nel “discorso” figurativo, categorie proprie del discorso linguistico. Ed è così che il trattato albertiano assorbe concetti – e dunque termini – squi- sitamente retorico-letterari quali copia, varietas, dignitas, gravitas. Si tratta del medesimo procedimento che il grande Klein individuava nella teoria di Pom- ponio Gaurico, espressa nel trattato De sculptura:

Lo sforzo di adattare categorie della retorica e della poetica alle arti plastiche è una delle caratteristiche costanti del trattato [...]. Sedotto dall’analogia tra la prospettiva e la perspicuitas [...] Gaurico cerca di scoprire in Quintiliano nozioni applicabili alla narrazione pittorica, ed in questo senso sceglie abilmente: sapheneia, eukrineia, ener-

geia, emphasis, amphibolia, noema7.

Insomma: se l’elaborazione formale di un pictum riproduce l’elaborazione for- male di un dictum, perché la pittura non dovrebbe legittimamente appropriar- si della letteratura, impiantando un terreno comune linguistico? Del resto, la pittura è una lingua, nella sensibilità dei teorici del tempo, e possiede una gram- matica propria delle forme; come le lettere si agglutinano in sillabe, e poi in pa- role, e poi in frasi, così le superfici compongono le figure, e le figure formano il quadro. Perciò diviene facile agli autori di trattati di estetica fornire esempi presi non dalla pittura ma dalla poesia, come fa Gaurico, e più ancora di lui Lo- mazzo, che per esemplificare le modalità di espressione dei sentimenti nelle ar- ti figurative preleva tanti di quei modelli letterari da fare del suo Trattato del- l’arte della Pittura, scoltura et architettura una vera e propria antologia lirica.

Si è detto prima che, da Alberti in poi, è la nozione di historia a consenti- re lo scivolamento l’uno sull’altro dei piani paralleli delle arti sorelle, perché è la riduzione di un dipinto a “racconto” che permette al teorico visivo di il- lustrare le proprie argomentazioni con esempi letterari; e se la pittura è fon- damentalmente un “discorso” fatto di figure, è chiaro che anche la pittura, proprio come la poesia, è “retorica”. E dunque il pittore deve trarre insegna- menti dal poeta, come impone con molto vigore Lodovico Dolce, portando come esempio il ritratto di Alcina. Dolce preleva due versi dell’Orlando Fu- rioso: «Con bionda chioma lunga et annodata: / Oro non è che più risplenda e lustri», spiegando come Ariosto rifugga dalla metafora convenzionale della chioma d’oro scegliendo il procedimento di una similitudine (al negativo) tra- scritta in termini pittorici; ebbene, un buon pittore farà lo stesso, sostituendo al processo mimetico un processo metaforico: «Da che si può ritrar che ’l pit- tore dee imitar l’oro, e non metterlo, come fanno i miniatori, nelle sue pittu- re, in modo che si possa dire: que’ capelli non sono d’oro, ma par che ri- splendano come l’oro»8. È interessante capire come il teorico veneziano pos-

sa prendere a modello, per un pittore, Ariosto; può farlo perché l’oggetto di analisi non è tanto il quadro nella sua materialità, quanto il “discorso” conte- nuto nel quadro, per cui la vera traslazione non avviene tanto tra la dimen- sione poetica e la dimensione pittorica, quanto tra un discorso e un “altro” di- scorso; detto altrimenti, non si tratta semplicemente di ricondurre un dipin- to al “racconto” inscritto nella tela, non si tratta di decostruire una “storia” dipinta per analizzarla più agevolmente in termini linguistici; non si tratta in- somma di riduzione o trasposizione di un oggetto a un altro oggetto, bensì di una totale trasformazione dell’oggetto di analisi: l’oggetto autentico di questa teoria non è il dipinto, ma il “discorso” del dipinto.

1.1. L’èkphrasis

La più antica e grande tradizione del parallelo tra poesia e pittura, quella del- l’èkphrasis, risale alla cultura alessandrina9; ma fin dagli esordi la civiltà gre-

ca aveva riservato particolare importanza sia alla descrizione poetica in gene- rale, sia, più in particolare, alla descrizione poetica di opere artistiche. L’èk- phrasis più celebre è senza dubbio la descrizione omerica dello scudo di Achille, nel canto XVIIIdell’Iliade, proposta incessantemente dai teorici – ri- nascimentali e successivi – come fondatrice del genere. La descrizione è il banco di prova della bravura del poeta, capace di far “vedere” – con gli oc- chi della mente – al lettore determinate cose, come gliele farebbe vedere re- almente un pittore; e perciò tale poeta assomma le prerogative di entrambi i geni creatori, e la sua è la sintesi di entrambe le arti. Se in Omero l’èkphrasis si presenta quale descrizione virtuale, essendo lo scudo di Achille totalmen- te immaginario, in epoca più tarda, con i sofisti, essa diviene descrizione di opere realmente esistenti, nella pratica educativa più largamente impiegata: allenandosi a descrivere certi capolavori pittorici o scultorei, l’allievo si for- ma nell’arte della scrittura; finché, con la seconda sofistica, si definisce come propedeutica all’oratoria. Le Icones dei due Filostrati (il Vecchio e il Giova- ne), così come le Ekphràseis di Callistrato, sono descrizioni, non sappiamo se reali o fittizie, di opere a soggetto soprattutto mitologico, ideate per insegna- re ai giovani come interpretare i capolavori artistici; redatte con brio, propo- ste come discorsi improvvisati sulle opere, sfidano la capacità degli allievi di parlare all’impronta, ma con discernimento, e senza pedanterie e tecnicismi10.

I cadetti umanisti non si limitano a celebrare il prestigio alessandrino della tradizione classica; traducono e chiosano i grandi retori sofisti, come fa Blai- se de Vigenère con Filostrato, divenuto paradigmatico del genere11, o come

fanno i numerosi traduttori di Luciano di Samosata, i quali, ricostruendone la genealogia simbolica, si rammemorano del Petrarca «primo pintor delle memorie antique».

E così, quando Alberti si pone a dimostrare come il pittore abbia tutto da guadagnare dalla frequentazione delle «belle lettere», poiché «hi quidem [cioè i letterati] multa cum pictore habent ornamenta communia»12, per per-

suaderci che poesia e pittura agiscono in un terreno comune, ci ricorda una delle ekphràseis più note dell’antichità, la descrizione della calunnia nel- l’omonimo dialogo di Luciano, che è la parafrasi letteraria di un notissimo quadro di Apelle; quadro che – a prova definitiva della totale reversibilità in- tercorrente tra le due arti – Botticelli poi ricostruisce proprio a partire dalla descrizione lucianea. Si capisce allora molto bene come la particolarità del- l’èkphrasis, nella moderna sensibilità rinascimentale, non consista tanto nel mettere in pratica il parallelo tradizionale tra le arti sorelle, quanto nel sotto- lineare il criterio di relazione biunivoca che le collega: cade infatti il pregiu-

dizio antico della subordinazione della pittura alla poesia, sulla base dell’in- capacità della prima, rispetto alla seconda, sia a significare la durata tempo- rale (il pittore può solo rappresentare l’attimo immediato), sia a scendere nel profondo dell’oggetto rappresentato, soprattutto se umano (il pittore ritrae le superfici, le apparenze delle cose), sebbene la pittura abbia, rispetto alla poe- sia, la prerogativa di “mostrare”, e quindi di colpire più direttamente i sensi, e conseguentemente l’animo dello spettatore. Con l’Umanesimo, la pittura si riscatta dalla vecchia posizione ancillare e si afferma un criterio di reciproci- tà, per il quale o dalla poesia alla pittura, oppure dalla pittura alla poesia, tut- ti i rapporti sono possibili, e non si dà alcun antecedente che non si dimostri reversibile; per cui, oltre alle descrizioni minuziose di opere d’arte immagina- rie (alla maniera omerica), possono esservi poeti che descrivono un oggetto come lo descriverebbe un pittore, oppure poeti che provano a comporre l’equivalente lirico di un dipinto famoso, oppure ancora poeti che forniscono una inventio, di cui lasciano ai pittori l’esecuzione.

Converrà far notare come il ritorno umanistico della descrizione ales- sandrina si accompagni alla riscoperta coeva e parallela del geroglifico, due fenomeni omologabili dell’ut pictura poesis: i medesimi editori che pubblica- no Filostrato e Callistrato danno anche alle stampe, per la prima volta nel 1505, Horapollo, e nel 1556 stampano gli Hieroglyphica di Piero Valeriano, il massimo esponente rinascimentale del genere. Considerando che, per i teo- rici di fine Cinquecento, i geroglifici sono gli antenati diretti dell’emblema- tica – ossia della più caratterizzante arte minore del Rinascimento – e ricor- dando che raccolte di emblemi, imprese, divise, bestiari e quant’altro porta- no sistematicamente nei frontespizi la fortunata formula oraziana, si capirà facilmente come l’ut pictura poesis abbia funzionato da catalizzatore per tut- ti i sottogeneri letterari improntati alla ripresa storica, ma ben più accentua- ta, del legame tradizionale fra testo verbale e testo figurativo. Mi paiono mol- to significativi i due titoli della versione rispettivamente francese e latina del- l’opera emblematica di Bartolomeo Anulo, o Barthélemy Aneau: L’imagina- tion poétique e Picta poesis (1552).

1.2. L’inventio

Se la tradizione dell’èkphrasis consegna una concezione pragmatica della concorrenza – o co-occorrenza – delle arti sorelle, un’altra tradizione si po- ne il fine puramente teorico di una comparazione astratta: il rapporto tra poesia e pittura come “gioco” squisitamente umanistico13, basato sulla tec-

nica dell’inventio. Accanto al metodo canonico delle questiones procedenti secondo i topoi aristotelici, si colloca il metodo induttivo della ricerca delle idee mettendo a confronto, in maniera sistematica, l’ambito della letteratura con quello delle altre arti, e primariamente della pittura: gli specialisti anti-

chi erano i ciceroniani, l’inventore nella modernità Francesco Petrarca. Ma i veri responsabili di questa tecnica alternativa erano stati i Padri della Chie- sa, che sfruttarono abilmente il credito accordato dalla cultura cristiana al- l’immagine, adiuvante della parola nella propagazione della fede: segno gra- fico e segno iconico sono entrambi parimenti trasmettitori del logos divino, appellandosi sincronicamente l’uno all’occhio e l’altro all’orecchio. Dopo la polemica iconoclasta della Riforma, saranno i teorici della Controriforma a recuperare l’utilità didattica e divulgativa della comparazione interdiscipli- nare; il più noto e influente, Gabriele Paleotti, si ingegnò a riesumare le tesi della patristica, riportando in auge, per vie teologiche, la fortuna laica della concomitanza oraziana14.

Ma, restando sul versante secolare della tradizione dell’inventio, è inte- ressante notare come emerga endemicamente, in virtù della sua base tomisti- co-aristotelica, una tendenza alla ripetitività nella compilazione di modelli ed esempi: di trattato in trattato ritornano gli stessi nomi, riappaiono le stesse ci- tazioni, vengono ripresi gli stessi argomenti; se i trattati di poetica enumera- no tutti i lirici d’amore, da Platone ai loro giorni, i trattati di estetica tentano di scrivere una “storia” parallela, elencando i nomi più rimarchevoli secolo dopo secolo. Cosicché, alla fine, ci troviamo davanti due storie a confronto, della poesia e della pittura, con una serie di lunghezza inimmaginabile di ri- scontri incrociati, come se ogni tappa dell’una non avesse ragione di esistere senza un’equivalenza precisa e puntigliosa nell’altra.

1.3. L’esemplificazione

La passione per l’enumerazione tematologica e la frenesia compilativa – in ve- rità presenti in tutte le tradizioni dell’ut pictura poesis – hanno come presup- posto l’esigenza dei teorici di giustificare le proprie teorie con il maggior nu- mero possibile di esempi forti, facilmente condivisibili, tenacemente registra- bili nella mente del lettore. Ma, come dicevo sopra, la tendenza dei trattatisti alla ripetitività conduce a una reduplicazione infinita dei soliti, solidissimi esempi. Paradigmatico è l’esempio di Omero e Zeusi, modelli assoluti di poe- ta e pittore nella civiltà classica, che gli umanisti accolgono festosamente. Sen- tiamo Benedetto Varchi, uno dei maggiori divulgatori, nella trattatistica ita- liana del Cinquecento, del parallelo tra poesia e pittura:

Sono ancora molte altre somiglianze fra i poeti et i pittori; et io per me, come non ho dubbio nessuno che l’essere pittore giovi grandissimamente alla poesia, così tengo per fermo che la poesia giovi infinitamente a’ pittori, onde si racconta che Zeusi, che fu tanto eccellente, faceva le donne grandi e forzose, seguitando in ciò Omero15.

Ma, per stabilire in maniera inequivocabile il criterio di specularità che rego- la il rapporto tra le due arti, non basta dire che il pittore «seguita» il poeta;

occorre precisare che anche l’artista può reciprocamente avvantaggiarsi del talento letterario:

Il che [l’utilità reciproca tra le due arti] si può ancora vedere nella Lupa che allatta e lecca Romolo e Remo, discritta prima da Cicerone e poi da Vergilio in quell’atto e mo- do medesimo che si vede oggi nel Campidoglio16.

Anzi, il pittore può addirittura sorpassare il poeta da cui trae l’ispirazione:

E Plinio racconta che Apelle dipinse in modo Diana fra un coro di vergini, che sacri- ficavano, ch’egli vinse i versi di Omero, che scrivevano questo medesimo fine17.

Dunque, l’imitazione può andare dalla poesia alla pittura, o dalla pittura alla poesia, senza più gerarchizzazione o subordinazione; ciò che conta è l’intera- zione tra le due arti e la capacità del poeta e dell’artista di migliorare le pro- prie capacità mettendosi in relazione diretta con il collega. Il percorso incro- ciato che va da Omero a Zeusi, e da Apelle riconduce a Omero, diviene il pa- radigma stabile dell’argomentazione poetico-estetica dell’epoca. Ma non ba- stano gli esempi classici: il teorico moderno sente la necessità di additare an- che – ed è una novità, nella storia delle idee – esempi moderni; ed è così che la relazione tra Omero e Zeusi si riproduce in quella posta tra Dante e Mi- chelangelo. Ascoltiamo ancora Varchi, il più innovativo – a tale proposito – tra i teorici moderni:

E chi dubita che, nel dipignere il Giudizio della Cappella di Roma, non gli [a Miche- langelo] fusse l’opera di Dante, la quale egli ha tutta nella memoria, sempre dinanzi agli occhi?18

L’originalità di Varchi non consiste soltanto nell’aver posto un parallelo ge- nerale tra un poeta e un pittore, ma tra due opere specifiche, la Divina com- media e il Giudizio universale, di modo che la somiglianza va proprio a tocca- re il nucleo della rispettiva ispirazione:

Io per me non dubito punto che Michelagnolo come ha imitato Dante nella poesia, così non l’abbia imitato nelle opere sue, non solo dando loro quella grandezza e mae- stà che si vede ne’ concetti di Dante, ma ingegnandosi ancora di fare quello, o nel mar- mo o con i colori, che aveva fatto egli nelle sentenze o colle parole. Chi non ricorda, quando vede Minosso, di quell’altro nel Vcanto de l’Inferno?19

Il parallelo riguarda anche la scultura di Michelangelo:

E chi vede la sua Pietà, non vede egli in un marmo viva e vera quella sentenza di quel ver- so che mostrò Dante non meno pittore che poeta? «Morti gli morti, e’ vivi parean vivi»20.

Impossibile dimostrare meglio l’equivalenza tra le arti: Michelangelo può imi- tare Dante indifferentemente nella pittura, nella scultura o anche nei versi, es- sendo sia poeta sia artista, vale a dire un genio davvero completo.

Curiosamente, sfugge a Varchi l’esempio più diffuso della simmetria tra classicità e modernità, un esempio che già Alberti aveva implicato nella sua col- locazione di Giotto accanto a Zeusi e Apelle21; e un Giotto restauratore della

pittura non può non chiamare in causa il restauratore per eccellenza della di- gnità poetica, ovvero Petrarca. Tale parallelo risale molto indietro nella Rina- scenza, addirittura al 1492, nelle osservazioni di Enea Silvio Piccolomini:

Dum viguit eloquentia, viguit pictura sicut Demosthenis et Ciceronis tempora docent. Postquam cecidit facundia iacuit et pictura. Cum illa revixit, haec quoque caput extu- lit. Videmus picturas ducentorum annorum nulla prorsus arte politas. Scripta illius ae- tatis rudia sunt, inepta, incompta. Post Petrarcham emerserunt litterae; post Jotum sur- rexere pictorum manus; utramque ad summam iam videmus artem pervenisse22.

Piccolomini inaugura una tendenza abbastanza tipica della trattatistica rina-